L’artigianato come mestiere conviviale

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artigianoIl presente esercizio di descrizione* di un futuro possibile il mestiere artigianale – individuale, familiare o cooperativo – è declinato su un esempio concreto: il tessitore a mano. Di un artigiano, cioè, che produce manufatti d’uso, utilizza filati autoprodotti e ricerca lane e fibre locali, che lavora in proprio o collettivamente, tinge, fila, cuce, tesse secondo modelli e metodi innestati nelle tradizioni locali, che non produce scarti, non inquina, non contribuisce allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e che tessendo esercita felicemente la propria libertà. Mestiere che, nel titolo, abbiamo qualificato come “conviviale”.

Convivialità, abbondanza, dono
Ivan Illich utilizza il concetto di convivialità (1973) in opposizione a quello di «produttività industriale». Per il filosofo, l’auspicata – prossima, ventura – società conviviale si distinguerebbe dalla società industriale, nel «passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono» (Illich, p. 31): la carenza è infatti generata ad arte dalla modernità industrialista ed è necessaria alla mercificazione del bene o servizio: quando un bene è raro si è disposti a pagare per fruirne; quindi, allorché si voglia imporre la vendita di un prodotto, se ne impedisce o se ne inibisce la libera produzione e se ne crea carenza e bisogno (pensiamo alle cure tradizionali a base di erbe, bandite dal moderno sistema sanitario e dai medicinali prodotti dalle multinazionali farmaceutiche; nel nostro settore, lo stesso rapporto intercorre tra seta e viscosa, lana e acrilico etc.).
Al contrario il mestiere conviviale è legato all’idea di abbondanza e dono. Abbondanza di tempo dedicato alla realizzazione di un manufatto, mai quantificabile in un’ottica di valore di scambio (da dove cominciare il calcolo delle ore dedicategli? sovente all’artigiano è rivolto l’insolvibile quesito: “quanto tempo ci vuole per fare questo o quell’oggetto?”). E dono dei risultati della ricerca, costante e pluriennale, che deve caratterizzare un mestiere non meccanico, non ripetitivo né schiavistico, e che è impagabile (con quali criteri ripagare la creatività, lo zelo, l’immaginazione?). Il dono si estende anche al particolare tipo di rapporto con il destinatario del prodotto: familiare, amico e, quando estraneo, il destinatario diventa sostenitore del lavoro conviviale, lavoro che gli sarà mostrato e illustrato al di fuori di qualsiasi impegno pecuniario.

Autodeterminazione artigiana
Al concetto di convivialità si collega l’idea di autodeterminazione della persona, del lavoratore, del cittadino, che si esplica in: autoproduzione; sovranità su metodi e tecniche; autolimitazione dei tempi lavorativi, della produzione (in senso quantitativo), dei materiali impiegati, del linguaggio (o “stile”). Un mestiere così inteso, si è accennato, è estraneo alle logiche di profitto. È invece inserito in un’economia di sussistenza, di autosufficienza in senso gandhiano: nella dimensione domestica, «vernacolare», il tessitore produce oggetti d’uso, durevoli e densi di significati condivisi, scevri da «funzione edonistica» (Pasolini), che sono finalizzati alle necessità della comunità/famiglia; la produzione in eccesso è usata per lo scambio con altri manufatti/prodotti non industriali. Nel mondo contemporaneo, gravato da spese impóste, la vendita tuttavia è necessaria, ma l’aspetto di autonomia economica può essere comunque mantenuto; ci interessa infatti in questa sede sottolineare la permanenza di un approccio in un’ottica di rilancio.

Strumenti di lavoro e comunità
Torniamo a Illich. Una società conviviale, scriveva, concede alla persona «l’azione più autonoma e creativa, con l’ausilio degli strumenti meno controllabili da altri» (Illich, 1973, p. 48). Lo strumento di lavoro è mosso dall’energia della persona rigettando, per quanto possibile, l’energia elettrica. È elementare ed austero, ma cólto e raffinato. Semplice, facilmente riparabile in casa, anche senza preparazione tecnica specifica. Quelli con tali caratteristiche, sono strumenti che creano comunità e non isolano l’artigiano in un ambiente esclusivo e incomunicante con l’esterno (ad esempio, il gruppo ristretto di utilizzatori di certe marche o tipi di strumenti, come “mac contro personal computer” etc.). La comunità dell’arte è anzi la più ampia possibile. Nel caso in esame – la tessitura –, comprende almeno: pastori, tosatori, filatori a mano o filatori meccanici di piccola dimensione, cardatori, feltrai, tessitori, tintori, sarti, falegnami, educatori, ricercatori, etc. In genere, i membri si conoscono personalmente, quando necessario si aiutano, sono in una certa misura interdipendenti, ed esercitano un controllo incrociato sulle modalità di produzione e di diffusione dei prodotti.

Tradizione e riproduzione incrementale
Il progetto di un manufatto si inquadra all’interno di una tradizione di lunga data, senza possibilità di prescindere da essa. Si intende qui tradizione nel significato etimologico di traditio e appunto di consegna di un bene ad un soggetto, di eredità e nuovo tramando, ovvero «della trasmissione di esperienza e di cultura manuale e orale, unitamente […] alle materie e alle connesse tecniche storiche» (Emiliani, s.d., p. 7). Il metodo assume come guida la lezione storica che ha valore di limite e regola, nel cui ambito l’artigiano agisce liberamente, come già sosteneva Lévi-Strauss: «Ritengo che la libertà, per avere un senso e un contenuto, non debba, non possa, esercitarsi nel vuoto».
L’evoluzione tecnica, o meglio l’incremento sapienziale e figurativo, non procede unilinearmente, ma pulsa, avanza, arretra nel tempo e nello spazio, non fa salti, non si distacca, raramente (quasi mai) arriva ad “inventare” in senso durevole e socialmente condiviso (la mutazione «presto dimenticata» non si vuole infatti considerare invenzione); “innovazione” è poi un’espressione squisitamente industriale che sostituiremmo almeno con “retroinnovazione”, o meglio col sintagma “riproduzione incrementale” denso di valore evolutivo.

