In questo momento difficile che pervade le nostre vite, sono grandi anche gli interrogativi sulla potenziale “ripartenza dell’economia” a partire dalla tanto attesa fase due della pandemia da Coronavirus e sul ruolo che l’Europa può o dovrebbe avere nel garantirla senza traumi sociali partendo anche da una rivalutazione della Finanza pubblica. Marco Bersani di Attac Italia, da sempre impegnata nella campagna per la ripubblicizzazione della Cassa Depositi e Prestiti, e Andrea Baranes, vicepresidente di Banca Etica ed esperto di contraddizioni del sistema finanziario, ne hanno discusso il 17 aprile scorso in un seminario online promosso dalla Rete dei Beni Comuni e a cui ha aderito anche Mag Firenze.
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E’ fuori discussione che oggi l’economia necessiti di forti investimenti pubblici per sostenere il reddito delle persone in difficoltà, per la necessità di una riconversione ecologica del sistema, per riassorbire quelle attività che non torneranno ai precedenti livelli occupazionali. Tutto ciò però non può essere delegato al populismo della politica né ai dogmi dei tecnocrati della finanza. Equità e giustizia sociale sono obiettivi troppo importanti per essere lasciati nelle loro mani: a perdere saranno i bisogni e gli interessi dell’intera popolazione mondiale.
La finanza pubblica e il debito dello Stato sono naturalmente intrecciati tra loro. Ma se il debito pubblico non era sostenibile prima della crisi come può diventarlo adesso? Ecco allora affollarsi nel dibattito domande su cui è giusto e necessario riflettere se vogliamo trasformare questa crisi in un’opportunità di cambiamento radicale dell’esistente. Per trovare nuove risorse è necessario indebitarsi? Che cosa impedisce una corretta gestione della spesa pubblica a partire dai servizi sociali e dal welfare? Saremmo in grado di mettere in discussione le modalità di determinazione degli interessi sul debito pubblico? E in democrazia vi pare normale che gli Stati debbano pagare interessi sull’emissione di nuova moneta? Ed è normale che il tasso di interesse sia sottomesso alla valutazione di agenzie private di rating?
Lo Stato italiano spende fra i 70 e i 90 miliardi di interessi e questa voce rappresenta il terzo capitolo di spesa dopo sanità e previdenza ed è più di quanto lo Stato spenda per la pubblica istruzione. Ai tempi della pandemia il forte “rischio” – per il Sistema – è che le persone “comuni” possano finalmente iniziare ad immaginare cosa potrebbe essere fatto con questi soldi. Siamo talmente abituati a pensare al debito e agli interessi come leggi ineluttabili che non riusciamo neanche a immaginarlo: innanzitutto avremmo già estinto il debito pubblico da alcuni anni (dagli anni ‘80 a oggi sono stati pagati oltre 4 mila miliardi di interessi a fronte di un debito di 2300 miliardi che non è affatto diminuito), ma in fasi depressive come questa si tratta di risorse particolarmente preziose per tutto quello a cui abbiamo accennato.
Con 90 miliardi di euro l’anno si potrebbe istituire un reddito universale di base, si potrebbe investire sulla scuola perché diventi uno strumento di formazione per veri “cittadini sovrani”, si potrebbe investire nella ricerca pubblica, sulle energie rinnovabili e sulla bonifica e messa in sicurezza del territorio. In breve si potrebbe sfruttare l’occasione presente per riconvertire l’attuale economia lineare in un’economia circolare e sostenibile, dal punto di vista economico, sociale e ambientale.
