Re/wilding

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Bipedi

Tutte le volte che sono stato tra esseri umani, sono tornato meno uomo.

(Tommaso di Kemper)

Tra le opere più ricche di Arthur Schopenhauer vi è Eis Auton (in italiano, ahimè, L’arte di conoscere se stessi): un aforismario o, meglio, un vero e proprio diario personale del filosofo, composto da frammenti postumi, ricavati a partire dalla biografia redatta dall’esecutore testamentario di Schopenhauer. Tra le poche pagine di questo manualetto, dominato da una vasta atmosfera di misantropia, esaltazione e paranoia, ricorre spesso il termine “bipedes”, impiegato da Schopenhauer non per indicare l’essere umano in quanto tale ma un “loro”, costantemente contrapposto a un “Io” – o, alle volte, a un “noi”.

Considerando la sua esperienza di vita tra…gli umani, ad esempio, Schopenhauer scrive:

Già a trent’anni ne avevo sinceramente abbastanza di dover considerare come miei simili esseri che in realtà non lo sono. Finché il gatto è giovane gioca con pallottoline di carta perché crede che siano vive e simili a lui. Ma una volta cresciuto, sa che cosa sono e le lascia stare.Lo stesso è capitato a me con i bipedes. Similis simili gaudet: per essere amati dagli uomini bisognerebbe essere simili a loro. (p. 33)

Simili riflessioni ricorrono in diversi altri passaggi. Si tratta, a ben vedere, di un sentire comune tra i misantropi e gli spregiatori della società. Un sentimento limite, che traccia una netta linea di confine tra gli “altri” – percepiti in quanto appartenenti a una determinata specie non umana (si pensi alla disumanizzazione posta dall’uomo-agnello nietzschiano) – e il soggetto. Nel caso di Schopenhauer, tuttavia, è il soggetto stesso a precipitare in una spirale auto-disumanizzante, ponendosi in qualità di non-bipede.

Ben nota è la passione di Schopenhauer per i cani, in particolare per i barboncini. Ogni volta che uno dei suoi cani moriva, il successivo ne ereditava il nome: Atma – il sé essenziale dell’induismo, ciò che esperisce e subisce le reincarnazioni. Non-bipedi. Compagni fedeli, sottomessi, pieni di amore e di rispetto.

Sebbene Schopenhauer considerasse gli individui (tanto umani quanto non umani) come semplici manifestazioni di una specie, non si può fare a meno di immaginarlo – e come egli stesso amava immaginarsi – come il membro di un branco immateriale, una linea di sangue spirituale, sospesa al di là del tempo e dello spazio.

Il barboncino scatta su due zampe ed esegue un simpatico balletto, la lingua di fuori, i piccoli occhi neri fissi sul boccone tra le dita del padrone. Nel profondo del suo fragile corpo, egli non è un insieme di segni che rimandano a un ben più antico progenitore.

Il richiamo della steppa

In fondo al cuore sapeva (o credeva di sapere) di non essere veramente un uomo, ma un lupo venuto dalla steppa.

Herman Hesse, Il lupo della steppa

Tra i romanzi europei più schopenhaueriani e, al contempo, più anti-schopenhaueriani, vi è senza dubbio Il lupo della steppa (1927), di Herman Hesse. Al centro dell’opera vi è la condizione di lacerazione psichica del protagonista, Harry, scrittore cinquantenne. Da un lato, egli è un essere umano come gli altri, bisognoso di affetto, socialità e riconoscimento; dall’altro, egli custodisce in sé un carattere inumano e antisociale, il “lupo della steppa”: una creatura desiderosa di solitudine, avventura, pericolo e violenza. L’indipendenza del lupo stride con il comfort e la semplicità rassegnata della vita moderna; la sua natura ferina con le moine dell’arte e della letteratura di massa; la sua sete di conflitto e opposizione con la sottomissione e la brutalità organizzata della guerra.

La storia di Harry, come affermò lo stesso Hesse, è la storia di una malattia ma, soprattutto, di una guarigione: un divenire-lupo che trascina l’“Io” del protagonista in un vortice di dissoluzione. All’inizio del romanzo Harry è un uomo prigioniero della propria solitudine, sull’orlo del suicidio, un individuo tormentato da desideri “selvaggi” che tenta costantemente di reprimere, nonché un intellettuale emarginato per via delle proprie posizioni individualiste e pacifiste. È a questo punto che si imbatte in un libricino che descrive a meraviglia la sua condizione, dando un nome e un volto all’entità che ringhia e scalpita nel suo cuore: il lupo della steppa – l’antagonista di un libro, come chiosa la stessa quarta di copertina, “solo per pazzi”.

