Meritocrazia. L’uguaglianza non è più una virtù

Per comprendere il ruolo del merito nel capitalismo – o, come viene chiamata oggi, della meritocrazia – è necessario partire da una riflessione sulla diseguaglianza, perché oggi la meritocrazia è legittimazione etica della diseguaglianza.

La diseguaglianza è la condizione naturale degli esseri umani e di molti animali: infatti i talenti che ciascuno riceve arrivando sulla Terra sono diversi da quelli degli altri.

La prima diseguaglianza tra le persone non è tanto legata alla ricchezza e alla moneta, ma ai talenti. Tanto che l’economista italiano Pareto, alla fine dell’Ottocento, in clima positivista, dimostrò che le diseguaglianze nei redditi rispondono a diseguaglianze nell’intelligenza. Essendo quindi naturali, le diseguaglianze dovremmo semplicemente accettarle come dato di fatto e non tentare di modificarle, perché sono tentativi che sono destinati all’insuccesso.

L’Occidente ha invece tentato di lottare contro questo stato di natura, ha voluto scardinare le diseguaglianze, ha cercato di cambiare questo mondo naturale, ha tentato di scardinarlo con la politica, con i diritti e con il welfare.

Ma le stagioni dell’uguaglianza sono sempre state brevi e limitate a piccole comunità, mentre la grande storia dell’Europa ha continuato ad essere sempre storia di disuguaglianze e di caste, con poche eccezioni. La legge di movimento della storia ha generato qualche isola di uguaglianza e di fraternità dentro oceani di diseguaglianza.

Ma, il Novecento ha detto “no” alla diseguaglianza come dato immodificabile, l’ha voluta cambiare, ridurla, allineare punti di partenza, ha cercato di immaginare un mondo non naturale, bensì artificiale, dove fossimo più uguali di come siamo nascendo.

Questo mondo è stata l’Europa. Non gli USA. L’Europa ha lottato contro il dato naturale della disuguaglianza tra uomini e donne e quindi ha fatto nascere lo stato sociale. Ha consentito alle donne di poter lavorare e studiare; ai bambini di non lavorare più e andare a scuola, tutti; agli anziani di poter smettere di lavorare e avere una pensione per vivere con dignità l’ultima stagione della vita. E ha voluto investire una quota del proprio reddito, del proprio PIL, per beni comuni immensi, come la scuola per tutti e la sanità universale.

Ma mentre molti, quasi tutti, godevamo i frutti di questa felice congiuntura storica del secondo Novecento, nel retrobottega dell’economia, della finanza e della politica, iniziava una controrivoluzione antiegualitaria, voluta e pianificata, prima di tutto, dalle grandi imprese multinazionali, scuole di business e dalle società di consulenza globali.

Questo capitalismo, per potersi affermare come culto universale, e quindi poter ottenere un consenso – un consenso etico (perché sappiamo bene che non c’è un’affermazione universale di un’ideologia se manca il consenso di una parte significativa della popolazione) – ha avuto bisogno di una legittimazione morale, possibilmente religiosa, di alcuni assiomi su cui si fonda. E così ha compiuto il miracolo.

La naturale diseguaglianza, tipica del capitalismo, che il Novecento aveva combattuto perché considerata sbagliata e non desiderabile, ad un certo punto è diventata una proprietà morale; l’abbiamo chiamata meritocrazia. E, improvvisamente, la diseguaglianza da un male è diventata un bene, da vizio è diventata virtù.

Perché la meritocrazia si presenta come una forma di giustizia, e quindi, grazie alla meritocrazia, le diseguaglianze naturali non vengono più contrastate, ma lodate e premiate.

Ma forse è giunta l’ora che iniziamo a prenderne almeno coscienza.

Oggi, per chiunque voglia denunziare corruzione e inefficienza, è sufficiente pronunciare la frase magica: “qui ci vuole più meritocrazia”, meglio se detta ad alta voce, con piglio deciso e dalla parte dei meritevoli, per accogliere applausi scroscianti e convincere di aver finalmente imboccato la strada giusta.

In realtà, come ricorda l’economista Amarthya Sen, la chiarezza non è tra i meriti della meritocrazia. Ci vorrebbe molta più riflessione su cosa intendiamo quando evochiamo questa parola, perché il merito sta infatti diventando la nuova religione globale del nostro tempo. Ma siccome esso si presenta come tecnica, non rivela la natura religiosa, perché ogni pratica e ogni teoria del potere ha cercato di associare il proprio potere a una forma di meritorietà, per conservarlo.

Tutte le oligarchie vorrebbero essere anche aristocrazie, cioè il governo dei migliori.

La meritocrazia è l’artistocrazia dei nostri tempi, dove, rispetto a quella feudale, cambiano soltanto il meccanismo di riproduzione delle élite e la giustificazione del loro essere migliori; non più la terra né il sangue, ma semplicemente il merito.

Ma, come ricordava Melchiorre Gioia, duecento anni fa, nel suo libro Del merito e delle ricompense, «le idee che nella mente degli uomini corrispondono alla parola merito, sono, come tutti sanno, infinitamente diverse: esse cambiano d’oggetto, di grado, di scopo, di misura, non solo tra popoli e popoli, ma anco tra classi e classi nella stessa città».

Quindi quando si parla di merito entriamo in un argomento scivoloso. Peccato che il nostro capitalismo non ne abbia nessuna consapevolezza e usa le parole merito e meritocrazia come fossero cose semplici e immediate.