Marco Bersani ha spiegato bene durante il seminario ciò che rende difficile questa opzione redistributiva. “Il liberismo ha invece bisogno di creare sperequazione sociale per trovare ulteriori occasioni di profitto, e la trappola del debito è uno dei sistemi migliori con cui riesce a farlo e con cui ha potuto rimandare di qualche decennio la sua inesorabile fine. La narrazione della favola secondo cui fare il proprio interesse corrisponde a quello di tutti è tornata in forte auge negli anni ‘70 sull’onda di una serie di innovazioni senza precedenti, in cui la tecnologia ha consentito di annullare le distanze e moltiplicare i profitti, con la promessa che questo avrebbe aumentato a cascata il benessere di tutti”. Per “tutti” si è inteso purtroppo solo la parte minoritaria del pianeta, senza considerare le conseguenze ambientali dell’abuso delle risorse né la maggioranza della popolazione, impoverita a tal punto da non potersi permettere proprio nulla dei beni prodotti dal capitalismo. Per cui negli anni ‘80 il mercato si è saturato velocemente: nessuno si comprerebbe 10 automobili o 20 televisori, per quanto il consumismo possa spingere alla schizofrenia i nostri comportamenti.
“La finanza – ha detto Bersani – ha consentito di rimandare temporaneamente proprio questo problema: se non posso più fare soldi vendendo merci li posso fare scambiando denaro”. In breve, sono stati liberalizzati i movimenti di capitale con la creazione di sempre maggiori paradisi fiscali impuniti e creando concorrenza fiscale fra gli Stati. I grandi capitali hanno trovato una scappatoia per sfuggire alla progressività delle imposte (meccanismo costituzionale con cui i redditi più alti pagano una percentuale di tasse più alta, la cosiddetta “aliquota” progressiva) che gli Stati hanno dovuto quasi annullare per evitare la “fuga di capitali all’estero”. Il sistema bancario nel giro di 10 anni è passato dal controllo pubblico con il riconoscimento della funzione pubblica di tutela del risparmio al totale controllo privato e la finanza ha assunto dimensioni assolutamente ipertrofiche e sproporzionate con effetti talvolta devastanti su prezzi di prima necessità e sugli interessi sul debito pubblico. Quello che prima lo stato percepiva a titolo di imposte ha dovuto iniziare a chiederlo a titolo di debito, ma non è questo che ha fatto superare le soglie considerate accettabili.
“Negli anni ‘80 il debito pubblico infatti è passato dal 57% del PIL al 122%, ma la spesa pubblica italiana è cresciuta soltanto dal 42.1 al 42.9% del PIL, mentre la media europea è stata 45.5 – 46.7% nello stesso periodo (47.7- 48.8% per i paesi dell’euro). Sia in senso assoluto che di aumento relativo abbiamo quindi speso meno degli altri paesi “vicini”. Non è vero quindi che “abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità”, come ci ripetono i tecnocrati della finanza”. Cosa è stato quindi che ci ha portato a questa situazione? La risposta va cercata altrove, nei meccanismi con cui lo stato emette la moneta, strumento necessario per gli scambi economici.
Continua Bersani. “In risposta alla politica di liberalizzazione dei capitali promulgata dai neoliberisti della scuola di Chicago (nota anche per aver dato il suo decisivo contributo all’impoverimento dei paesi del Sud del mondo) nel 1981 è stato sancito il divorzio fra il Ministero del Tesoro e la Banca di Italia, cioè del sistema con cui quest’ultima comprava i titoli del debito pubblico emessi dallo stato rimasti non venduti alle condizioni previste dalle aste. In questo modo lo stato si è trovato costretto ad aumentare il tasso di interesse offerto ai risparmiatori per potersi garantire il collocamento di tutti i titoli che di volta in volta venivano emessi”.
E’ venuto a mancare cioè uno strumento fondamentale di politica monetaria con cui lo stato emette moneta e al tempo stesso può sostenere l’economia del paese senza gravarsi di eccessivi interessi. Ma da quando la Banca di Italia si è resa indipendente dallo stato la collocazione di ultima istanza non è più stata garantita e i titoli pubblici hanno raggiunto tassi del 20-22%. Ecco perché il debito pubblico è cresciuto notevolmente: per l’esplosione della spesa degli interessi. Dal 1991 ad oggi l’avanzo primario è sempre stato raggiunto con rarissime eccezioni, cioè lo stato non ha mai speso più di quanto poteva ma meno delle entrate. E’ il disavanzo secondario, quello causato dagli interessi, che ha provocato l’ulteriore aumento del debito pubblico.
