2010-03-14 19:16:58
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<p style="margin-bottom: 0cm;">[Il Fatto quotidiano, 14/03/2010]</p>
<p style="margin-bottom: 0cm;">Sono due gli elementi principali che caratterizzano la cultura politica italiana degli ultimi quarant’anni. Uno è il potere sproporzionato dei partiti politici, che si distinguono per arroganza e arbitrio perfino in un contesto internazionale di degrado della rappresentanza politica. Solo in Italia, tra tutte le democrazie europee, la letteratura scientifica fa ampio uso del termine “partitocrazia” e il livello di fiducia nei partiti è inabissato all’8,6% (dicembre 2009). Anche il Parlamento, la più preziosa delle istituzioni democratiche, ma anche un luogo lontanissimo dalla vita quotidiana dei cittadini, gode di scarsa fiducia, solo il 18,3%. L’altro elemento è una società civile che mostra senza dubbio molteplici difetti e insufficienze ma cresce, quasi come risposta obbligata alle inadempienze della società politica. La sua caparbietà, i forti valori e la capacità di rinnovarsi hanno avuto riconoscimento anche a livello internazionale. Il Civicus Global Survey of the State of Civil Society, pubblicato in due volumi nel 2007-8, ha collocato la società civile italiana al quarto posto tra i quarantacinque paesi presi in considerazione . Nella storia di questa società civile si possono distinguere in era repubblicana tre fasi principali, assai diverse tra loro. La prima è quella delle subculture forti, sia cattolica sia comunista, degli anni ’40 e ’50, solo parzialmente autonome da poteri fortemente centralizzati. La seconda è quella massiccia degli anni ’70, marcata da grandi innovazioni come i consigli di fabbrica, ma venata da una forte tensione ideologizzante, mai molto lontana dalla violenza. L’ultima fase, nata con il 1989 in Europa dell’Est, fiorisce pienamente in Italia solo nel primo decennio di questo secolo. Essa pone un forte accento sui temi della pace, della difesa della Costituzione, dell’ambiente, cerca di costruire solidarietà orizzontali tra cittadini, invece che solidarietà verticali, tra patrono e cliente, così tipiche della società italiana. Naturalmente sarebbe un errore grossolano presentare un quadro manicheo, in cui la società politica sia luogo di tutti i peccati e la società civile scrigno di etica e virtù. Mi auguro di non essere così superficiale. Resta il dato di fatto della sostanziale incomprensione tra le due società: la prima vede la seconda come ausiliare alle sue funzioni e la seconda vede la prima come usurpatore di tutto il potere decisionale. A questo punto vorrei complicare il quadro. Finora ho parlato di due modalità di associazione – quella politica e quella civile. Ora vorrei aggiungere due forme di democrazia – quella rappresentativa e quella partecipata. Come si configurano questi quattro elementi nella storia della Repubblica italiana e soprattutto come potrebbero configurarsi in futuro? In altre parole, che forma assume il quadrilatero che ha come vertici le due forme di democrazia e i due modi di associarsi? Non è una questione di poco conto per il futuro della democrazia italiana. In questa sede posso concentrarmi solo su un momento particolare, ripetutosi però più volte negli ultimi anni, il momento in cui una parte significativa della società civile si mette in movimento e incontra sulla sua strada la società politica, rappresentata dai partiti del centrosinistra. È un incontro-scontro senza procedure prestabilite. La retorica utilizzata dai partiti in queste occasioni è sempre la stessa – di inclusione, valorizzazione, partecipazione. La realtà delle loro azioni parla invece di un grande rifiuto, quasi di un’insofferenza, dietro la quale si cela la riluttanza o l’incapacità di teorizzare e di praticare nuove forme di democrazia. Di fronte a questo muro di gomma il dinamismo della società civile si fiacca e si scoraggia. Migliaia di cittadini si allontanano sia dalla società politica (‘non vale la pena neanche votare’) sia da quella civile (‘tanto il nostro impegno non serve a nulla’). Come si può evitare una sindrome tanto autolesionista? Bisogna interrogarsi su come riavvicinare la società politica a quella civile, e allo stesso tempo combinare le due forme di democrazia, quella rappresentativa e quella partecipativa. Delle tante sperimentazioni internazionali di questi ultimi anni, scelgo due che possono esserci d’aiuto. La prima è americana d’origine, la seconda brasiliana; la prima ha a che fare con la forma della deliberazione e la seconda con l’esercizio del potere.</p>