Il libro fa da innesco alla parte maledetta dell’animo di Harry, inducendolo ad agire d’impulso nei confronti di un vecchio amico – un accademico reazionario, interventista e anti-semita. In tale occasione, Harry aggredisce verbalmente l’ex-amico, biasimandone le posizioni politiche, i gusti e lo stile di vita. Si ritrova, così, ancor più solo di prima. Si risolve, perciò, a togliersi la vita il prima possibile, ma, quella stessa notte, in un locale, si imbatte in Hermine, una giovane donna dedita alla bella vita dell’underground.

Hermine – assieme a Pablo, un musicista straniero, e Maria, una bella prostituta della quale Harry si invaghisce subito – conduce il protagonista verso la guarigione dalla propria natura selvatica: gli insegna a ballare, ad apprezzare il jazz e a lasciarsi andare; gli fa sperimentare gli eccessi segreti della vita notturna, dell’alcool e delle droghe; lo introduce all’amore libero.

Quando, finalmente, Harry si accorge di essere capace di ridere e godere liberamente del proprio corpo, il lupo prende ancora una volta il sopravvento, annientando lui e tutti quelli che gli stanno attorno. La violenza e il sangue dominano le ultime pagine del libro.

Le fauci del lupo si spalancano, mettendo in mostra i denti affilati. Il pelo ritto, gli occhi spiritati; paura e dolore gli unici pungoli che ne muovono le membra. Destino e carattere condannano Harry a precipitare lungo una linea di fuga disumana, anti-umana.

Se, all’inizio del romanzo, l’autore del misterioso libricino e la stessa Hermine condannano l’assurdo dualismo insito nel credere di essere per metà umani e per metà lupi, la fine sembra voler rovesciare tale giudizio, rilanciando l’idea che qualcosa di estraneo all’essere umano possa impossessarsi di noi, costringendoci a rigettare i nostri simili.

Un’inclinazione selvatica

Nelle sue lezioni di pedagogia, Kant sostiene che l’essere umano possiede una sola vocazione innata: quella per la libertà. Tale libertà, secondo il filosofo, non possiederebbe, tuttavia, natura positiva ma prettamente negativa. Essa, di fatto, si manifesterebbe sotto forma di una resistenza naturale all’educazione e alla disciplina; un’irrequietezza esaltata, anomica e priva di limiti. Motivo per cui – come nota lo stesso Kant – gran parte dell’educazione primaria dell’infante si svolge nel faticoso tentativo di apprendere a stare seduti e tranquilli a non far niente. (Chi ha avuto modo di crescere un cane sin dalla primissima infanzia sa bene di cosa si stia parlando). Kant nomina tale tendenza innata Wildheit, ossia “selvatichezza”.

Da tale prospettiva, il processo pedagogico consisterebbe in una progressiva “umanizzazione” del bambino, ostacolata dal periodico riproporsi della selvatichezza (incarnato nei desideri e nei sentimenti). A ciò si aggiunge il fatto che, per Kant, homo sapiens non possiede alcun istinto in grado di guidarlo verso una compiuta umanità. Se, infatti, l’animale non umano non ha alcun bisogno (dal punto di vista kantiano, quasi all’opposto del moderno sapere etologico) di un’educazione formale che lo renda a tutti gli effetti un lupo, un leone o una trota, l’animale umano sarebbe, al contrario, privo delle necessarie indicazioni genetiche. Ciò è dovuto al semplice fatto che l’essere umano è una creatura culturale, anzi, spirituale – costretta a giungere all’umanità e, pertanto, alla moralità, attraverso il puro lavoro della ragione.

Ciò non toglie che sentimenti e inclinazioni siano sempre in agguato, pronti a distorcere, sfruttando gli impulsi sensibili, il lavoro svolto dall’educatore.

Il lupo attende, in silenzio, pronto a balzare sulla preda. Ma un lupo non è mai solo un lupo. Un lupo, molti lupi: il branco è l’unica cosa che conta.

