Caselli all’università di Firenze. Un caso di tolleranza regressiva

La tolleranza che ingrandì la portata e il contenuto della libertà fu sempre partigiana – intollerante verso i protagonisti dello status quo repressivo.

Herbert Marcuse, 1967

La decisione dell’ex procuratore Gian Carlo Caselli di non partecipare ad una lezione sulla mafia che si sarebbe dovuta tenere al Polo Universitario di Novoli, a Firenze, per le annunciate proteste di alcuni gruppi e collettivi studenteschi, ha scatenato un vespaio di polemiche.

Il grande nodo del contendere ha, sostanzialmente, riguardato la figura di Caselli. Questi, visto da uno schieramento larghissimo di soggetti e forze come paladino della lotta contro la mafia, rappresentava, e continua a rappresentare invece, agli occhi dei contestatori, uno dei principali accusatori giudiziari e politici del movimento no Tav. Nei fatti quindi, mentre i primi rimanevano basiti per una contestazione diretta contro chi ritenevano incontestabile, i secondi rifiutavano la possibilità che il Caselli anti-mafia (sul quale comunque avanzavano dubbi) potesse essere separato dal Caselli, passateci la semplificazione, vibrante animatore del castello giudiziario costruito contro il movimento no Tav.

No repressioneSinceramente però, per quanto le questioni sopraccitate possano essere ferocemente dibattute, ritengo che il nodo del contendere fosse e resti altro. Cosa si nasconda dietro le accese polemiche per il non-intervento di Caselli all’Università di Firenze lo ha, maldestramente aggiungerei, svelato il preside della facoltà di Giurisprudenza, Paolo Cappellini, che ha ricordato come sia “assolutamente inconcepibile che ad una persona qualunque, fosse stato anche il capo di Casapound [..interrotto dall’intervento stizzito di uno studente, frase che presumibilmente sarebbe terminata con ‘sia impedito di parlare oppure di esprimersi liberamente’] ..siamo in democrazia le opinioni si discutono, fino a quando si possono discutere le opinioni siamo in democrazia” (qui il video integrale).

Questa presa di posizione è, a mio giudizio, rivelatrice della tolleranza regressiva, nel senso di foriera di un arretramento sociale, politico, ed intellettuale della società tutta, che anima il comportamento ed il pensiero della classe dirigente di questo paese. La tolleranza regressiva è il portato diretto del concetto negativo di libertà che anima il pensiero unico dominante, plasmato e derivato dalla proprietà privata eretta a fondamento assoluto dei rapporti sociali umani.

unnamedTale libertà non è quindi liberazione, intesa come specifica ed autonoma capacità di giudizio e di azione umana, ma è compromesso tra individui competitori. Compromesso che, ça va sans dire, si fonda e resta sui rapporti di forza esistenti. La tolleranza regressiva rappresenta quindi una visione anti-olistica perché riduce il tutto alla somma delle sue parti, proclamando un’apparente tolleranza universale ed universalizzante che si riduce ad essere, in realtà, strumento di contenimento. Nei fatti è proprio questo proclamare libera la società non-libera che previene il cambiamento stesso. Tale vulgata teorizza, come esplicitato dalle parole del preside, il diritto di ciascuno di poter esprimere la propria opinione, non importa quanto questa vada a detrimento della collettività tutta. Immagina così, farsescamente, di realizzare in una società profondamente diseguale l’uguaglianza nell’accesso alla parola.

Eppure Don Milani ce lo ha spiegato tanti anni fa che “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra diseguali”. Soprattutto però la tolleranza regressiva erige il conformismo a virtù, l’eteronomia ad autonomia di pensiero. Inculca, trasforma, e plasma i più intimi pensieri, salvo poi erigerli a libera e cosciente espressione della volontà umana. In questa società dove lo sfruttamento è opportunità lavorativa, dove la devastazione ambientale è opera di progresso, dove lo spreco e l’obsolescenza programmata sono eretti a fondamento logico della produzione, la tolleranza universalizzante sostenuta dai governanti si trasforma nello strumento funzionale al mantenimento dello status quo, impedendo alternative radicali e qualitativamente significative al presente.

Insomma, se le differenze sociali non fossero mai esistite, se il modo di produzione vigente non fosse lo specchio reale, presente, visibile dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, allora la loro tolleranza universale sarebbe realmente tale. Ma se quanto detto non si è mai dato da quando le forme primitive di comunismo sono state abbandonate per sempre, l’unica tolleranza in grado di esprimere liberazione è sempre stata, e rimane, quella partigiana. Quella, per così dire, intollerante con gli intolleranti.

Gianni Del Panta è un attivista, studioso di Scienze Politiche


Leggi l’appello dei Collettivi intitolato “CHI ZITTISCE CHI? No alla criminalizzazione del dissenso all’Università di Firenze”