Muore un ragazzo di vent’anni. Lo travolge un treno intorno alle sei di mattina di mercoledì 19 febbraio, alla stazione di Prato Porta al Serraglio. Viene subito accertato che si è trattato di un gesto volontario. Si tratta di un altro suicidio ai margini dell’abitare.
Si chiamava Lamine Barrow, veniva dal Gambia ed era ospite presso Coop22, una struttura dedicata all’accoglienza. Uno dei pochi Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria) rimasti a Prato. Il giovane era in attesa che la Commissione Territoriale esaminasse la sua richiesta di asilo politico. Sul sito della cooperativa, attiva sul territorio dal 2014, si leggono le varie attività offerte ai nuovi arrivati. Da una parte si prevede l’accompagnamento alle visite mediche, la facilitazione dei contatti con la Questura e la Prefettura per il rilascio dei documenti e il supporto per il colloquio presso la Commissione territoriale dove le persone che fanno richiesta di asilo spiegano le motivazioni delle loro partenze e, inevitabilmente, ciò che hanno passato attraverso il loro drammatico viaggio. Dall’altra la cooperativa offre, ma sarebbe meglio dire ‘offriva’, l’insegnamento della lingua italiana, corsi di arte, musica, teatro, Ciclofficina, Orticoltura, sport, con una squadra di Calcio iscritta al campionato UISP. Con l’entrata in vigore del Decreto legge n.113/2018 (cosiddetto Decreto Salvini), i fondi messi a bando sono passati dal 52,2% al 31,7% tra il 2020 e 2022, con un lieve aumento nel 2023 al 36,2%. Ritenuto comunque non sufficiente dagli operatori dell’accoglienza che, con importi e servizi di inclusione ridotti al minimo, hanno deciso di non partecipare. I tagli riguardano alcuni servizi essenziali come i corsi di italiano, il sostegno psicologico e legale, la mediazione culturale.
Così tra il 2020 e 2022, il 18,7% delle gare messe a bando dalle Prefetture sono andate deserte (Openpolis, giugno 2024). Il Decreto Salvini ha eliminato anche il permesso di soggiorno per motivi umanitari che era una protezione per le persone che non rientravano nei requisiti per il rilascio dello status di rifugiato, pur fuggendo da conflitti armati o da paesi caratterizzati da instabilità politiche endemiche, (O.C.I.S. Osservatorio Internazionale per la Coesione e l’Inclusione Sociale).
Jedlowski parla degli orizzonti di attesa passati, ovvero delle aspirazioni e dei progetti immaginati – appunto in un tempo passato – per orientare il presente. Ma, in questa deriva securitaria dell’accoglienza con l’esternalizzazione delle politiche migratorie in Albania, molte persone in Italia non hanno la possibilità né di ottenere un permesso di soggiorno né di essere inseriti in una struttura con dei servizi e delle attività fondamentali. La memoria del futuro immaginato diventa insostenibile nel qui ed ora poiché l’immagine dei desideri immaginati nel passato non coincide con quella del presente che stiamo vivendo. E’ successo a tutti e tutte noi almeno una volta, proprio come è successo a Lamin.
Senza contare la violenza verbale del dibattito pubblico e politico che conduce ad una disumanizzazione continua delle persone in movimento, in particolare nella descrizione alterata dei corpi. Ad un corpo de-umanizzato si può fare di tutto. Può essere rappresentato come “bestiale”, legittimando così lo sfruttamento nelle fabbriche per 12, 13, 14 ore al giorno diffuso in tutto il distretto pratese. Oppure, come nella dichiarazione del ministro Valditara, può essere ipersessualizzato, distorcendo la lettura dei dati e legando l’aumento dei fenomeni di violenza sessuale all’immigrazione resa irregolare. Un corpo disumanizzato può essere imbottito di psicofarmaci e trasformato in uno zombie che cammina, perché farsi carico dei suoi demoni, che portano nuove istanze nella nostra società, metterebbe in discussione le nostre categorie rassicuranti.
