Negli scorsi appuntamenti ci siamo concentrate sulla possibilità di definire mafie le organizzazioni criminali straniere presenti in Italia e in modo particolare su due gruppi che, in base alle indagini delle forze dell’ordine e della magistratura, sono maggiormente attivi nel territorio toscano. Si tratta di compagini formate prevalentemente da cittadini albanesi e cinesi.
La presenza dei gruppi cinesi merita, a nostro avviso, un ulteriore approfondimento legato soprattutto a un contesto circoscritto e specifico: Prato.
Preliminare alla questione criminale è la considerazione sulla numerosità della comunità cinese nel capoluogo toscano. Secondo le recenti statistiche demografiche della provincia di Prato i residenti cinesi in provincia di Prato sono circa 23 mila, su un totale di 256 mila abitanti. Poiché si registra una sovrapposizione tra residenti e cittadini con permesso di soggiorno ed è verosimile che ci siano individui di nazionalità cinese privi di documenti, i dati non possono considerarsi precisi. Ma secondo alcune fonti abbastanza autorevoli, negli ultimi anni la comunità cinese è composta all’incirca da 40 mila presenze.
Entrando nel vivo delle dinamiche criminali, i gruppi cinesi attivi a Prato secondo gli inquirenti sono principalmente di due tipi. Nel primo caso protagoniste le band giovanili, in genere molto violente, dedite all’usura a danno di altri cittadini cinesi.
Nel secondo caso si realizza un intreccio tra attività formalmente legale e illegale, relativo al settore economico in cui numerosi cittadini cinesi sono attivi come imprenditori, operai o impiegati, ovvero il pronto-moda e l’abbigliamento. Da non confondere con il settore tessile, tipico del distretto pratese ma saldamente gestito dagli «autoctoni».
Il pronto moda infatti è un settore secondario a Prato, nel quale i lavoratori cinesi si inseriscono inizialmente, a partire dagli anni Ottanta, attraverso la gestione di attività in passato svolte artigianalmente, a domicilio. Dagli anni Novanta e nei decenni successivi, le imprese cinesi si inseriscono sempre di più nel settore dell’abbigliamento, diventandone monopoliste e modificando profondamente il volto del distretto della lana cardata.
È in questo ambito che si registrano diversi illeciti compiuti da alcuni imprenditori cinesi: contraffazione; riciclaggio; mancato rispetto della normativa; traffico di clandestini e tratta degli esseri umani; lavoro nero; estorsioni praticate a danno di imprenditori cinesi al fine di instaurare un controllo stabile sull’esercizio di attività lecite. Alcune di queste pratiche si riscontrano in contesti economici basati sulla piccola impresa, ad esempio l’auto-sfruttamento, espressione della conduzione familiare di un’impresa, il ricorso all’evasione o al mancato versamento degli oneri previdenziali in una fase di recessione economica.
Dunque, tra le forme di illegalità imprenditoriali implementate da singoli o gruppi criminali cinesi si possono annoverare pratiche abbastanza diffuse anche tra gli imprenditori italiani. Su questo aspetto dalla nostra ricerca emerge un dato interessante: il ricorso a formule illegali, quali ad esempio l’elusione della normativa, perpetrate da imprenditori «autoctoni» appare giustificata come strategia di sopravvivenza alla crisi; al contrario pratiche in parte analoghe attribuibili a imprenditori cinesi sono condannate aspramente e rappresentate non come strategie di sopravvivenza ma come vere e proprie illegalità.
Nel lungo periodo questa «doppia lettura» ha condotto, a nostro avviso, a una proiezione dell’attenzione all’esterno (rivolta appunto alla comunità cinese) che si è rivelata funzionale alle strategie di mimetizzazione dei gruppi mafiosi soprattutto di camorra attivi sullo stesso territorio. Questo sarà il tema dei prossimi approfondimenti.
*Graziana Corica e Rosa Di Gioia
https://www.perunaltracitta.org/2018/11/04/mafie-straniere-in-toscana-qualche-interrogativo/
https://www.perunaltracitta.org/2018/11/20/mafie-straniere-in-toscana-qualche-interrogativo-2/
Graziana Corica Rosa Di Gioia
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