Per un necessario abitare civile

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Quando la perdita della misura si salda alla speculazione finanziaria-immobiliare e alla megalomania delirante delle archistar l’effetto è la disumanizzazione dei luoghi dell’abitare. L’unica soluzione è continuare ad aggiungere individualismo a individualismo, arroganza ad arroganza? Due libri di Graziella Tonon sui conflittuali rapporti tra progetto di edifici e di città, aprono nuovi orizzonti sulla crisi della città attuale.

Graziella Tonon, La città necessaria, Mimesis/architettura, Milano 2013, 12 euro

Graziella Tonon, Architetture per la città: il Moderno a Milano nellAntologia di Piero Bottoni, La Vita Felice, Milano 2014, 14 euro

la_citt___necess_531f7692c70a6Già col titolo del suo libro, La città necessaria, Graziella Tonon dichiara apertamente da quale punto di vista si collochi nella sua analisi della contrapposizione dialettica che, nella storia dell’architettura e dell’urbanistica moderne (e non solo moderne), ha lungamente segnato la distanza tra quanti hanno puntato ad un’architettura della città e quanti al progetto di edifici, affidato alla sia pur peculiare inventività tecnica, progettuale e linguistico-semantica di singole figure individuali di professionisti ed intellettuali.

Con uno scavo archivistico quanto mai approfondito di pubblicazioni e materiali dei principali esponenti del razionalismo italiano, e in particolare di quello milanese che ne ha costituito l’espressione più rilevante sia in termini di teorizzazione concettuale sia di rilevanza quantitativa e di egemonia mediatica, Tonon mette in luce come invece abbia prevalso nella concezione di architettura moderna quella che ha privilegiato l’innovazione tipologica e linguistica dell’edificio.

a8f05b5683 In architettura giungono il più delle volte a risultati di grande eleganza armonica […]. La sensibilità e la maestria con cui mostrano di saper trattare lorganismo architettonico appaiono invece drasticamente ridimensionate quando si occupano di città […]. Nella compattezza del tessuto cittadino ereditato dalla storia e nel sistema dei suoi caratteristici spazi aperti pubblici essenzialmente strade, piazze e piazzette come stanze a cielo aperto i razionalisti non riconoscono gli elementi costitutivi della spazialità urbana […]. La città della tradizione viene condannata ad essere rottamata […]. Nei loro progetti urbanistici domina un atteggiamento riduttivo della realtà propria di ogni realtà cittadina […]. Lattenzione alle singole parti della città prevale sul riconoscimento di ciò che fa di quelle parti un tutto chiaramente riconoscibile come corpo urbano […]. In tale prospettiva lurbanistica non coincide più con larte di costruire le città […]. Ridotta la concezione dello spazio urbano al prodotto di un montaggio scientificamente razionale di parti fisicamente e funzionalmente distinte, si può capire perché la città storica agli occhi dei razionalisti appaia un ferrovecchio da buttare […]. Della città di quegli anni si vedono solo aspetti negativi: conflittualità diffusa, speculazione edilizia, sfrenato consumo di suolo, irrazionale monocentrismo, mancanza di verde, affollamento, promiscuità funzionali e sociali incompatibili, appartamenti dabitazione costruiti su strade corridoio rimbombanti di chiasso, invase di polveri, affacciate su cortili bui (Le Corbusier, 1925)

RicercaPerDocentiPublic.doLambientismo così tra le due guerre in Italia viene definita lattenzione ai caratteri architettonici del contesto è ritenuto responsabile di favorire il proliferare di facciate patinate allantica, incapaci di produrre impianti edilizi e urbanistici razionali. Nello specifico, al centro della polemica è il rispetto degli allineamenti stradali. Tale regola è considerata un ostacolo alla possibilità dei volumi di articolarsi liberamente nello spazio in maniera coerente con le nuove libertà consentite, in risposta alle esigenze funzionali della vita moderna, dal rivoluzionamento della pianta. […] la centralità che la progettazione architettonica razionale assegna alla pianta nella organizzazione spaziale dei moderni volumi impedisce di riconoscere la funzione strategica che larte di costruire le città ha attribuito per secoli alla sequenza delle facciate: creare le superfici-pareti necessarie a dare forma urbana allo spazio delle strade e delle piazze. […] lurbanistica che allarchitettura di facciata affida il proprio disegno viene condannata perché presterebbe più attenzione al passante che allabitante e sarebbe più interessata allo spettacolo della scena urbana che al bisogno di verde, sole, aria e luce degli alloggi […]. La salubrità del moderno interno privato e la bellezza moderna del singolo oggetto architettonico appaiono molto più necessarie della sicurezza e dellantica bellezza dassieme degli spazi urbani del convivere […]. Per i razionalisti vale lo slogan prima la casa poi la città’ (Diotallevi e Marescotti, 1941) o, detto in altro modo, alloggi sani, natura e prospettive aperte in alternativa alla città e alle sue internità”.