E’ stato calcolato che per diminuirlo l’economia italiana dovrebbe crescere del 4% ogni anno. Cioè il totale dei prodotti e servizi scambiati dagli operatori economici nel territorio nazionale (cd PIL) dovrebbe crescere così tanto da consentire allo stato di aumentare le entrate fiscali (che crescono proporzionalmente al reddito prodotto) ad un livello sufficiente per ottenere un avanzo secondario da destinare alla riduzione del debito.
Ma una crescita del 4% era lontana dalla realtà già molto prima dell’emergenza del corona virus: si tratta quindi di una vera e propria trappola, la trappola del debito che ogni anno fa un ulteriore giro intorno al collo di tutti noi. E questo a prescindere dagli slogan della politica che finge di esultare con un aumento del 0,1% del PIL: quello che non ci dicono è che è assolutamente insufficiente per liberarsi da questa trappola, con la pantomima di molti altri argomenti che vengono venduti per guadagnare consenso che sono semplicemente irrilevanti.
La domanda fondamentale è questa: uno stato democratico che rappresenta i cittadini ed esprime la ricchezza reale delle loro attività economiche dovrebbe farsi trattare così dalla finanza privata?
Con una metafora molto chiara il discorso è proseguito. “È come se un padre di famiglia chiedesse dei soldi in prestito per mandare i propri figli a scuola e per progetti familiari di lungo termine, ma il giorno dopo si trovasse con lo strozzino sotto casa con la mazza da baseball. I mercati scommettono sul debito degli Stati calcolando la loro probabilità di insolvenza, è in base a queste valutazioni, fatte da agenzie di rating private, che di volta in volta viene deciso il rischio che determina il cosiddetto spread, cioè la maggiorazione di tasso che lo Stato deve pagare rispetto ad un altro considerato privo di rischio per potersi garantire i capitali necessari al suo funzionamento. Ma nessuno si chiede cosa facciamo di questi soldi: se vengono impiegati per progetti di lungo periodo, possono generare altra ricchezza con effetti benefici non solo sul benessere e la sostenibilità socio-ambientale dell’attività economica ma anche sul rapporto debito/PIL, sulla base del quale lo stato viene valutato. E’ quindi un cane che si morde la coda: per rientrare dal debito non possiamo fare quegli investimenti che oltre a far progredire la società consentirebbero proprio di ridurlo.
La situazione è veramente paradossale: la favola è proseguita con la crisi finanziaria del 2007 in cui qualcosa si è inceppato, con una bolla finanziaria che esplodendo ha prodotto effetti pesanti sull’economia reale e sull’ulteriore indebitamento degli stati.
Andrea Baranes ha parlato soprattutto delle contraddizioni del sistema bancario e finanziario “in questa situazione – ha detto – sono stati messi in discussione alcuni dogmi considerati totem sacri, come il patto di stabilità (limite alla spesa pubblica degli enti locali) e il divieto di aiuti di stato all’economia. La crisi innescata dal Coronavirus ci dice che le cose possono cambiare e anche in fretta. Così potrebbe essere fatto con molte proposte di riforma della finanza che giacciono ferme nelle commissioni da anni: la tassa sulle transazioni finanziarie, la separazione fra banche commerciali e di investimento, il blocco dei paradisi fiscali e il conseguente recupero della progressività, così come alcuni dei perversi meccanismi monetari europei. Già da adesso – ha continuato Baranes – la Banca Europea degli Investimenti potrebbe forse diventare uno strumento per aggirare i limiti della BCE. Da statuto infatti la Banca centrale non può acquistare titoli di debito pubblico sui mercati primari ma può farlo con le banche a totale controllo pubblico. La BEI potrebbe emettere titoli che la BCE acquisterebbe emettendo nuova moneta, come fa solitamente con le banche private. Denaro a costo prossimo allo zero per progetti di investimento di lungo periodo.”