Lamine era un ragazzo d’oro, mi confessa un’operatrice della struttura. Frequentava la scuola media, aveva un lavoro in una ditta italiana, giocava a calcio nella squadra dell’Associazione gambiana di Prato e faceva rap. Eppure, nell’ultimo mese, si era affacciata dentro di lui una parte di sé più pesante, capace di vincere la razionalità. I sensi di colpa verso tuttə e tutto gli avevano fatto perdere la lucidità. Mentre dovremmo essere noi a farci un’analisi sul tipo di accoglienza che offriamo ai richiedenti asilo, ai minori stranieri non accompagnati, alle persone vittime della tratta di esseri umani. Il sistema dell’accoglienza è carico di bias neocoloniali che non vogliamo vedere. Così è stato più facile ricoverare Lamin nel reparto psichiatrico, da cui poi è stato dimesso dopo poco con degli psicofarmaci. Il percorso della psicoterapia è un privilegio della bianchezza.
Lamin, dopo questo crollo, rientrava nella categoria dei vulnerabili. Nessunə di noi riuscirebbe a riprendersi da un momento di difficoltà emotiva e psicologica in una struttura con più di cento persone, di etnie e culture diverse: sei per stanza, con i letti a castello uno accanto all’altro, degli armadietti di latta che fanno da armadio e i bagni condivisi per mesi che poi diventano anni, in attesa della risposta della Commissione Territoriale o del ricorso in appello. In una struttura di accoglienza con 112 richiedenti asilo, non c’è nessuno spazio per l’intimità. Chi crede, in un angolo, stende il tappeto per pregare; un momento per ritrovare se stessə durante il viaggio, che non è ancora finito all’arrivo nel Centro di Accoglienza. Qualcun altro, poco più avanti, nel corridoio allestisce un salone improvvisato per tagliare i capelli ai compagni. Sono attimi di cura, che dovrebbero insegnare molto a chi gestisce le strutture. Ma non c’è tempo perché, avidamente, si pensa già al prossimo bando.
Un amico del Mali mi ha detto: “Bisogna stare attenti in questa vita”. Perché ci vuole un attimo a perdersi, ed è quell’attimo che ha travolto Lamin. Doveva essere spostato in una struttura più piccola, per dargli il tempo di riacquistare la serenità e l’autonomia che l’aveva sempre caratterizzato. Perchè non è stato fatto? Era da gennaio che stava male ed era riuscito a chiedere aiuto più volte. Il numero ridotto dell’equipe non consente di seguire al meglio le storie dei singoli quando sono più di cento in una sola struttura e la direzione lo sa bene.
Lamine, la sera prima di morire, avrebbe detto: “Torno in Gambia oppure mi ammazzo”. Gli operatori gli parlano, lo rassicurano. Poi un messaggio alle cinque del mattino ad un operatore a cui era particolarmente affezionato. “Ciao”, gli scrive solo questo. E infine, la corsa alla stazione per fermare quei pensieri che non gli davano più tregua. Un vortice, un magma che cola, che gli sembra impossibile da arrestare. Un nuovo inferno che si aggiunge a quelli già vissuti per venire in Italia. Questa volta però più intimo e più difficile da affrontare da solo.
Alla notizia del suo gesto, un amico, per il dolore, si accascia a terra davanti agli uffici della cooperativa, mentre agli operatori vengono date indicazioni di non confermare la notizia: viene detto loro di non dire niente. L’omertà caratterizza alcuni sistemi di accoglienza che infantilizzano le persone migranti, privandole della dignità persino del dolore condiviso. Perché ogni vita vale e valeva anche quella di Lamin. E’ la stessa Coop22 che si sta occupando di rinviare la salma in Gambia. Invece, l’associazione gambiana di Prato ha avviato una raccolta fondi da destinare alla famiglia. Termina così l’ultimo viaggio di Lamin. Solo una settimana prima, la notizia di un ragazzo di 32 anni che si toglie la vita nel carcere della Dogaia. I suicidi che avvengono ai margini dovrebbero risvegliare le coscienze di tutta la comunità, ricominciando a mettere al centro la cura come una scelta politica. Infatti, i primi segni di civiltà non sono vasi di argilla o pietre scheggiate, come diceva l’antropologa Margaret Mead. “Aiutare qualcuno a superare la prova, ecco dove inizia la civiltà”, (Mead).
Dal blog Lettera da un professionale


Ultimi post di Erika Greco (vedi tutti)
- Ingranaggi: per ri-umanizzare una collettività - 13 Aprile 2025
- La morte ai margini dell’abitare - 1 Aprile 2025