Nella moderna città funzionale la strada è concepita esclusivamente come sede dei traffici, automobilistici in particolare. Labitare è confinato nella casa, in un luogo chiuso, privato. Il luogo aperto, pubblico della strada viene escluso. La strada corridoio non deve essere più ammessa, deve lasciare il posto a tracciati separati dalle case, ampi, senza curve, disegnati secondo il principio ortogonale, su misura del mezzo meccanico […]. Lesito, dove ciò si è avverato, è paradossale. Ha consentito infatti alla natura di riprendersi dopo secoli lo spazio che linvenzione della città le aveva sottratto, delimitandolo, differenziandolo dalla campagna e connotandolo, complice la sequenza della facciata delle case, in un interno aperto, pubblico, luogo e simbolo per eccellenza dellabitare propriamente definito: lo spazio civile’”.

Riflettendo sulla notizia, apparsa sulla stampa in questi giorni, che l’hinterland milanese e la Brianza monzese sono il territorio d’Italia e forse d’Europa più estesamente, densamente e continuativamente utilizzato per realizzarvi edifici e strade, io che ci ho vissuto la giovinezza, consideravo che quando ci ritorno non mi ci ritrovo più: prima si andava da un centro urbano all’altro per strade rettilinee in mezzo ai campi, ora si percorrono i retroscena urbani di tangenziali curvilinee raccordate da continue rotatorie e circondati dallo straniante paesaggio di un’infinita villettopoli senza centro. Ma – se si sostituiscono i tracciati rettilinei extra-urbani dello sparuto traffico di singoli veicoli negli anni ‘30-‘60 (che il movimento moderno-razionalista voleva far penetrare fin nel cuore delle città) con quelli curvilineo-clotoidei realizzati dagli anni ‘80 ad oggi per fluidificare il convulso flusso di traffico del suburbio metropolitano, si evidenzia come in entrambe le circostanze l’esito sia un’esperienza spaesante, da far girar la testa.

I giudizi di Graziella Tonon sull’urbanistica e l’architettura urbana del razionalismo italiano, ispirato dai canoni del movimento moderno internazionale, sono avvalorati, come si è detto, da un intenso lavoro di documentazione delle fonti d’epoca che le consentono di focalizzare i limiti e i ritardi nella comprensione dei devastanti effetti che quella concezione stava producendo nel corpo urbano delle città storiche italiane in rapida trasformazione edilizia, anche da parte di figure intellettualmente più preparate come Pagano.

Ancora nel 1939 Pagano definisce restauri i grandi sventramenti di Roma, di Milano, di Padova, di Torino atti di alta chirurgia in cui è divenuta celebre lItalia, rendendo in pochi anni irriconoscibile il centro di parecchie città’ e si rammarica solo del fatto che quei restauri … studiati con spirito di vera attualità, per preoccupazioni monumentali e … assenza di piani organici a carattere rigidamente sociale siano poi stati deformati nella loro realizzazione per ottenere quegli effetti scenografici cari alleducazione scolastica dellottocento. Solo quando, rimosse le impalcature, la Milano rinnovata si rivelerà non solo molto distante dai desiderata dellarchitettura e urbanistica moderna, ma addirittura peggiore della Milano dellottocento distrutta, definita a quel punto una delle più belle città dEuropa, Pagano si scatenerà contro lo scempio perpetrato.

