Il CPJ Comitato per la protezione dei giornalisti al 7 novembre contava almeno 39 giornalisti e operatori dei media tra le circa 11.000 persone uccise (9.900 morti palestinesi a Gaza e in Cisgiordania e 1.400 morti in Israele) dall’inizio della guerra tra Gaza e Israele. Questo ennesimo capitolo dello scontro tra Israele e Gaza è chiaramente anche una guerra di informazione. Da una parte la potentissima e collaudata macchina di propaganda israeliana con terminazioni in tutto il mondo occidentale e dall’altra i giornalisti, ma anche i civili, sotto attacco dentro la striscia di Gaza armati di smartphone.
La propaganda israeliana, Hasbara, termine che significa ‘spiegazione’, e che plasma l’opinione pubblica interna ed esterna su tutti i media offrendo un’unica narrazione, quella israeliana, coinvolge in questo sforzo sotto la guida dello stato squadre di volontari come studenti che vivono all’esterno e influencer che inondano i social di contenuti. Come spiega perfettamente l’ex ambasciatore americano Chas W. Freeman: ‘Lo Stato di Israele ha organizzato unità governative, militari e civili per sfruttare questa situazione, creando siti web, account sui social media e messaggi attribuiti a false identità. Ha imparato a manipolare le funzioni dei browser, gli algoritmi dei motori di ricerca e altri meccanismi automatici che controllano le informazioni presentate agli utenti di Internet. Tale manipolazione può garantire che determinati commenti e informazioni appaiano o meno in risposta alle ricerche. Può assegnare maggiore importanza a vecchio materiale critico nei confronti delle fonti o delle analisi rispetto a nuove voci favorevoli a queste ultime. Può far sì che le ricerche trovino solo commenti e informazioni positive o negative su un argomento.’
Fu il Newsweek nel 2009 a rivelare l’esistenza del Global Language Dictionary, una vera e propria guida della propaganda sionista. In questo documento si trovano questo genere di indicazioni ‘Distinguere chiaramente tra il popolo palestinese e Hamas. Esiste una distinzione immediata e chiara tra l’empatia che gli americani provano per i palestinesi e il disprezzo che rivolgono alla leadership palestinese. Hamas è un’organizzazione terroristica: gli americani lo capiscono già. Ma se sembra che tu stia attaccando il popolo palestinese (anche se ha eletto Hamas) piuttosto che la sua leadership, perderai il sostegno pubblico.’
Nella guida si trova un altro dei concetti che viene ripetuto all’infinito anche da Joe Biden e dalla sua vice Kamala Harris: il diritto di Israele a difendersi. ‘So che, nel tentativo di difendere i suoi figli e i suoi cittadini dai terroristi, Israele ha accidentalmente ferito persone innocenti. Lo so, e mi dispiace. Ma cosa potrebbe fare Israele per difendersi? Se l’America avesse ceduto la terra per pace – e quella terra fosse stata usata per lanciare razzi contro l’America, cosa farebbe l’America?’
La propaganda israeliana utilizza anche stereotipi classici come la disumanizzazione del nemico. Ayelet Shaked, ministro della Giustizia, scrisse dieci anni fa che tutti i palestinesi inclusi ‘gli anziani, le donne, tutte le città, tutti i villaggi, le proprietà e le infrastrutture’ erano i nemici e si augurava che anche le donne fossero uccise in modo tale da non poter mettere al mondo ‘altri piccoli serpenti’. Abbiamo sentito esponenti politici israeliani definire i palestinesi animali, le cui vite quindi valgono meno di quelle degli esseri umani.