“Con enormi sforzi il rapporto debito/Pil italiano era sceso dal 120% al 113% prima del 2007 ma poi a causa della contrazione dell’economia è schizzato nuovamente al 130% annullando gli sforzi fatti”, ha detto Bersani. “Ora però ci troviamo davanti al dilemma degli anni ‘80 in una situazione più drammatica, con una sperequazione mondiale ancora più grande. E il capitalismo ha inventato un altro modo per sopravvivere: creare ulteriore esclusione sociale anche nei paesi che avevano beneficiato della globalizzazione. Sanità, istruzione, sicurezza, sono divenuti ulteriori mercati in cui il capitale può trovare altre occasioni di profitto. Quello che era fuori mercato perché diritto garantito diventa una merce venduta soltanto a chi se la può permettere, che paga per ottenerla. Il tutto senza nessuna spesa di marketing e pubblicità: tutti sanno che la salute è necessaria! Molto interessante anche la descrizione dei meccanismi comunicativi con cui l’ineluttabilità di tutto questo è stata venduta creando paura e divisione sociale, ed è l’unico modo per farla passare senza smentire la favola degli anni ‘70: secondo la narrazione chi si adegua a questo sistema ha qualche speranza in più di farcela rispetto agli altri”.
Ma anche qui si svela il carattere ideologico delle politiche di austerity: si sono presi di mira gli enti locali, con l’imposizione di patti di stabilità interni, taglio alle spese sociali e riduzioni di spesa corrente. Le politiche per ridurre il debito annunciate e messe in campo hanno avuto come obiettivo quasi soltanto gli enti locali, ma questi contribuiscono al debito pubblico nazionale solo per l’1,8%. Quindi qual è stato il vero obiettivo di queste politiche?
Il seminario non ha approfondito l’analisi delle infinite soluzioni tecniche che potrebbero tornare utili a ricondurre la finanza alla sua vera funzione di sostegno delle persone e dell’economia. Ma è stato chiaro che se la Banca Centrale Europea potesse acquistare direttamente i titoli pubblici degli stati al momento dell’emissione (nel cosiddetto “mercato primario”) non ci sarebbero rischi di spread, di rating o di speculazione. In un’economia ben lontana dalla piena occupazione i rischi di inflazione sono davvero remoti, ed è evidente che far tornare la gestione della politica monetaria sotto il controllo democratico è un passaggio fondamentale dell’evoluzione umana.
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Mi si consenta una nota personale. Lavoro in Banca Etica e sono un socio di Mag Firenze. Ogni giorno vedo bilanci di imprese e cooperative sociali, progetti di inclusione meravigliosi, deturpati dalle politiche di austerity. Lavoratori costretti a tagliarsi lo stipendio perché la ASL non riconosce gli adeguamenti contrattuali, cooperative in crisi che si salvano solo facendo leva sullo spirito di coesione di soci lavoratori già pagati una miseria per l’importanza e la qualità del lavoro che fanno.
Gli specialisti hanno preso il sopravvento togliendo ogni decisione alla politica con la motivazione che l’economia va messa al riparo dall’immaturità delle democrazie. Con il risultato che siamo giunti all’eccesso opposto: i finanzieri tengono in pugno interi stati con la trappola del debito. Ora è arrivato il momento in cui la gente cominci a capire di cosa parliamo e quali effetti sociali produce tutto questo, che stiamo pagando interessi che erano insostenibili prima e lo sono ancora di più adesso.
Per cui cerchiamo di informarci e di capire, senza fare il gioco di chi soffia sul rancore per spingerci verso la chiusura delle frontiere di uno stato autoritario: il problema non è l’Europa come idea ma la finanza a cui si è piegata e che la tiene in pugno, il problema è un’Europa che cede alle proprie paure rinnegando i propri valori fondanti avendo imposto politiche di austerity alla Grecia in un momento di difficoltà, mentre la sostiene come “scudo d’Europa” quando dispiega le squadracce di fascisti lungo i confini della nostra fortezza.
Il potere che abbiamo davanti ha bisogno di tutto questo ma è solo un gigante dai piedi di argilla, può farcela solo con la nostra indifferenza.
Alessandro Tassi