Il fatto che la cultura progettuale più tradizionalista e conservativa dell’ambiente urbano storico (Giovannoni, Calzecchi Onesti, Annoni ed altri) non abbia opposto un’accanita resistenza critica alla politica degli ‘sventramenti’ pur avendone, per lautorevolezza e il ruolo ricoperto, la possibilità […] – scrive Tonon – non giustifica e non diminuisce la responsabilità dei razionalisti, tanto più che una alternativa realistica alle demolizioni si era delineata già da tempo […] come era emerso chiaramente nel 1929 al XII Congresso di Roma della Federazione internazionale dellabitazione e dei piani regolatori, dove Marcel Poëte aveva affermato che una città storica non deve essere distrutta in tutto o in parte per far posto a un centro moderno’”.

Anche i protagonisti socialmente più sensibili come Piero Bottoni – segnala Tonon nell’altro suo più recente libro dedicato agli schizzi preparatori di Bottoni del periodo 1951-1958 per l’Antologia di edifici moderni in Milano – lo riconoscerà autocriticamente solo a partire dagli anni cinquanta, dopo aver avviato una ridefinizione del carattere di ‘modernità’ a Milano.

Larchitettura moderna parrebbe essere divenuta cosciente che la città possiede una sua particolare lingua e che il manufatto architettonico, se non vuole corromperla, deve saperla ascoltare rispettandone i fondamenti: i caratteri dei suoi spazi aperti pubblici insieme alle regole che ne definiscono lestetica dassieme e che nello scorrere del tempo hanno consentito di rinnovarne il fascino […]. Dove limpianto urbanistico assegna alla cortina stradale la funzione ordinatrice degli edifici, le rotture dellarchitettura moderna, spesso discutibili sul piano lessicale, non impediscono allo spazio aperto pubblico di essere ancora percepito come urbano. Dove però lurbanistica, per esigenze trasportistiche e speculative nello stesso tempo, ha permesso a tracciati fuori scala di distruggere le trame delicate e complesse della spazialità storica e ha consentito alle nuove costruzioni di assumere dimensioni mastodontiche, le cortine stradali, nonostante la qualità dei corpi di fabbrica che la compongono, non riescono a restituire allambiente urbano lincanto della bellezza perduta.

Con questa riflessione, tuttavia, non si tratta – ovviamente – solo di riaprire con accresciuta attenzione filologica i temi del dibattito progettuale di quegli anni: il tema del rapporto tra edifici e città nell’aura di un mutamento epocale indotto da una nuova fase tecnologica eco-informatico-mediatico-ambientalista, presuntivamente capace di esaurirne i caratteri del reciproco rapporto, si ripropone oggi con la dilagante ideologia delle cosiddette “smart cities” (in realtà di nuovo proposte come l’esito di una sommatoria di “smart buildings”) che travolgerebbe, cancellandoli, i princìpi del tradizionale town planning, per un apodittico e indefinito Rinascimento Urbano delle nostre città, propagandisticamente posto in capo alle più spericolate trasformazioni urbane veicolate dal capitalismo finanziario multinazionale col compiacente protagonismo mediatico delle cosiddette “archistar”.

Graziella Tonon lo fa nei quattro capitoli conclusivi de La città necessaria, intitolati “Il modo civile di abitare”, “Il passato è rivoluzionario”, “Urbanistica e architettura: un rapporto da rinnovare” e “Per un’urbanistica dell’utilità e della bellezza” in cui prova a tradurre la revisione del rapporto architettura-edificio-città in critica delle esperienze di progettazione urbana degli anni ‘80-‘90 e quelle del primo ventennio del XXI secolo, oggi in corso, e in proposte alternative per il presente e il futuro.

La lottizzazione aperta, su cui si fonda il geometrismo del lotissement rationnel, ma anche la disposizione più mossa degli impianti cosiddetti organici […] avrebbe dovuto dare ordine allo sviluppo delledificato attraverso piccoli insediamenti autosufficienti, configurati, a detta di Walter Gropius, come città rurali in campagne urbane. In entrambi i casi lesito è stato nefasto: si è uccisa la possibilità di ricreare alcune delle caratteristiche che hanno fatto e continuano a fare lidentità e il fascino sia dello spazio aperto urbano sia di quello rurale […]. Le megastrutture, anche quando nei migliori dei casi sono poste in ampie estensioni di vegetazione e si presentano come torri nel parco, producono spesso le seguenti contraddizioni: allesterno, un territorio povero di esperienze, svuotato di attività e presenza umana e destinato inevitabilmente a diventare teatro di comportamenti incivili, oltre che possibile causa di agorafobìa; allinterno, un ambiente super congestionato, che può diventare claustrofobico e alimentare le patologie sociali tipiche delle grandi concentrazioni carcerarie. Il caso delle Vele napoletane insegna”.

