Periferie specchio delle esclusioni sociali

periferiaLe periferie delle nostre città sono identificate come luoghi dell’assenza di qualità, della carenza di servizi, delle disparità sociali. Del “degrado” e dell’insicurezza, categorie su cui la speculazione politica ha puntato molto per lucrare consensi declinandole nell’unica direzione del timore dell’altro e del diverso, nel fomentare guerre tra poveri, per alzare la richiesta di “legge e ordine”.

Certo i problemi che vivono le periferie, ovunque localizzate (e comunque definite, in una città sempre più frammentata, vedi articolo di Nicola Solimano), e le difficoltà di chi le abita sono ben reali, e certo ha ragione Renzo Piano quando afferma che “sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione”: il pubblico, la politica, le amministrazioni di qualsiasi colore hanno abdicato al governo della città (anche della città), nella china del dilagante liberismo che pretendeva di limitare al massimo, o estromettere del tutto, l’intervento pubblico da ogni aspetto della società, in ossequio al “libero dispiegarsi del mercato”. Che naturalmente ha voluto dire assenza di regole, caotico sviluppo urbanistico-edilizio secondo i soli canoni della speculazione, condoni a raffica, e concentrazione delle risorse lì dove potevano produrre profitto, piuttosto che dove sarebbero state necessarie.

Renzo Piano si chiede anche se le periferie “diventeranno o no pezzi di città”. Ma le periferie sono già parte integrante della città attuale, fanno parte a pieno titolo della nostra realtà urbana. Da sempre la città si conforma, in termini di organizzazione spaziale, di distribuzione di funzioni e di ricchezza, secondo i rapporti sociali, economici e di classe dominanti, e le nostre città sono specchio dell’ordinamento attuale, delle disuguaglianze, delle esclusioni, delle subordinazioni, che sono sociali prima che spaziali.

Un ulteriore aspetto dell’attuale modello liberista contribuisce ad aggravare le condizioni di vita, e non solo nelle periferie, anche se certo è più dirompente nelle aree fragili, di margine: la rottura dei rapporti sociali, la perdita della dimensione collettiva, l’affermarsi di “un’etica di sfrenato individualismo proprietario” (D. Harvey) come modello di riferimento.

Fino agli anni ’70 – ’80 le periferie urbane, più facilmente di oggi identificabili nei quartieri più distanti dal “centro”, e comunque caratterizzate da maggior povertà e carenza di infrastrutture e servizi, erano anche luoghi di solidarietà interna, di creazione di reti sociali, anche di conflitti collettivi per rivendicare migliori condizioni di vita.

E’ facile verificare quanto oggi questo tessuto sia frantumato, nell’era inaugurata da Margaret Thatcher con la famosa affermazione “la società non esiste. Ci sono solo individui, uomini e donne, e ci sono famiglie“. Non solo lo politiche si sono conformate a questo assunto, i media, la comunicazione mainstream, i costumi di questi anni hanno capillarmente diffuso la prevalenza della dimensione individuale, con il conseguente contrarsi di ogni forma di socializzazione e solidarietà.

Uno dei simboli di questa nuova dimensione urbana sono i centri commerciali e i nuovi contenitori che affollano le aree periferiche delle città contemporanee, dove molecole di un puzzle individuale sublimano le necessità negate di socializzazione in uno dei punti fermi del capitalismo liberista: il consumo.

Anche il conflitto sociale contemporaneo è fondato più sull’individuo che non sulla classe, in una “guerra civile molecolare” come la definisce Hans Magnus Enzensberger, e questo può contribuire a comprendere i riots delle banlieue parigine o dei sobborghi londinesi. Ecco perché diventa centrale agire per riconnettere, ricucire e ricreare rapporti sociali e senso di comunità. Ecco perché non basta una qualche ricucitura spaziale che ridà un senso formale a luoghi che ne sono privi. Ecco perché progetti di intervento per “riqualificare le periferie” che vengono spesso annunciati dalle amministrazioni, più raramente avviati, sono destinati a non sortire effetti strutturali: perché provengono da chi a questo modello di città ha dato adesione o quanto meno accettazione.

Ben venga ogni intervento che anche solo in parte possa portare benefici a luoghi privi di servizi e di qualità, ma la vera dimensione del cambiamento no può che venire dal basso, dall’autorganizzazione di cittadini/e che costituiscono cellule di comunità che lavorano insieme.

Sempre più si diffondono reti, associazioni, gruppi, che agiscono per la riappropriazione del senso della città. Pratiche finalizzate a esercitare solidarietà, equità, protezione ambientale, a combattere la “monetarizzazione del vivente (…) a far prevalere gli spazi dei vita su quelli del profitto attraverso il recupero di spazi dismessi, rivendicare diritti attraverso l’occupazione di abitazioni” (Giovanni Attili).

Produrre spazi liberati dalle logiche dominanti. E farlo insieme. Dai Gruppi di Acquisto Solidale agli orti urbani, dalle occupazioni di spazi inutilizzati per destinarli ad abitazioni o spazi sociali al recupero di terre incolte per pratiche di agricoltura contadina, dalla riappropriazione di spazi verdi autogestiti (vedi a Roma la vicenda del lago SNIA) alla autogestione dei luoghi di produzione abbandonati dalla delocalizzazione.

Questo, in ogni quartiere e a maggior ragione nelle periferie, è la premessa ad ogni reale “riqualificazione”, e non un ordinato “rammendo”.

Maurizio De Zordo, Laboratorio politico perUnaltracittà