Le 5 antipaticissime parole del calcio

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calcioCorreva l’anno 1882, il Regno Unito dominava il mondo ed il Parlamento di Westminster non aveva ancora approvato l’estensione del suffragio che consegnava per la prima volta il diritto di voto ad oltre la metà della popolazione adulta maschile, lo farà infatti solamente due anni più tardi, attraverso il cosiddetto Third Reform Act. Eppure le terre di Oltremanica erano sferzate da una veemente e molto più mondana contestazione nei riguardi di due club calcistici, il Preston North End ed il Blackburn Rovers, che decisero di assegnare ai loro giocatori retribuzioni regolari. Erano ovviamente cifre irrisorie rispetto a quelle odierne, ma comunque capaci di creare scandalo in un ambiente che fino a quel momento aveva solamente sperimentato modesti rimborsi spese, spesso neanche in grado di coprire le spese di viaggio e le giornate lavorative perse dai giocatori. A quei tempi infatti, le vittorie calcistiche erano pagate solamente con sudore ed applausi, e forse, aggiungiamo noi, con qualche gigantesca pinta di birra offerta dai tifosi ai propri beniamini, magari nel più fumoso pub della zona.

Brasile, 2014. La Germania, per la prima volta come Paese unificato, ha alzato la sua quarta Coppa del Mondo al cielo, sconfiggendo in finale l’Argentina di Lionel Messi, senza alcun di dubbio il numero 10 più presente sulle spalle di tanti bambini che inseguono un pallone a qualsiasi latitudine del globo terreste. Lo stipendio annuale netto che percepisce l’asso del Barcellona è di ben 16 milioni di euro, ai quali si devono ovviamente sommare tutti quelli, e sono molti vi garantiamo, provenienti dagli sponsor. Fatto sta che Leo Messi, alla tenera età di 27 anni, vanta un patrimonio personale stimato in 146 milioni di euro.

La reazione di schifato sdegno a fronte dell’immensa, e finanche non quantificabile ricchezza che circonda giovani ragazzi meritevoli esclusivamente di vantare doti particolari su un rettangolo verde è certamente scontata. Eppure, nonostante lo sport tutto, ed il calcio in maniera particolare, siano dominati dai grandi interessi economici, abusino e sviliscano la passione dei tifosi, dividano le persone su base territoriale, si facciano portatori delle più bieche retoriche e parodie nazionaliste, milioni di persone si interessano e si appassionano al rotolare di questa sfera, per motivi che prescindono e vanno oltre gli interessi economici in gioco. Qualcuno lo pratica come via di uscita da una vita di anonimato e povertà, molti di più come positiva distrazione dalle difficoltà quotidiane. Lo sport è soprattutto però il concentrato assoluto delle contraddizioni presenti nel sistema capitalistico. Della sua scintillante ed oscena ricchezza e della sua galoppante miseria, sia economica che sociale. Chi nega questo nega la realtà. Così come chi tende a ritenere non significativo e superfluo cosa avviene in questo ambito. Queste immense contraddizioni creano infatti anche uno spazio dove la resistenza si può sviluppare. Per noi questa muove anche dalla ridefinizione del significato da associare alle cinque, antipaticissime parole ripetute come mantra nell’ambito pallonaro.

Progetto

Tutti ne parlano, tutti lo invocano. Soprattutto però questa parola è divenuta una costante litania per tutte quelle società che non possono competere ad armi pari con i club economicamente più attrezzati d’Europa. E da questa debolezza ecco sorgere l’idea che potenzialmente prospetta di rompere il continuo ripetersi del presente: pareggiare una mancanza di forza finanziaria con una migliore gestione organizzativa delle risorse, quelle umane in primis. Idea brillante all’apparenza, salvo poi trovarsi di fronte alla stessa sconsolante verità: ovvero, non sempre chi spende di più vince, ma chi non spende certamente non vince mai. Insomma, più che di progetti le squadre necessitano di soldi. Alla fine, è sempre la stessa vecchia storia del capitalismo, no?

