Se qualcuno cercasse un antidoto all’oscurantismo, un elisir da consegnare a tutti gli omofobi e transfobici, questo sarebbe probabilmente Pose, una serie tv approdata da poco in Italia. Un prodotto televisivo pop e colorato con il quale il produttore e regista Ryan Murphy, che ha realizzato numerose serie antologiche di successo – da Glee ad American Horror Story, da Feud ad American Crime Story – lancia un importante messaggio politico. Murphy ama gli eccessi, ha uno stile decisamente camp anche se lui preferisce definirsi barocco, talvolta risulta difficile vedere i messaggi politici dietro i colori e gli abiti eccessivi, ma stavolta racconta una storia che da tempo voleva portare al grande pubblico e tutto funziona alla perfezione, dalla sceneggiatura agli attori, molti dei quali alla prima prova.
Pose ci catapulta in mezzo alla comunità trans, gay, nera e latina, gli ultimi degli ultimi nella New York di fine anni ’80, una comunità minacciata dall’AIDS e dalla droga e che ha nella prostituzione quasi l’unica fonte di sussistenza. Eppure tra le giornate consumate in appartamenti fatiscenti ad Harlem (oggi in piena gentrificazione) e le notti passate sui moli del West Village (lì la gentrificazione ha vinto da tempo, facendone una delle zone più esclusive di Manhattan) tra prostituzione e spaccio, questa comunità si inventò una controcultura, quella dei ball, un incrocio tra un ballo e una sfilata, in cui le persone si sfidano interpretando dei ruoli e chi li interpreta meglio vince. Assurdo, vero? Giovani gay o trans neri e latini, poveri se non poverissimi che sfilano e si sfidano imitando la cultura bianca con vestiti e atteggiamenti, una cultura bianca che negli anni ’80 non era altro che denaro ed edonismo. Ma la ballroom culture rappresentava il tentativo di riscatto di uomini e donne giovanissimi che, non solo erano esclusi completamente dalla società rampante e sempre più volgare dell’America reaganiana, ma erano anche stati allontanati dalle loro famiglie. Dato che l’unica casa che riuscivano a trovare erano le panchine dei moli e dei parchi, questi giovani reietti cercavano un loro spazio nel mondo interpretando nella maniera più fedele possibile un modello irraggiungibile e lo facevano esprimendo pienamente la loro creatività in un ambiente dove comunque si sentivano a casa e protetti.
“Casa” è un’altra parola chiave di questo mondo, perché i membri più anziani di questa comunità, che spesso non raggiungevano nemmeno i trent’anni, aprivano le loro case ai giovanissimi senzatetto e davano un riparo, e anche un nuovo nome. Tutti questi misfits erano riuniti in case dai nomi che per loro dovevano dare l’idea di ricchezza o di esoticità, nomi come Xtravaganza, Magnifique, La Beija, Ninja quando non addirittura Saint Laurent o Chanel. A capo di ognuna di queste case c’era una madre che era sempre una donna transgender.
Il materno, il significato più profondo dell’essere madre, è uno dei temi più dirompenti e politici di questa serie, perché proprio in un momento in cui c’è un ritorno al passato su certi temi, mettere in scena una serie di figure materne che non sono madri biologiche è un grande atto di ribellione. In Pose ci sono madri biologiche che cacciano di casa i propri figli perché gay, donne trans che si prendono cura di questi ragazzi e che fanno loro da madri, una su tutte la figura di Blanca Evangelista, e donne che non sono madri come Helena St. Rogers, insegnante di danza moderna, ma che è l’unica ‘madre’ a prendersi cura di un allievo malato gravemente di AIDS, abbandonato da tutti che lei va a trovare ogni giorno e accompagna fino alla morte. Un’intera puntata, intitolata per l’appunto “Mother”, è dedicata a questo tema e ruota attorno a Blanca, giovane donna trans, e al suo rapporto con le due madri: la madre biologica che l’ha cacciata di casa pur amandola profondamente, la madre della casa alla quale appartiene, Elektra, con la quale c’è un rapporto di amore-odio, che però l’ha salvata dalla strada e che Blanca a sua volta salverà dalla povertà e dalla solitudine. Su tutto questo si innesta la volontà di essere madre e di salvare i ‘figli’ e, per svolgere questo ruolo al meglio, spesso si consulta con Helena che si schernisce affermando ‘Non credo di essere la persona più adatta, io non sono madre’, mentre invece è proprio la persona in grado di dare i consigli migliori.
Su tutto questo, aleggia il fantasma dell’AIDS che nel 1987 equivaleva a una condanna a morte; Murphy non ci risparmia gli ospedali dove le infermiere per paura del contagio non portano neppure il cibo ai pazienti e le giovani vite portate via dentro sacchi della spazzatura neri. È una realtà che ha conosciuto e ce la vuole sbattere in faccia, soprattutto la vuol sbattere in faccia a quell’America che lasciava morire tanti giovani senza neppure mettere a disposizione i medicinali (su questo tema da vedere il documentario How to survive a plague e il film Dallas Buyers Club).