<p style="margin-bottom: 0cm;">The Electronic Town Meeting, come viene chiamato, è un’assemblea pubblica che a giudizio della quasi totalità dei partecipanti si distingue in positivo da un’assemblea tradizionale. Nel Town Meeting i partecipanti sono riuniti in piccoli gruppi attorno a tavoli rotondi. Ad ogni tavolo siede un facilitatore che ha il compito di garantire che la discussione si svolga in maniera fluida e democratica. Si inizia ascoltando le comunicazioni degli esperti, mirate ad informare il Meeting sulle tematiche oggetto di dibattito, presentando visioni diverse del problema considerato. Segue la discussione ai tavoli, una forma di dibattito che agevola l’ascolto reciproco e il confronto con opinioni divergenti dalla propria. Le decisioni dei tavoli sono comunicate elettronicamente ai coordinatori del Meeting che hanno il compito di presentarne una sintesi all’atten zione di tutta l’assemblea, chiamata quindi ad approvare un documento finale. I partecipanti a questo tipo di assemblea parlano spesso, conclusi i lavori, della ‘magia’ della formula, di ‘gioa pubblica ’, della sensazione forte che ‘la politica dovrebbe essere questo’. Bisogna notare che gli Electronic Town Meeting hanno costi elevati e non sono facilmente riconvocabili. Ma va anche osservato che esistono sperimentazioni recenti, come quella dell’associazione fiorentina ‘Sinistra unita e plurale’, mirate a sviluppare forme di Town Meeting quasi a costo zero.</p>
<p style="margin-bottom: 0cm;">Tornando al momento politico che ho isolato, quello dell’incontro-scontro tra società civile e partiti politici, sarebbe tutt’altro che impossibile proporre un Town Meeting per portare avanti la discussione in modo proficuo. Il tema in oggetto potrebbe essere: ‘Quale è la strategia migliore per rafforzare la democrazia italiana in questo momento storico?’L’assemblea potrebbe essere composta per un terzo dai rappresentanti dei partiti, per un terzo dalla società civile e il restante terzo (importantissimo) selezionato per sorteggio. Le discussioni ai tavoli sarebbero davvero interessanti. Attenzione, però. Per quanto la formula sia affascinante il Town Meeting elude la questione principale: chi, alla fine, decide? A questo punto ci viene in aiuto il secondo esempio, quello di Porto Alegre in Brasile. Il Bilancio Partecipativo è un processo a cadenza annuale che coinvolge a vari livelli migliaia di cittadini. Con l’ausilio di esperti vengono individuate le priorità da sottoporre ai consigli municipali locali. Questo processo deliberativo esteso – che non si limita alla discussione ma include l’elezione di delegati al Consiglio di bilancio – ha impatto sui politici. Benché il processo partecipativo non rivesta alcun potere formale, non si è a conoscenza di casi in cui il consiglio municipale abbia bocciato le priorità segnalategli. L’esperimento di Porto Alegre ormai ha superato il momento d’oro ma il suo esempio si è esteso ad altre 170 città brasiliane. Unire la forma del Town Meeting con la sostanza e l’impatto del processo di bilancio partecipativo rappresenta una valida base su cui poter fondare una democrazia combinata. Il potere e la responsabilità dei rappresentanti non ne escono negati e neppure sminuiti. Sono piuttosto modificati e arricchiti dalle attività deliberative che hanno luogo intorno a loro. E sotto il profilo teoretico il punto cruciale del rapporto tra democrazia rappresentativa e partecipativa è che l’attività della seconda garantisce la qualità della prima. Al contempo i cittadini membri della società civile non tornano a casa con una sensazione di impotenza personale e di separatezza dalla sfera politica, ma si sentono coinvolti in un processo democratico che ha forma e sostanza.</p>
<p style="margin-bottom: 0cm;">di Paul Ginsborg

Redazione

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