Ultras

Il male assoluto per tanti. Quasi peggio degli anarchici, forse un gradino sopra gli zingari. La sottocultura più longeva in Italia negli ultimi quarant’anni è tanto bistratta quanto poco conosciuta. Gli ultras, additati come fulgido esempio della devianza di alcune frange della gioventù nostrana quando eclatanti fatti di cronaca li portano in primo piano, sono il classico elemento che il sistema non vuole distruggere, ma semplicemente normalizzare. Perché uno stadio pieno ed una coreografia mozzafiato in curva sono ingredienti importanti per creare quel trasporto emotivo necessario a vendere le partite a chi ha deciso di rimanere comodo sulla poltrona del proprio salotto. Perché le curve sono ritenuti ambiti importanti nei quali introdurre normative securitarie da estendere successivamente alla società tutta. Per questo, e molto altro, chi coscientemente vive la curva, fa politica. Non è difficile da capire, vero? Però vi preghiamo di aiutarci nella campagna che punta ad eliminare il diritto per i giornalisti mainstream di utilizzare il termine ultras: non sono proprio degni di farlo, anche perché non sanno di cosa stanno parlando.

Lavoro

Li avrete sentiti migliaia di volte, giocatori e allenatori, ripetere di fronte a giornalisti e telecamere che hanno, o stanno, lavorando bene. Effettivamente per un professionista, come il senso della qualifica svela, l’attività sportiva diviene la propria mansione, il proprio sostentamento. Potremmo anche spingerci a definire i giocatori come proletari in senso marxiano, in quanto derivano il proprio salario esclusivamente dalla cessione della propria forza-lavoro. Tuttavia, vogliamo fermarci un attimo prima. Perché una volta che tutto è stato mondato dai propri orpelli rimane sempre la stessa realtà: ventidue persone divise in due squadre che rincorrono un pallone su un rettangolo verde. Per questo fateci il favore di non chiamarlo lavoro. Attività ci sembrerebbe più carino.

Fair-play

La faccia pulita di un mondo sporco. Il classico segno dello strisciante moralismo democristiano che invade e pervade tutto l’universo. Si può ovviamente obiettare che non vi sia niente di male a stringere la mano all’avversario che hai affrontato lealmente negli ultimi novanta minuti. Verissimo, siamo concordi con voi. Il tutto però diventa una scherzosa parodia quando il gioco si trasforma in una sfida aperta, in una contesa dove qualsiasi mezzo, dalle alterazione delle proprie prestazioni tramite sostanze proibite fino ai tentativi di comprare il direttore di gara, viene considerato plausibile per vincere. Ed ecco che il fair-play appare in tutta la sua mestizia, equiparabile al generico pacifismo dei non schierati e dell’elemosina domenicale di chi ha peccato tutta la settimana. Semplicemente patetico come chi lo applaude.

Top-player

Il condensato assoluto delle contraddizioni italiche e della deriva di chiara matrice quantitativa che affligge la nostra esistenza. Infatti, in un Paese che rifiuta quasi antropologicamente l’utilizzo corretto, o presunto tale, della lingua globale fioccano parole anglofone, come ad esorcizzare una conoscenza ritenuta, al tempo stesso, imprescindibile ma comunque troppo difficile da raggiungere. Soprattutto, la sostituzione del termine fuoriclasse con top-player è indicativo di una tendenza che si propaga dall’accademia ai mercati borsistici, dal negozio rionale fino allo sport: l’esigenza di assegnare un valore a qualsiasi cosa su una scala ritenuta oggettivamente valida. E così, i ricercatori universitari vengono valutati in base al valore della rivista sulla quale pubblicano i loro articoli, gli studenti attraverso test fantocci ed i calciatori più capaci smettono di essere altro, fuoriclasse appunto ovvero non giudicabile secondo i tradizionali metri di valutazione, per divenire semplicemente i migliori nella specifica attività agonistica, perdendo così il loro carattere di unicità.

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Gianni Del Panta

Gianni Dal Panta, studioso e attivista politico, è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione. Da piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).

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