Altri classici sono il parallelo Palestinesi-Nazisti o Hamas-Isis, del resto ricordiamo tutti l’incessante propaganda statunitense durante le due guerre del Golfo che accostava Saddam Hussein, fino al giorno prima alleato degli USA, a Hitler. C’è molto dell’eredità della Seconda Guerra mondiale nel linguaggio che Israele utilizza, non solo nei continui richiami all’Olocausto ma anche nell’idea della guerra del bene contro il male. Concetto quest’ultimo tipico della propaganda occidentale utilizzato da Ronald Reagan contro l’URSS definito con linguaggio tratto dal film Guerre stellari ‘l’impero del male’ e ‘ il centro di tutto il male nel mondo moderno’. Oppure ‘l’asse del male’ espressione utilizzata da George W. Bush per definire quei paesi che secondo lui sponsorizzavano il terrorismo come Iran, Iraq e Corea del Nord, mentre appena un po’ fuori da quell’asse stavano Cuba, Libia e Siria.
Ma questa potentissima macchina israeliana comprende anche la censura verso chi non si allinea: gli studenti di Harvard che si sono visti ritirare le offerte di lavoro da studi prestigiosi per il loro sostegno alla causa palestinese oppure addirittura la modella americano-palestinese Bella Hadid volto della casa di moda Dior, che non ha mai fatto mancare il sostegno alla causa di Gaza, che è stata sostituita con una modella israeliana. Un’ondata di maccartismo sta provando a mettere a tacere tutte le voci dissidenti del mondo occidentale. Carmen Lasorella per aver semplicemente negato l’esistenza di prove delle decapitazioni compiute da Hamas è stata aggredita da Molinari e definita una vergogna per la nostra professione. L’elenco di casi simili potrebbe non finire mai.
Eppure questo enorme sforzo propagandistico si è scontrato con la realtà che è quella che ogni giorno giornalisti o attivisti dentro la Striscia di Gaza mostrano al mondo tramite i social media. Le immagini dei morti, dei bombardamenti al fosforo bianco, dei bambini che tremano coperti di sangue e polvere sui letti degli ospedali sono immagini che scuotono la cattiva coscienza e l’ipocrisia occidentale.
Non è un caso che prima di lanciare l’invasione di Gaza via terra Israele abbia distrutto i ripetitori, non solo volevano agire senza che nessuno documentasse i massacri ma volevano impedire che il mondo intero vedesse il costo in vite umane di questo annientamento di Gaza e della sua popolazione. Del resto come abbiamo sentito ripetere da molti politici israeliani ‘Gaza è il male e va spazzata via’.
Se è vero che come scriveva Susan Sontag in Sulla Fotografia Realtà e immagine nella nostra società del 1973 ‘Le fotografie non possono creare una posizione morale, ma possono rafforzarla’, è sempre lei a ricordarci in Davanti al dolore degli altri scritto nel 2000 che ‘quando ci sono delle fotografie, una guerra diviene reale. Così, la protesta contro la guerra in Vietnam fu attivata dalle immagini’. Infatti, durante l’offensiva del Tet nel 1968 il mondo occidentale con in testa gli Stati Uniti cominciò a vedere le immagini di morte e violenza in diretta televisiva, il favore verso la guerra precipitò e segnò l’inizio della sconfitta americana nell’opinione pubblica che portò poi alla sconfitta vera e propria sette anni dopo.
L’attivismo sui social dei giornalisti di Gaza durante questa distruzione senza precedenti potrebbe essere il punto di svolta di questa guerra come l’offensiva del Tet lo fu per quella del Vietnam. Le terribili e disumane immagini del riservisti israeliani che fanno balletti su Tik Tok mentre migliaia di palestinesi vengono uccisi non aiuta la causa israeliana, così come non lo fanno i trend sempre su Tik Tok degli influencer che imitano i Palestinesi come fossero subumani imbrattati di sangue o mentre mostrano di sprecare acqua ed elettricità mentre Gaza ne è priva da un mese.
Gli occhi sbarrati dal terrore dei bambini palestinesi segnano il confine tra realtà e propaganda, tra umanità e fanatismo. ‘Le fotografie fanno in modo che i privilegiati tra di noi affrontino il proprio legame e la propria responsabilità nei confronti dell’umanità.’ Ci ricordava vent’anni fa Susan Sontag.
Francesca Conti
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