Il savoir-faire e la sua trasmissione
La trasmissione del sapere artigiano «come una danza, come un’arte oratoria: come un teatro» (Emiliani, s.d., p. 13), è un altro importante capitolo del mestiere manuale. Prioritariamente raggiunta attraverso l’apprendistato in bottega, la trasmissione è al tempo stesso aperta all’autodidattica, alla ricerca dei saperi presso molteplici fonti e molteplici luoghi, che tuttavia non possono sopperire al corpo a corpo tra maestro e allievo. Siamo comunque dell’avviso che il mestiere conviviale debba mantenersi estraneo al mercanteggiamento del sapere e all’autoproclamazione del maestro, poiché l’apprendistato rimarrà sempre strumentale alla permanenza culturale del mestiere – la traditio ­–, piuttosto che alla sussistenza economica dell’artigiano-docente.

Un mestiere antropogenetico
«Come può un uomo che non fa nessun lavoro manuale avere il diritto di mangiare?» si chiedeva Gandhi (Gandhi, p. 36). Sappiamo quale importanza il maestro indiano attribuisse al lavoro fisico e manuale. Com’è noto, riteneva che filare a mano almeno un’ora al giorno – il «più adatto e accettabile lavoro fisico sacrificale» (ivi, p. 109) – sarebbe dovuta diventare un’attività di crescita spirituale e di rigenerazione morale per ogni abitante dell’India: evidenziava in ciò il valore antropogenetico del lavoro manuale, ossia la capacità insita nel linguaggio gestuale (oltre che verbale) di creare una società. La diffusione della tessitura del khadi in ogni villaggio avrebbe costituito il segno di un’unità territoriale, di un sistema economico-politico autonomo, di una civiltà. Molti decenni dopo, in consonanza con lo stesso Gandhi la filosofa francese Françoise Choay afferma che il mantenimento in vita delle competenze artigiane, anche nella loro dimensione metafisica e simbolica, è alla base della continua rifondazione materiale del genere umano e delle sue comunità. Ossia, il mestiere artigiano non solamente fonda la società, ma ne garantisce la vita e il futuro.

Un futuro artigiano
Il manufatto si adatta alla civiltà locale, la determina, e la rappresenta nella continua e inesauribile declinazione dei saperi. La trasmissione evolutiva dei saperi costituisce un antidoto alla normalizzazione globale, al pensiero unico, anche nell’ottica di riproporre la manutenzione in luogo della sostituzione, che nell’ultimo secolo ha fatto piazza pulita dei mestieri manuali – mi riferisco anche a quelli propri del territorio (agricoltori tradizionali, pescatori, boscaioli, pastori, fabbricanti di calce, rabdomanti etc.), della città (scalpellini, decoratori, lastricatori, fontanieri, falegnami, carpentieri, muratori etc.) nonché quelli del restauro artistico. Garantire la continuità – o «intraprendere la riconquista» (Choay) – dei mestieri manuali tradizionali è «un compito perfino entusiasmante», scrive Andrea Emiliani, storico dell’arte e a lungo soprintendente a Bologna, «ma occorre che l’artigianato prenda a ripercorrere la sua più esatta nozione di campo e apprenda a sentirsi grande, impegnato, autorevole, anziché graziosamente marginale. Il cammino futuro del paese italiano e delle sue istituzioni va, o ritorna, a quelle prime condizioni artigiane» (Emiliani, p. 10).


 

Riferimenti bibliografici

  • Françoise Choay, Le patrimoine en questions. Anthologie pour un combat, Seuil, Paris, 2009
  • Commissione per il futuro dell’alimentazione e dell’agricoltura, Manifesto sul futuro dei sistemi di conoscenza. Sovranità della conoscenza per un pianeta vitale, ARSIA-Regione Toscana, Firenze, 2009
  • Andrea Emiliani, L’artigianato, i suoi modelli culturali, la città storica, s.d., www.italianostra.org
  • Mohandas K. Gandhi, Villaggio e autonomia. La nonviolenza come potere del popolo, LEF, Firenze, 1982
  • Ivan Illich, La convivialità, Mondadori, Milano, 1974 (ed. orig. Tools for conviviality, Glasgow, 1973)
  • Claude Lévi-Strauss, Razza e storia, Einaudi, Torino, 2002 (ed. orig.: Race et histoire, Paris, 1952)
  • Pier Paolo Pasolini, Volgar’eloquio, Athena, Napoli, 1976

 

*Testo dell’intervento di Ilaria Agostini a “Tessere: un lavoro possibile“, convegno organizzato dall’Associazione Amici della Scuola Leumann Villaggio Leumann, Collegno (TO), 26 settembre 2014.

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Ilaria Agostini

Ilaria Agostini, urbanista, insegna all'Università di Bologna. Fa parte del Gruppo urbanistica perUnaltracittà. Ha curato i libri collettivi Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014 e Firenze fabbrica del turismo.

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