Loro si organizzano, e noi? Un primo esame del “decreto sicurezza” e delle politiche sicuritarie/1

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Quando abbiamo iniziato a lavorare su questo documento, il decreto sicurezza non era ancora legge dello Stato. Oggi, invece, questo passaggio è avvenuto e, sebbene lo considerassimo scontato, rende ancor più urgente un lavoro di informazione sulle novità di un pacchetto di leggi che, seppure in continuità con quelle precedenti, segna un passaggio ulteriormente peggiorativo in termini di repressione ma anche di restrizione delle libertà individuali.

Prima di illustrarne i punti fondamentali, però, abbiamo sentito la necessità di iniziare con una breve quanto generale premessa.

Nel Giugno del 2013, in piena crisi finanziaria europea, la banca d’affari statunitense JP Morgan ha reso pubblico un report in cui esprimeva preoccupazione per il processo di integrazione europea. Indicativo che tra gli elementi di preoccupazione, la banca citasse l’impianto antifascista di alcune costituzioni nazionali, troppo attente ai diritti dei lavoratori.

Per parlare di giustizia abbiamo deciso di iniziare da questo episodio. Un lavoro tutelato da diritti implica che lo Stato si faccia carico dei propri cittadini, che non ricorra a strumenti di repressione del dissenso, e che non limiti le libertà individuali. Certo, un sistema di questo tipo è “costoso”. Ma costoso per chi? Non certo per chi ha bisogno o può accedere a un sistema di servizi e di welfare efficace, non certo per chi ha un lavoro dipendente, non certo per chi vive spesso a cavallo della soglia di povertà. Per questo tipo di sistema, le tutele sono forme di assistenza che migliorano la vita e che aiutano a districarsi dalle difficoltà, sia quelle quotidiane che quelle eccezionali.

Al contrario, un sistema di questo tipo è costoso prevalentemente per chi vuole investire in un Paese attraverso attività produttive che per essere profittevoli hanno bisogno di manodopera a basso costo. Perché, lo sappiamo, i profitti sono più alti se si ha a disposizione qualcuno disposto a lavorare per pochi spiccioli e con poche tutele. Quando vengono meno i diritti, però, bisogna allo stesso modo immaginare un sistema giuridico più repressivo che prevenga il dissenso sociale, isolandone i possibili protagonisti, o che reprima direttamente le forme di resistenza quando esse si rendono visibili.

Qualcosa del genere è successo (e sta succedendo) recentemente nel nostro paese.

Partiamo dal quadro globale

Gli ultimi 40 anni sono stati caratterizzati da una forte e tendenziale crisi dei profitti (iniziata più o meno a metà degli anni’70), che ha prodotto, parallelamente, un profondo cambiamento nell’organizzazione economica, concentrando la ricchezza in poche grandi società e in pochi poli finanziari che reggono la contabilità generale della società. Ma nonostante questo, la crisi di produttività, la crisi dei profitti, continua e genera debito. Per evitare che il sistema crolli, come nelle peggiori fiabe nere, bisogna rivolgersi al mostro cattivo, che in questo caso è la speculazione che puntualmente droga l’economia e nasconde sotto al tappeto la crisi strisciante, che si alterna con momenti di crescita, ma che non smette di scavare la sua galleria erodendo i profitti privati. Per provare a rallentare questa corsa inesorabile esiste anche un altro modo: il debito dovuto alla crisi dei profitti privati (e che dunque è debito privato, cioè debito contratto da qualcuno nei confronti di qualcun altro – qui non c’entra il debito degli Stati) deve essere scaricato quanto più possibile sulla collettività. In questo senso, un altro episodio è di fondamentale importanza: la crisi bancaria del 2007-2008 è stata sostanzialmente pagata degli Stati, attraverso le banche centrali, proprio per evitare un fallimento a catena dei creditori dell’enorme debito accumulato dalle attività produttive.

Torniamo al punto di partenza: per scaricare il debito sulla collettività, occorre fare ingoiare ai cittadini bocconi amari (taglio degli stipendi, taglio delle pensioni, e soprattutto taglio dei diritti), reprimere il dissenso, e togliere qualche spazio di democrazia che si “rischiava” di dare troppo per scontato.

Nel nostro Paese le cose non sono andate diversamente: la risposta politica alla crisi economica del 2008, espressa da tutti i governi che si sono susseguiti – Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte – (declinata con formule retoriche, o con sfumature differenti), è risultata, sempre e comunque, asservita alle logiche dell’economia finanziaria.

I diversi Governi hanno, infatti, sacrificato sull’altare della stabilità economica la tutela dei diritti fondamentali, sia individuali che collettivi, acquisiti in decenni di lotte, seguendo alcune fondamentali e comuni linee direttrici che proviamo a schematizzare:

-a fronte di un mancato incremento produttivo si interviene sul versante dello sfruttamento della forza lavoro, della sua frammentazione e totale flessibilità, e si estende questo processo ad ogni ambito della vita sociale, con provvedimenti che tendono ad abituare allo sfruttamento a partire da ogni fascia di età, fin ad arrivare alla vera e propria eliminazione di servizi e ammortizzatori sociali prima garantiti. Si incrementa così un esercito di precari, disoccupati e marginalizzati, che diventa sempre più grande e almeno in teoria sempre più disposto ad accettare l’elemosina del padrone di turno;

-a fronte della polarizzazione della ricchezza sociale, con un nucleo sempre più ristretto di ricchi che diventano sempre più ricchi e con l’aumento delle persone che vivono a cavallo della soglia di povertà (determinato dall’abbassamento dei salari reali, dalla precarizzazione e disoccupazione di massa) emerge sempre di più la necessità di garantire ad ogni costo il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica;

-Sempre nell’ottica della prevenzione del dissenso, lo Stato tende a potenziare i meccanismi di controllo dei territori (sia attraverso l’installazione di videocamere nelle piazze, nelle scuole, nei presidi sanitari, nei luoghi di intrattenimento o di pubblici spettacoli, che attraverso la penalizzazione in materia di manifestazioni di lotta, presidi e blocchi stradali). Inoltre, la prassi legislativa tende sempre di più a consentire l’utilizzo di questi meccanismi di controllo anche nei luoghi di lavoro.

La necessità di mantenere il controllo e la disciplina, ha un unico corollario: la punizione. Ed è per questo motivo che ancora oggi il carcere è un elemento esibito e rivendicato dai governi per mostrarsi capace di governare le contraddizioni sociali e di reprimere la devianza. Negli ultimi anni, in particolare, abbiamo assistito a un indurimento delle condizioni carcerarie: le “vecchie” emergenze (mafia e terrorismo) hanno costruito un regime carcerario che, nato come eccezionale, è diventato sempre più ordinario. Le aggravanti di terrorismo e associazione mafiosa riguardano una fattispecie sempre più larga di reati, e inoltre la stessa detenzione speciale diventa arma di controllo e ricatto dell’intera popolazione detenuta, rendendo sempre più difficile la vita in carcere e togliendo ai detenuti possibilità di reinserimento. (continua)

*Tavolo carcere e giustizia Potere al Popolo

 

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