Il ritorno agli anni ‘80 è un modo per interpretare il presente, quegli anni sono per Murphy il peccato originale che ci ha trasformati in quello che siamo oggi, non a caso uno dei protagonisti, un ragazzo di provincia con moglie e figli che si innamora della trans Angel, lavora per Trump e, per lui e gli altri The Donald è un mito, il suo successo è quello a cui tutti aspirano.
I vestiti, le scenografie e le patinatissime scene dei ball sono l’omaggio di Murphy a questo mondo che nel 1990 la regista Jennie Livingston immortalò nel documentario Paris is Burning, che fece conoscere al mondo questa realtà. La scena del furto dei vestiti regali al museo, uno degli episodi più celebri realmente accaduti, è un esempio perfetto di questo omaggio: il montaggio serrato sul ritmo di In my House delle Mary Jane Girls con le protagoniste che si specchiano nelle opere d’arte del museo, sfilano in abiti regali e infine vengono arrestate, tutto in un unico montage. Al contrario, il documentario della Livingston non è per niente patinato, ci mostra la vita reale di queste persone, i loro veri volti e le loro vere vite. La maggior parte dei protagonisti intervistati nel documentario oggi è morta, alcuni lo erano già quando il documentario uscì, come la bionda Venus trovata morta in un albergo squallido uccisa da un cliente. Allora come oggi la comunità transgender è la più colpita dalla violenza anche in Italia, tanto che il nostro paese è la seconda nazione in Europa per omicidi a sfondo transfobico. Paris is Burning fece conoscere al mondo anche il voguing, lo stile di ballo che imita le pose delle foto di moda e che Madonna portò al grande pubblico con una vera e propria operazione di appropriazione culturale.
Murphy, invece, ha schivato con intelligenza il rischio di appropriazione culturale da parte di un uomo bianco che racconta il mondo delle trans latine e nere, e lo ha fatto coinvolgendo nel suo progetto sceneggiatrici e produttrici trans, consulenti provenienti realmente dal mondo dei ball di Harlem e riunendo il più numeroso cast di attrici transgender mai visto in tv accompagnate da un altrettanto numeroso gruppo di attori gay afroamericani. Questa scelta si nota moltissimo guardando la serie, pesa soprattutto la scrittura che ha visto coinvolte sia Our Lady J, già sceneggiatrice di Transparent, che Janet Mock, giornalista e sceneggiatrice, entrambe transgender. E qui Pose è capace di far cadere il primo tabù, mostrandoci la normalità di queste vite con gli amici, gli amori e la fatica di tirare avanti ogni giorno, facendoci comprendere però le difficoltà del rapporto con il proprio corpo e del riuscire a trovare un lavoro al di là della prostituzione e, cosa ancor più difficile, riuscendo a renderci partecipi. La sceneggiatura è uno dei punti di forza della serie, in certi punti riesce a prendere lo spettatore per mano e a portarlo esattamente dove le autrici vogliono.
Pose rende finalmente omaggio alla comunità trangender, la più discriminata, e stigmatizza la transfobia anche tra gli uomini gay con un episodio in cui Blanca e un’amica vengono cacciate da un bar frequentato da gay bianchi. Mentre Blanca è molto ferita perché si sente esclusa dalla sua comunità, Lulu le dà una lezione di vita: ‘Tutti hanno bisogno di qualcuno che li faccia sentire superiori, la fila finisce con noi, però. Questa merda scorre giù sulle donne, i neri, i latini, i gay, fino a raggiungere il fondo e ad atterrare su quelle come noi.’. Del resto anche le trans che diedero avvio ai moti di Stonewall, di cui quest’anno si celebra il 50esimo anniversario, Sylvia Rivera e Marsha Johnson furono molto osteggiate negli anni successivi dal movimento stesso, tanto che Sylvia passò anni in preda alla dipendenza e ai problemi psichiatrici, mentre Marsha fu uccisa e il suo assassino non fu mai trovato. (Alle loro vicende David France ha dedicato l’anno scorso un documentario molto forte Life and death of Marsha P. Johnson).
Murphy lancia un appello anche alla comunità LGBT perché sia unita finalmente e non lasci più indietro nessuno.
*Francesca Conti
Francesca Conti
Ultimi post di Francesca Conti (vedi tutti)
- Assange è libero, una buona notizia per la libertà di stampa - 3 Luglio 2024
- Nuova Visa per i nomadi digitali, perché non è una buona notizia - 22 Maggio 2024
- Libertà di stampa e di opinione, con la guerra a Gaza l’ora più buia - 7 Maggio 2024