Ormai sono passati più di due mesi dal 9 luglio, quando il fondo speculativo Melrose ha avviato la procedura di licenziamento collettivo per i 422 lavoratori GKN, azienda fiorentina di semiassi per automobili, e gli oltre 80 impiegati nelle attività aziendali indirettamente. Davanti ai cancelli della fabbrica non si è mai interrotta la staffetta di solidarietà degli attivisti, dei circoli ARCI e delle associazioni, un movimento solidale che attraversa la città e si estende oltre i confini geografici della Toscana. Grazie alla gran voglia di far proprio lo slogan #insorgiamo, preso in prestito dalla storia partigiana della città di Firenze, questo movimento sta dando voce una fetta di Paese che non si arrende a vedere il proprio territorio e le proprie vite in balia dell’avidità della speculazione finanziaria. Ed ora gli operai sono pronti a presentare in parlamento una propria proposta di legge contro le delocalizzazioni.
Il tempo stringe: il 22 settembre, se il tribunale del lavoro di Firenze non accetterà il ricorso per condotta antisindacale, si concretizzerà la procedura di licenziamento collettivo, segnando l’ennesimo episodio di de-industrializzazione che colpisce il nostro Paese.
Sono ormai numeri allarmanti quelli riguardanti le crisi aziendali e i conseguenti tavoli aperti al Ministero dello Sviluppo Economico. Senza dubbio l’accordo sullo sblocco dei licenziamenti del primo luglio ha giocato un ruolo di accelerazione delle crisi, dando una spinta decisiva a grandi vertenze come quella di Whirlpool Napoli, o aprendo come nel caso di Gianetti Ruote, Timken e GKN spazi di manovra per i grandi fondi finanziari per chiudere la produzione in Italia e delocalizzare altrove dove il costo del lavoro è più “competitivo” e le norme fiscali più vantaggiose. Le radici di questo fenomeno, tuttavia, sono da ricercare nella deregolamentazione nazionale ed europea, iniziata alla fine degli anni ’70 ed in cui oggi operano i fondi speculativi e le grandi multinazionali. I comportamenti lobbistici, uniti al largo e trasversale consenso politico, hanno reso questi soggetti assolutamente liberi di adottare strategie di pressione salariale, ricevere sgravi fiscali e incentivi a pioggia, usando l’arma del ricatto occupazionale salvo poi dismettere quando trovano più vantaggioso e redditizio per i propri azionisti trasferire la produzione ed inseguire la migliore offerta al ribasso.
Spesso dietro a questi atteggiamenti non si cela neppure l’ombra di una crisi d’impresa, come hanno mostrato i dati sui bilanci della GKN raccolti ed analizzati della Conferenza Nazionale dell’Artigianato e della piccola impresa (CNA) che evidenziano come per l’azienda fiorentina: “i primi mesi dell’esercizio 2021 hanno confermato il trend positivo in termini di consolidamento dei volumi rispetto a quanto consuntivato nell’ultima parte dell’esercizio 2020. Il primo trimestre ha evidenziato infatti un incremento del fatturato complessivo del 7% rispetto al periodo precedente e del 14% rispetto al budget. Questo consolidamento è in particolare riferibile alle vendite verso clienti terzi che incrementano del 17% rispetto allo stesso periodo dell’esercizio precedente e dell’11% rispetto al budget. Anche la marginalità lorda risulta in consolidamento, attestandosi al 15,4% dei ricavi (facendo segnare +1,1% rispetto al budget e +1,4% rispetto allo stesso periodo dell’esercizio precedente” (pag. 33). E ancora: “il mese di marzo stand alone ha fatto registrare una buona performance delle vendite rispetto alle previsioni di budget (+19%), ed un significativo incremento (+95%) rispetto a marzo 2020”. Dietro a questa chiusura non c’è nient’altro, appunto, se non la massimizzazione dell’utile azionario.
Di fronte a tanta spregiudicatezza e alla grande attenzione pubblica conquistata dagli operai GKN in lotta, il Governo, per bocca del Ministro del Lavoro Orlando e della sua Vice Todde, ha annunciato il varo di un decreto per costruire un argine alle delocalizzazioni. Nelle versioni fatte circolare alla stampa tuttavia il testo sembra la classica montagna che partorisce un topolino. Mutuando in parte lo schema della Loi Florange francese del 2014 ed eliminando subito l’impianto sanzionatorio a seguito delle rimostranze di Confindustria, la legge si presenta come la proceduralizzazione delle dismissioni con tempi leggermente più lunghi e senza nessun impatto sulle crisi aziendali aperte.