Quando poi la dismisura si salda alla speculazione finanziaria-immobiliare di livello internazionale e alla megalomania delirante di tante archistar, produce solo gigantesche, aberranti astronavi che hanno come unico effetto quello di rendere disumani i luoghi dellabitare […]. Larchitettura che dichiara di rifarsi alla storia non dà, daltro canto, sufficienti garanzie. A un estremo si assume il passato come un archivio delle forme in cui pescare liberamente per affermare una personale concezione estetica, senza alcuna preoccupazione di ordine civile. Allestremo opposto, quando lintento è invece quello di riannodare il filo con la tradizione per ricostruire una identità collettiva andata perduta, il riferimento alle forme storiche è spesso letterario, ideologico, intellettualistico. Si scelgono cioè dal passato alcune forme e non altre perché dimostrative di una teoria o evocative duna ideologia, assunta come positiva a priori per il solo fatto di essersi dimostrata tale in passato, e si sostiene che possano per questo essere significative anche nel presente al di fuori dogni verifica empirica […]. Sembra, in questi casi, che si ritenga irreversibile lidea, oggi prevalente, che nella metropoli competitiva e individualistica, frenetica produttrice di profitti e rendite, e riproduttrice altrettanto frenetica di rapporti alienanti tra luomo e lo spazio, non rimanga altro da fare che aggiungere individualismo a individualismo, arroganza ad arroganza […]. Non di rinascimento ma di crisi profonda occorre parlare […]. Lurbanistica che sul tema della città e del suo progetto ha costruito la propria tradizione disciplinare, nella formazione degli studenti occupa un posto sempre più marginale. […] sia la nuova scala della composizione architettonica sia i correlati supporti infrastrutturali […] escludono dal loro orizzonte la costruzione di città, nonostante essa rappresenti il giusto intervallo (Umberto Galimberti, Il corpo, 1987).

Pensiero sui luoghi ed esperienza dei luoghi […] nella progettazione degli spazi dellabitare non dovrebbero mai procedere divisi. Gli architetti e gli urbanisti che più di altri hanno la responsabilità di configurare gli assetti e il destino delle città, a partire dal secondo dopoguerra hanno al contrario teorizzato tale disgiunzione […] da una parte, unurbanistica in cui prevale latteggiamento razionalistico e una figura di planner attento allorganizzazione della civitas, ma dimentico delle forme dellurbs; dallaltra, una architettura dominata da un formalismo indifferente alle esigenze della civitas e un architetto malato dindividualismo che si autodefinisce poetico, nuovamente concepito come un artista a cui si deve concedere totale libertà despressione in nome dellautonomia creativa dellarte: un sistema diviso di pratiche e di saperi incapace di fare città […]”.

Solo se urbanisti e architetti tornano a fare della conformazione dello spazio dellabitare il campo su cui confrontarsi alla pari, possono ricomporre la scissione e la contrapposizione tra corpo e ragione che alimenta piani urbanistici indifferenti alle forme dellarchitettura e progetti architettonici indifferenti al significato e alle forme civili dei contesti. […] a definirla non bastano le quantità volumetriche, e ancor meno le due dimensioni di una maglia viaria, di una lottizzazione o di una zonizzazione. Il controllo degli usi del suolo e la sua suddivisione equa e razionale sono necessari, ma non sufficienti, mentre bastano poche forme architettoniche arroganti per distruggere lincanto di un intero paesaggio e renderlo inospitale.

* Sergio Brenna, docente di Urbanistica presso il Politecnico di Milano.

 

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Sergio Brenna

Sergio Brenna è professore ordinario di Urbanistica presso il Politecnico di Milano. Da anni propone letture critiche e proposte progettuali alternative per le grandi trasformazioni della città e del territorio di Milano. Autore, tra l’altro, di "La città. Architettura e politica. Fondamenti teorico-pratici di urbanistica" (Hoepli, 2004).

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