Qui c’è un paradosso. Il primo spirito del capitalismo fu generato dalla radicale critica di Lutero alla teologia del merito, cioè: sola grazia, siamo salvi per grazia e non per le nostre opere. Ma quella pietra scartata – il merito – è diventata la testata d’angolo della nuova religione capitalista nata nei paesi protestanti. Proprio quei paesi che avevano rifiutato il merito come categoria, hanno inventato la meritocrazia. Altro paradosso su cui varrebbe la pena riflettere.

Noi sappiamo che dietro il merito rivive l’antica polemica tra Agostino e Pelagio, eretico dei primi secoli del cristianesimo. Perché la critica di Agostino a Pelagio era essenzialmente il superamento dell’idea antichissima, remota, presente nella Bibbia, che la salvezza dell’anima e la benedizione di Dio potessero essere guadagnati, acquistati, comprati, meritati dalle nostre azioni.

Quindi la teologia del merito aveva esattamente rimesso in campo questa idea, che potessimo comprarci la salvezza. Diceva invece Paolo, dirà poi Agostino, e lo ricorderà Lutero: “La salvezza è dono, charis, gratuità”. Insomma, dietro la moda del merito rivive una forma di neopelagianesimo; torna Pelagio con la sua tesi che ci salviamo da soli, senza gratuità.

Guardiamo da vicino qualche aspetto di questa religione meritocratica.

C’è una prima operazione importante. Il talento è ridotto a merito, il talento è interpretato come merito. Anche forzando la parabola dei talenti dove il talento viene donato dal padrone, non è che viene comprato, tantomeno conquistato, da qualche forma di virtù dei tre servitori della parabola di Matteo. Ma prima di ridurre il talento a merito – che è un’operazione completamente arbitraria perché il talento non è sempre, quasi mai, meritato – c’è un’altra operazione alle radici della meritocrazia: cioè le imprese riducono i molti meriti delle persone a pochissimi meriti definiti come tali dalle imprese stesse e dai proprietari. Perché chi definisce cosa è meritevole e cosa va remunerato sono i manager e i proprietari dell’impresa. E quindi una volta ridotti i molti meriti a pochi, questi pochi meriti (spesso molto semplici) vengono premiati e si attribuisce a questi meriti il potere. Appunto kratos, meritocrazia.

Dov’è il problema? Il problema è nel fatto che la meritocrazia sta livellando e appiattendo verso il basso i molti meriti umani difficilmente misurabili, che non si vedono, non si premiano, si scoraggiano anzi, si distruggono. Ad esempio, i talenti di umiltà, di mitezza, di compassione, di misericordia – che sono autentici capitali antropologici delle comunità, e delle imprese – chi li vede? Chi li considera merito? Chi li remunera? Oggi stiamo assistendo, in nome di pochi talenti – quelli quantificabili, calcolabili – a una distruzione di massa di talenti “diversi”, più umili, più umanistici, che non vengono visti e vengono distrutti. Quanto vale una persona che si comporta da mite in un’impresa? Ha un valore infinito, eppure se una persona si comporta da mite viene detta “perdente”. E invece è proprio lì che può venire la salvezza di molte organizzazioni.

Si dimentica poi che nei nostri successi conta molto il caso e la fortuna. Esiste un libro recente di Robert H. Frank su questo tema. Dietro a ciò che chiamiamo “successo” c’è moltissima fortuna e sfortuna: ci sono gli altri, c’è un’équipe, un paese.

Voglio raccontarvi un aneddoto personale.

A una cena della quinta elementare, compivamo cinquant’anni, un mio compagno mi ha confessato che faceva ogni giorno dieci chilometri a piedi per arrivare a scuola e per tornare, ed era questo il motivo per cui arrivava a scuola molto stanco. Io sono invece nato davanti a scuola. Ho avuto una famiglia che mi ha voluto bene, ho avuto incontri importanti, ho studiato venticinque anni gratis. Oggi ho il mio stipendio, la mia vita professionale, la mia ricchezza. Ma quanto è merito e quanto è dono? 90% dono, 10% merito?

Un paese che non vede questo è un paese ingrato; una cultura meritocratica è sempre una cultura ingrata, perché legge tutto come merito individuale, si dimentica quanta gratuità, quanto caso, quanta provvidenza c’è dietro la ricchezza individuale.

L’ingratitudine di massa è la prima nota dei sistemi meritocratici.

Infine una battuta sulla povertà. Tutte le teologie, ideologie meritocratiche, prima di essere una teoria del merito sono teoria del demerito, delle colpe, delle espiazioni. Si presentano come umanesimo ma diventano immediatamente un meccanismo di creazione di colpe e di pene. Diventano una produzione di massa di peccati e di peccatori che poi gestiscono e controllano a scopo di lucro. Gli universi meritocratici sono abitati da pochissimi eletti e da una moltitudine di dannati che sperano per tutta la vita in sconti di pena.

Oggi, tramite il ritorno di un antico concetto (che sta tornando attraverso la cultura del business, globale, imprenditoriale), stiamo rivivendo l’idea arcaica che il povero è colpevole.

Nei paesi latini avevamo molto combattuto per dire che il povero è semplicemente uno sfortunato, qualcuno che nasce nel posto sbagliato e che quindi va aiutato dallo Stato, dal welfare, dalla comunità. Se torna l’idea che il povero è colpevole – e quindi demeritevole –, diventa etico non far niente: la colpa dell’altro giustifica la mia indifferenza. Questo cambiamento di cultura della povertà è una conseguenza immediata e diretta della cultura meritocratica.

*Luigino Bruni

Il testo qui pubblicato è la nostra trascrizione di Oikonomia. Meditazioni sul capitalismo e il sacro, trasmissione radiofonica “Uomini e profeti” , andata in onda su Radio Tre il 10 marzo 2019. La trasmissione si può ascoltare

Ringraziamo l’Autore e l’emittente per avere concesso la pubblicazione.