Se circoscritta al momento del voto e a pratica consensuale, la partecipazione popolare non funziona, e produce anzi un effetto boomerang. La partecipazione funziona invece quando il destino dei territori è inscritto in processi di democrazia diretta e in una diffusa coscienza territoriale. Funziona quando le scelte dal basso e le pratiche partecipative non sono solo una concessione del principe.
Recentemente, a Firenze, è stata invocata dal basso la “partecipazione dei cittadini” come rimedio ai mali di una pessima gestione urbana. “Partecipazione dei cittadini” che è stata in effetti (parzialmente) concessa. Ma non per decidere collettivamente – ad esempio – di un bene monumentale pubblico, come l’ex convento, poi ospedale di militare in costa San Giorgio, passato in mano privata per farne un albergo stralusso. La partecipazione popolare è stata concessa per delineare il futuro Piano Regolatore.
Il senso è: “non vi concediamo la parola su ciò che vi sta a cuore, ma vi diamo libertà di espressione nel piano generale di ridisegno della città”. Una scelta dal sapore demagogico: la brioscia invece del pane.
Perché se “concessa” dall’alto, perché se attinente a complesse questioni di carattere eminentemente tecnico, la partecipazione non può funzionare? Proviamo a capire.
In generale, gli episodi di partecipazione diretta sono diffusi nei paesi nord-europei dove è più forte il senso dell’interdipendenza sociale. In Italia, per ragioni storiche e per motivi legati alla macchina amministrativa, è più diffuso attendersi che siano le istituzioni e il governo centrale a risolvere questi problemi. Se, in alcune città e in alcune regioni (pensiamo, ad esempio, al piano paesaggistico della Puglia), la partecipazione cittadina è stata attiva riuscendo perfino a condizionare alcune scelte del governo locale, oggi il modello è sempre più accentrato, e difficilmente delega o incoraggia la cittadinanza a intervenire direttamente sulle grandi questioni di urbanistica e pianificazione. Ma anche su problemi minori.
Si potrebbe affermare che oggi nelle amministrazioni locali non c’è spazio politico per la partecipazione, poiché esse vi vedono limitato il proprio potere discrezionale o vi intravedono il conflitto tra volontà generale e aspirazioni imprenditoriali o clientelari. Chi dal basso ci ha creduto, dopo anni di attivismo dei comitati nei percorsi partecipativi, si è reso conto che la partecipazione non è decollata. I casi a Firenze sono molteplici: Meccanotessile, Manifattura Tabacchi, Caserma Cavalli, Panificio militare, piazza Annigoni, Le Piagge, San Salvi, Oltrarno etc.
Le istituzioni locali ricorrono a questi percorsi di coinvolgimento, o in caso di elezioni politiche, o in caso di ricerca del consenso su scelte già attuate nei loro fondamenti. In questi casi le pratiche di partecipazione non responsabilizzano gli abitanti, ma anzi risultano strumentali e dannose poiché tendono a ottenere un consenso passivo. Divengono pratiche di raggiro, generano sfiducia popolare nell’apparato politico-amministrativo, se non dissuasione nel coinvolgimento e nell’impegno personale.
Perché le pratiche di partecipazione siano efficaci è necessario che le società locali siano coinvolte in un processo ampio, incrementale, di formazione di una coscienza culturale e tecnica, che siano partecipi di un dibattito tematico, aperto e non orientato. Funzionano se le popolazioni sono abituate a forme di democrazia diretta, come avviene ad esempio in Val di Susa. In questi casi gli abitanti sono abituati a decidere insieme, il che li rende direttamente responsabili degli interventi che si progettano e si realizzano sul territorio.
Partecipare significa autogoverno, progettualità sociale, corresponsabilità nelle scelte sulla città, coappartenenza ai luoghi di vita, e protagonismo collettivo non privo di conflittualità. Altrimenti partecipare significa solo imbonimento.
Ilaria Agostini ed Enzo Scandurra