Genere e corpi oltre la norma: strategie di resistenza

Un corpo gigantesco che nel suo eccesso sfida superandoli i confini estetici e culturali del femminile normativo. Ecco quel che accomuna l’inquietante Great Mother del romanzo di Angela Carter La passione della nuova Eva del 1977 alla Dog Woman protagonista di Il sesso delle ciliegie di Jeanette Winterson, uscito nel 1989.

In ambedue i casi si tratta di un soggetto esplicitamente collegato al materno e alla sua terribile e seducente potenza. L’eccesso di fisicità di tali figure femminili evoca quella stessa immagine che alle origini della cultura, e non solo occidentale, si era concretizzata nella figura della grande Dea Madre: Kali, Ishtar, Isis, Cibele, Demetra o Cerere, il principio femminile che unisce in modo inquietante la capacità di dare la vita come la morte, e che sancisce la coincidenza del femminile con il corporeo.

Apparentemente i corpi eccedenti immaginati da Carter e Winterson sembrerebbero andare nella direzione opposta rispetto alla coeva virtualizzazione del soggetto post tecnologico e post-umano nata con l’appropriazione del cyberspazio da parte femminista. Invece anche questi, proprio come il Cyborg, sono vettori di dirompente potenziale eversivo, capaci di decostruire quei rapporti di potere tra i generi sui quali si è costruita la modernità per rinegoziarli su basi diverse.

Nel pieno rispetto del fluttuante immaginario post-moderno strategie testuali così diverse possono di fatto convivere in uno stesso campo di tensioni culturali: da un lato la narrazione del corpo smaterializzato con la controversa figura del Cyborg che rivendica il potere di liberare il soggetto e dunque anche la donna dal peso della Storia, dall’altro la rappresentazione di corpi giganteschi che richiamano la Grande Madre pre-patriarcale.

Sono figurazioni queste ultime che sottolineano i limiti estetici e comportamentali entro cui il corpo femminile è stato confinato, mettono in scena ipotesi di resistenza alla norma, alludono alla possibilità di sconfinare dalle misure imposte, e in definitiva presuppongono l’elaborazione di strategie di dis-identificazione del soggetto.

Riflettere su questo ritorno della temibile potenza del corpo femminile conduce necessariamente a ripensare, per contrasto, allo stereotipo normativo che prevede il corpo della donna fragile e reso docile dal controllo sociale di cui parla Foucault. Come è noto, attraverso le sue immagini del corpo disciplinato, il femminismo ha riletto il corpo delle donne sottoposto a processi di sorveglianza estetica e comportamentale. Sono state descritte le tecnologie atte a plasmare le forme corporee femminili mettendo in rilievo insieme alle pratiche estetiche e alle tecniche della fertilità i regimi di dieta che hanno disciplinato regole e comportamenti. In tal modo, agendo dietro la spinta non di una coercizione fisica, ma piuttosto di forme di autosorveglianza, la donna diviene connivente della politics of appearance, essendo il suo unico presunto piacere il “piacere di piacere”.

Già prima di Foucault peraltro il pensiero femminista aveva riflettuto sulla costruzione della femminilità e il concetto del corpo docile, a cui filosofo francese fornisce un apparato teorico, era già stato enucleato da chi nell’America del 1914 richiedeva il diritto di ignorare la moda e nel 1968 al grido di “non più Miss America” gettava via reggiseni, giarrettiere, parrucche e altri attributi della seduzione femminile.

Alla costruzione del corpo normalizzato ovvero della “giusta misura”, le donne hanno tradizionalmente reagito rifiutando all’apparenza il controllo altrui, con vistose reazioni psicofisiche e se di recente anche il corpo grasso (curvy) ha rivendicato una sua specifica valenza ideologica, di fatto il fenomeno di maggiore diffusione resta l’anoressia. Se il mandato patriarcale imponeva alla donna di essere piccola e fragile, l’anoressica tende a esasperare il primo tratto e a negare il secondo, assumendo interamente il dominio del proprio corpo.