Ho sognato che è notte e sono nel mio letto (i piedi del letto erano dalla parte della finestra; davanti alla finestra c’era un filare di vecchi noci. So di aver fatto questo sogno una notte d’inverno). Improvvisamente la finestra si apre da sola e con grande spavento vedo che sul grosso noce davanti alla finestra sono seduti alcuni lupi bianchi. Erano sei o sette esemplari. I lupi erano completamente bianchi e sembravano piuttosto volpi o cani da pastore, perché avevano la coda grossa come le volpi e le orecchie ritte come fanno i cani quando prestano attenzione a qualcosa. Preso dall’angoscia, evidentemente, di esser divorato dai lupi, urlai e mi svegliai. (S. Freud, S.C. Pankëev, “Dalla storia di una nevrosi infantile”, in Casi clinici, 1918).

Divenire-Lupo

It is probably relatively uncontroversial to conclude

from all this that Derrida is not a werewolf.

Nick Land, “Spirt and Teeth”

Una “spirale omolupina”, ecco come Nick Land – in uno dei saggi più aggressivi della raccolta Fanged Noumena – definisce la china assunta da tutti quei pensatori che cavalcano le correnti libidinali, piuttosto che farsi condurre per mano dalla ragione argomentativa. Creature impazienti, irresponsabili, indisciplinate, votate al frammento o all’aforisma, piuttosto che al capitolo o alla critica ragionata. Lo scrittore – e non più il mero filosofo – “licantropizzato” non si inserisce in un discorso, non gode della stima e del rispetto del pubblico o degli accademici, né vanta illustri natali; la disobbedienza, l’insulto e l’oscenità sono il suo pane quotidiano; la morte – una morte violenta o una fine graduale, tra disgrazie e sofferenze – è tutto ciò che lo aspetta alla fine della sua folle corsa.

La materia selvaggia, ancora priva di forma seppur animata e attiva, non attende che qualcuno giunga a conquistarla, a nominarla o a conferirle un senso e una destinazione. Il licantropo lo sa bene. La percepisce fluire dentro di esso, come una malattia – come sangue infetto. Egli non è persona o, peggio ancora, individuo; non è un Io, o un’unità, ma una moltitudine in costante fermento, un punto di snodo per le forze caotiche che attraversano il mondo. Egli, come il Trakl dei Gedichte, è «un cristiano, un ateo e persino un satanista» (Fanged Noumena, p.189).

Nell’apprensione patica del delirio, del sogno e della passione è necessario, in primo luogo, cogliere come la pietrificazione ontologica e la glaciazione esistenziale dell’eterogenesi dell’ente, che si manifesta in essi secondo stili specifici, sia sempre latente nelle altre modalità di soggettivazione. […] Non costituisce dunque il grado zero della soggettivazione […] quanto un grado estremo di intensificazione. (Caosmosi, p. 82)

Così scrive Felix Guattari nel 1992. Ma cosa ne è – e cosa ne sarà – del lupo della steppa? Hesse sembra voler stendere un velo di ambiguità a proposito. Il lupo è in ciascuno di noi, o solo in pochi individui isolati? Il lupo esiste davvero, è qualcosa di alieno all’animo umano, capace di insinuarsi in esso e assumerne il controllo? Oppure non è che l’archetipo bestiale di un’umanità fratturata?

Per Guattari e il suo eterno compagno Gilles Deleuze, il divenire-animale è sempre accompagnato dall’incontro con un anomalo o un’anomalia. In tal senso, il divenire-lupo di Harry è alimentato dalle correnti libidinali micro-fasciste che anticipano la seconda Grande Guerra. Egli fu uomo, in tutto e per tutto; a farne un lupo – un nemico dell’ordine – furono gli altri, gli esseri umani corrotti dall’influsso autodistruttivo della guerra. Ma è egli stesso, come Schopenhauer, a decretare a gran voce la propria natura ferale. L’incontro con l’anomalo, da questo punto di vista, sta nell’alleanza spirituale che egli instaura con l’anonimo autore de “Il lupo della steppa” – è lui, attraverso la scrittura, a dar forma definitiva alla creatura che scalpita nell’animo di Harry.

E, tuttavia, come intuisce il lettore verso la fine del romanzo, il lupo, una volta addomesticato e messo alla catena, non è che un cane emaciato, impotente e denutrito. Le potenze selvatiche, dismesse dall’essere umano moderno, vegetano in stato di latenza. Ciò, con ogni probabilità, è dovuto alla loro scarsissima adattività rispetto all’ambiente urbano. L’espressione del lupo, di fatto, può condurre a due soli esiti: l’emarginazione, spesso seguita da una morte violenta (per mano propria o altrui); o la brutalità insensata dell’omicidio.

