Tunisia: la normalità di un coprifuoco (anche informativo) che rende terrorista chi chiede democrazia

La Tunisia si incendia di nuovo… e l’unica soluzione sembra essere il coprifuoco permanente. Sembra un brutto gioco di parole, ma è purtroppo la realtà che si vive in questi giorni nel Paese noto come il primo ad aver dato il via alle primavere arabe e quello che ne ha capitalizzato, seppur a fatica, alcune istanze di cambiamento.

È cronaca di questi giorni. Lo scorso 20 gennaio, a Kasserine, Ridha Yahyaoui, 28 anni, sale per protesta su un pilone dell’elettricità minacciando di suicidarsi per essere stato escluso dalla lista di partecipanti ad un concorso pubblico e muore folgorato. Il giorno dopo, sempre a Kasserine, la manifestazione spontanea di tanti giovani in solidarietà con Ridha viene repressa dalla polizia con un bilancio di 14 feriti. Poi la protesta si espande in altre città della periferia del Paese, fino ad arrivare a Tunisi.

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Ridha Yahyaoui

La storia di 5 anni fa, sembra ripetersi, per tanti, troppi, aspetti: Ridha, come Mohamed Bouazizi, sono arrivati ad un gesto estremo perché quel governo che li aveva iper-formati e parcheggiati in disoccupazione, non era capace di dare loro risposte se non la beffa delle sanzioni formali che per loro escludevano ogni prospettiva di reddito.

Quei gesti estremi incrociano la frustrazione di moltissimi giovani nel Paese che ingrossano le fila dei ‘diplomés chomeurs’ (laureati disoccupati): difficile trovare stime ufficiali, ma si calcola, con cifre probabilmente approssimate per difetto, che nel solo settore dell’educazione, il 30% dei disoccupati del Paese siano laureati e si attesterebbero sui 250.000 giovani dai 21 ai 30 anni, tanto per dare un esempio.

Ridha e Mohamed non sono eroi, non sono martiri, come spesso vengono definiti, ma diventano simboli, per questo la piazza risponde. E immediatamente dalle periferie si esige, ancora e ad alta voce, quella giustizia sociale che la Rivoluzione aveva richiesto.

Nel 2011 alla mobilitazione seguì la dismissione di Ben Alì, l’elezione dell’assemblea costituente, la nuova Costituzione. Nel 2015 la risposta del Governo è in forma di farsa: una serie di promesse di riforme e di obiettivi (5.000 posti di lavoro, cifra successivamente rivista come errore di comunicazione), ma soprattutto coprifuoco e repressione violenta di ogni mobilitazione, denuncia, voce contraria. È la stessa risposta data dopo gli attentati terroristici del Bardo, di Sousse e di Tunisi, come se il terrorismo o la richiesta di giustizia sociale siano mali da trattare con la medesima cura.

Non si tratta solo di mancanza di immaginazione da parte del neo-governo tunisino. Il terrorismo, l’islamismo radicale, ma anche le proteste della società civile sono diventate di fatto la base per una operazione di recupero politico da parte della controrivoluzione e di politiche repressive: come denunciato da molti tunisini e tunisine, ma anche da chi come Debora Del Pistoia lavora – con la ong Cospe – e vive nel Paese dal 2011: “L’emergenza securitaria si è fatta facile pretesto per applicare leggi speciali e antidemocratiche, per reprimere il dissenso e mettere a tacere voci scomode”.

Da citare la legge antiterrorismo che permette di fatto abusi polizieschi, anche nel non rispetto di principi costituzionali, come anche le nuove limitazioni alla libertà di circolazione di tunisine e tunisini, o gli attacchi i migranti presenti sul territorio, spesso vittime di arresti e torture.

Da questa ottica, come segnalato da molte associazioni di base, il Nobel 2015 alla società civile tunisina in dialogo con le istanze governative, sembra essere “il premio giusto assegnato nel momento più sbagliato”: un riconoscimento che rischia di legittimare ulteriormente questa politica e di riconoscere soltanto le organizzazioni maggiormente moderate e meno critiche nei confronti della repressione attualmente in atto.

Tunisian protesters take to the streets in the southern town of Kasserine , Tunisia, and clash with riot police during a protest against a new tax on vehicles, Wednesday, Jan. 8, 2014. Protesters called the government the "assassin of our dreams," complaining that little has changed since the country's reviled leader was ousted in 2011. (AP Photo / Mouldi Kraiem)

Risulta per questo condivisibile l’analisi di Santiago Alba Rico, che in un suo articolo recentemente rilanciato anche da Comune-Info parla della Primavera Araba come di una Intifada regionale che in molti Paesi “ha ceduto il passo a una versione estrema della ‘normalità’ precedente: le dittature persistono o riappaiono, si moltiplicano i fronti di guerra e gli interventi stranieri, il malessere generale viene imputato al settarismo religioso e al jihadismo radicale”. In questo panorama, definisce la Tunisia come “eccezione democratica”, che viene però pagata a carissimo prezzo dal movimento rivoluzionario e dai settori sociali più sfavoriti, emarginati e senza prospettive, come e forse più che in precedenza.

Le cause di questa normalizzazione al ribasso sono sicuramente da trovare all’interno del Paese: nell’accordo governativo che lega islamismo moderato e rappresentanti del vecchio regime, come anche nella estrema debolezza della società civile organizzata, che non riesce ad unirsi in una piattaforma capace di rappresentare con forza e peso politico le questioni rimaste inevase nel dopo 2011.

Ci sono però anche rilevanti concause esterne ed internazionali che dobbiamo conoscere: la grande alleanza di 64 Paesi contro l’Isis, unita alla chiusura di fatto delle frontiere europee (e non solo) verso chi scappa da situazioni di conflitto o dalla mancanza di prospettive, rendono la Tunisia, e soprattutto la sua società civile, sempre più isolata.

Non si parla della ondata controrivoluzionaria al potere nel Paese, forse perché non se ne deve parlare: di Tunisia si può discutere finché rappresenta la bella eccezione al riflusso anti-democratico in corso negli altri Paesi (Egitto in primis), ma hanno una eco troppo flebile le voci di chi dal Paese denuncia a proprio rischio la repressione in corso.

La società civile tunisina è ancora in movimento, subisce attacchi ogni giorno, anche per le miopie della politica europea in corso, che tende a premiare le istanze repressive: occorre parlarne, occorrono altre lenti per leggere questi fatti, e serve soprattutto che non ce ne accorgiamo solo quando i fatti d’oltremare incendiano per qualche istante la nostra cronaca nera internazionale.