E tuttavia l’interrogativo a cui non è ancora stata data risposta a proposito della strategia difensiva dell’anoressica – come anche dell’ isterica alla quale è stata avvicinata – riguarda la consapevolezza o meno del potenziale sovversivo del proprio gesto nonché la sua stessa efficacia. Questa esperienza limite sembra infatti esprimere più che altro la difficoltà incontrata dal femminile a ribellarsi alla disciplina sociale senza punirsi per questa trasgressione: diminuendo il proprio corpo, dissolvendone la carne, attenuando i più evidenti connotati sessuali, e dunque riducendolo a simbolo di cancellazione e sofferenza, l’anoressica rappresenta in definitiva la denuncia dell’angoscia, indotta nelle donne nei confronti del proprio corpo, mai abbastanza bello, magro, elegante: una denuncia che non arriva tuttavia a intaccare il sistema da cui l’inarrivabile ideale di perfezione è stato disegnato.

Perché c’è uno sguardo a cui il corpo femminile è sempre sottoposto: quell’ “Erotic Gaze” con cui all’interno di una prospettiva femminista si indica lo sguardo sessuato o “mastering gaze”, che osserva il corpo femminile valutandolo nella messa in scena di una stereotipata masquerade tutta scritta dal maschile.

Il controllo che questo sguardo esercita sulla donna, il modo in cui viene involontariamente interiorizzato il punto di vista da cui deriva, e la difficoltà di sfuggirgli sono elementi su cui si è soffermata in particolare la critica cinematografica femminista. La domanda centrale o almeno una delle domande centrali che sono state poste in quella sede è se sia possibile per il soggetto femminile distanziarsi dalla donna che interpreta lo spettacolo, non fare proprio lo sguardo del maschio, diventando invece soggetto di pensiero e di discorso. In questo ambito, se fino agli anni ‘70 del Novecento lo scopo primario era sottrarsi alla “Man Center Vision” mostrandone i limiti, nei decenni seguenti l’obiettivo diviene quello di costruire altri soggetti di visione, altri sguardi e altre scene di desiderio, decostruendo le pratiche in cui si articola la stessa soggettività femminile. E in questa direzione molto ci ha detto la letteratura lesbica, che propone una forma di dis-identificazione dallo stereotipo perseguendo la strada del desiderio.

Anche le strategie di resistenza nei due romanzi di Carter e Winterson, ancorate alla materialità del corpo, vanno oltre la denuncia della donna-oggetto e propongono, non a caso in un registro antirealistico, grottesco, talvolta utopico, figurazioni femminili che si sottraggono al gioco dei ruoli. Il loro corpo porta scritta un’anomalia che li sottrae alla trappola del semplice ribaltamento del rapporto gerarchico tra i sessi, che non uscirebbe dai confini delle definizioni culturali, attraverso l’uso della categoria dell’eccesso, che evidenzia in questo caso l’associazione tra femminile e mostruoso, ed esplicita il senso nascosto dello stereotipo, ovvero la paura che incute il corpo femminile.

Si assiste dunque, nei testi di queste scrittrici di fine Novecento a una riappropriazione da parte delle donne di quel femminile mostruoso nato dalle proiezioni dell’immaginario maschile. Se il corpo docile o ambiguamente resistenze dell’anoressica non può annullare il potere dello sguardo erotizzato a cui si vuole opporre ma da cui deriva, questi soggetti dal corpo abnorme nascono da una visione che prescinde dallo sguardo erotico: al contrario provengono dallo sguardo terrorizzato del maschio, sul quale la psicoanalisi ha ben indagato, che si posa sul corpo sessuato della donna qualificandolo come natura tanto potente e incontrollabile da dover essere ridotto a costruzione addomesticata.

E’ questo sguardo ad aver creato le immagini di potenti divinità femminili di cui la mitologia è popolata. Nella postmoderna riscrittura del corpo mostruosamente eccessivo viene recuperata alla lettera la gigantesca potenza di un femminile che ridendo con il riso di Medusa destabilizza la visione maschile. Sono corpi non solo eccessivi nelle misure ma eccedenti il puramente umano, e perciò eccentrici rispetto alla costruzione del desiderio maschile, figure inquietanti la cui presenza permette di disinnescare il meccanismo libidinale edipico, consentendo al soggetto femminile di resistere alla sua determinazione sociale e simbolica e di assumere posizioni che trasgrediscono il mastering gaze.

Ornella De Zordo