Bipedes. Le prede perfette.

Rinselvatichimento

Nel suo Le tre ecologie (1989), testo fondativo dell’ecosofia contemporanea, Felix Guattari scrive:

L’ecosofia mentale sarà portata a re-inventare il rapporto del soggetto con il corpo, con le fantasie, con il tempo che passa, con i “misteri” della vita e della morte. Sarà spinta a cercare degli antidoti all’uniformazione massmediatica e telematica, al conformismo delle mode, alla manipolazione delle opinioni da parte delle pubblicità, dei sondaggi ecc. (p. 19)

Un passaggio che condensa, in parte, ciò che Hesse tentò di fare con il suo Lupo della steppa. Ma se la fiction e la narrazione rappresentano non solo uno specchio, un indice o un catalogo dell’esistente, ma anche un esperimento per la costruzione di nuovi mondi e nuove forme di vita, allora il lupo è condannato a uccidere l’uomo, e l’uomo a mettere in catene il lupo. La parabola di Harry, così come l’isolamento di Schopenhauer, rappresentano di per sé forme di vita anomale, catastrofiche e senza via d’uscita.

Poco prima, tuttavia, introducendo l’ecosofia sociale, Guattari nota che: «Si tratterà letteralmente di ricostruire l’insieme delle modalità dell’essere-in-gruppo […] per via di mutazioni esistenziali basate sull’essenza della soggettività» (p. 19). Si tratta, insomma di sperimentare. Nel caso specifico, di sperimentare la modalità dell’essere-in-gruppo denominata “branco”. Un lupo, molti lupi.

Per reinventare il rapporto con il proprio corpo e le proprie fantasie – con la propria vita e la propria morte – il licantropo (L’essere-umano-lupo) sarà costretto a confrontarsi con un “rinselvatichimento” della propria soggettività lacerata. È lo stesso tracollo della socialità, il collasso della rete Io-altro, a condurre il non-bipede a sviluppare nuove modalità di autosostentamento e relazione con il sé. L’inclinazione alla libertà e la vocazione all’indipendenza lo trascinano lontano dalle leggi, dalle istituzioni, dalla polizia, dalla guerra e, in definitiva, dalla civiltà. Si tratta, a tutti gli effetti, di un animale in fuga, braccato dai fucili e dai cani dell’ordine.

Ciò, tuttavia, non è sufficiente a garantirne la sopravvivenza, anzi: il fato di un lupo solitario è sempre orientato alla morte – propria o altrui. Non la società, né la famiglia o la coppia, ma la modalità di branco è l’unico strumento che garantisce la prosecuzione dell’individuo posseduto dallo spirito del lupo. Lo stesso Freud (come ricordano Deleuze e Guattari in Mille Piani) ignorò, o finse di ignorare, che un branco di lupi attendeva, placido, fuori dalla finestra della cameretta, che il piccolo “uomo dei lupi” – il cucciolo – li raggiungesse e si unisse a loro.

Può darsi, tuttavia, che sia stato proprio Schopenhauer a venire in soccorso del lupo sull’orlo del baratro. Ben al di là di uno stuolo di barboncini – tornati, uno dopo l’altro, dal limbo della morte – vi è un altro “branco” ad attendere il giovane lupo. Un branco anch’esso, forse, animato da un perverso spirito di specie universale, ma situato sempre prima e dopo – giammai qui e ora. In una delle sue note di diario, infatti, il misantropo di Francoforte scrive:

Gli uomini con i quali vivo possono essere nulla per me. Perciò il mio massimo godimento nella vita sono i monumenti, i pensieri tramandati di esseri simili a me, che un tempo si sono affannati, come me, tra quelli. La loro lettera morta mi parla in un tono più familiare che non la viva esistenza dei bipedi. (L’arte di conoscere se stessi, p. 35).

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Claudio Kulesko

Si occupa principalmente di filosofia delle scienze e pessimismo filosofico. Ha tradotto Eugene Thacker e il Salvage Collective ed è stato tra i fondatori del collettivo di demonologia rivoluzionaria Gruppo di Nun. L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto (NERO 2022) è la sua prima antologia di narrativa speculativa.

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