Il rischio di una operazione mediatica, più che un tentativo di difendere i lavoratori e il tessuto industriale italiano in questi casi è sempre dietro l’angolo. Saggiamente gli operai non hanno voluto dare credito al buio: “una legge deve essere scritta con le nostre teste, non sulle nostre teste” è stato il commento del collettivo di fabbrica GKN. Ed è proprio per questo che con il telefono rosso di Potere al Popolo abbiamo risposto all’appello lanciato dagli operai per discutere insieme a giuslavoristi di tutta Italia una norma veramente efficace per mettere un freno al modello imprenditoriale “Buy, Improve, Sell” (compra, migliora, vendi) come recita lo slogan del fondo Melrose.
Il risultato di questa elaborazione collettiva è stata la stesura di otto punti imprescindibili che ogni progetto di riforma con l’ambizione di incidere e segnare una discontinuità rispetto al passato deve contenere.
Già dall’incipit che accompagna la proposta operaia il riferimento all’art 4 della Costituzione che tutela il diritto al lavoro e all’art 41, che stabilisce i limiti all’abuso dell’attività economica privata, tracciano un confine netto tra l’idea di proceduralizzazione della libertà di speculazione economica e la necessità invece di porre un argine concreto agli atteggiamenti predatori. Questa idea si sviluppa attraverso il testo, disegnando un modello in cui lo Stato torna a giocare un ruolo attivo nella politica industriale del Paese attraverso un sistema che vincola l’autorizzazione alla procedura di dismissione e licenziamento a determinate condizioni oggettive e controllabili. In secondo luogo l’obbligo da parte dell’azienda di fornire, con la massima trasparenza, ai lavoratori e ai pubblici poteri le informazioni sul proprio stato patrimoniale ed economico finanziario unito all’obbligo di presentare un piano ed eventualmente un acquirente che garantisca la continuità occupazionale, soggetto anch’esso alla duplice valutazione dello Stato e dei lavoratori, consente un controllo ponderato che mira ed evitare eventuali abusi o vendite fittizie e di comodo fatte esclusivamente per evitare le sanzioni.
Si propone poi l’istituzione di un diritto di prelazione in favore dello Stato e ad eventuali cooperative di lavoratori che intendano rilevare il sito produttivo, consentendo in ultima istanza di salvaguardare il tessuto industriale e occupazionale ed attuare eventualmente una riconversione ecosostenibile capace di creare sinergie strategiche con il territorio.
Infine si prevede la possibilità di ricorrere collettivamente per il mancato rispetto degli obblighi previsti per condotta antisindacale, con conseguente declatatoria di inefficacia dei licenziamenti, offrendo uno strumento rapido di tutela contro i comportamenti scorretti.
Si tratta di un piano normativo innovativo che coglie in pieno il problema ed evidenzia in conclusione come non esistano alibi o fantomatici “vincoli europei” che impediscano di esercitare a pieno una forma di controllo pubblico sulle decisioni imprenditoriali specie se dettate dal mero interesse ad alzare i dividendi azionari. A questo proposito viene citata la massima della sentenza della Corte di Giustizia (C-201/2015 del 21.12.2016) in cui si enuncia che “nella circostanza che uno Stato membro preveda, nella sua legislazione nazionale, che i piani di licenziamento collettivo debbano, prima di qualsiasi attuazione, essere notificati ad un’autorità nazionale, la quale è dotata di poteri di controllo che le consentono, in determinate circostanze, di opporsi ad un piano siffatto per motivi attinenti alla protezione dei lavoratori e dell’occupazione, non può essere considerata contraria alla libertà di stabilimento garantita dall’articolo 49 TFUE né alla libertà d’impresa sancita dall’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE”.
E’ un un problema europeo. Melrose non è solo la sigla dietro i licenziamenti di Campi Bisenzio: è anche l’artefice di 540 licenziamenti Offembach in Germania, 170 a Kings Norton e 520 a Birmingham in Inghilterra. Per questo la proposta di norme più stringenti contro le dismissioni industriali in Italia ha aperto a livello europeo uno spazio di confronto con Eurodeputati Belgi, Francesi, Spagnoli, Portoghesi, Danesi e Tedeschi del gruppo della Sinistra che si sono messi a disposizione degli operai italiani per sostenerne unitariamente la proposta e dare battaglia in sede parlamentare contro le norme europee che consentono una progressiva caduta verso il basso di tutele e diritti della classe operaia nel suo complesso, per spingere verso nuove forme di controllo sulle multinazionali. A questo proposito è stata depositata anche una interrogazione alla Commissione per chiedere conto dei soldi Europei che il fondo speculativo ha ottenuto sotto forma di sovvenzioni e aiuti.
Non è più tempo per la politica di tergiversare, una proposta è sul tavolo vedremo chi, come noi, avrà il coraggio di raccoglierla.
Giulio Cappelli
Giulio Cappelli
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