Risorse pubbliche e affari privati, ecco il modello decisionale delle Grandi Opere

  • Tempo di lettura:14minuti
image_pdfimage_print

Le grandi opere inutili e dannose sono strumentali al funzionamento dell’impresa post-fordista, che prospera attingendo ai beni e alle risorse pubbliche, che grazie alla messa a punto di un modello finanziario-contrattuale ad hoc permette il trasferimento di fondi pubblici ai privati.

L’impresa postfordista, come afferma Ivan Cicconi è «una grande impresa virtuale che inevitabilmente scarica, attraverso una ragnatela di appalti e subappalti, la competizione verso il basso e induce, anche nella piccola e media impresa, una competizione tutta fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio, precario, atipico»[1].

Questo modello per l’implementazione di grandi opere pubbliche si basa sulla privatizzazione della committenza pubblica. Attraverso un contratto di concessione, si affida la progettazione, la costruzione e talvolta anche la gestione dell’opera pubblica, ad una società di diritto privato (Spa), ma il capitale è tutto pubblico, così come il rischio del recupero dell’investimento. Le società coinvolte, appalti, subappalti, consulenze vengono così a operare in un regime di diritto privato fuori dalle regole e dal controllo della contabilità pubblica, spesso in un regime di monopolio o oligopolio collusivo. Le «attività economiche, controllate, determinate e gestite da Consigli di Amministrazione delle Spa nominati dai partiti, in cui il ruolo ed i rapporti fra politici, tecnici e imprenditori, si confondono e diventano sempre più intercambiabili e intercambiati»[2]. Si forma così un modello che permette, alla luce del sole, di pilotare la spesa pubblica in direzione di interessi privati (e non dell’interesse collettivo). Per estorcere denaro pubblico a fini privati non è più necessario ricorrere a transazioni occulte: il favoreggiamento di aziende amiche da far lavorare e prosperare diventa lecito.

La rete illegale messa in evidenza da tangentopoli viene «ampiamente sostituita da un sistema di relazioni e di convenienze più immediato e più complesso, nel quale gli illeciti sono molto più difficilmente contrastabili»[3].

Come tutti i modelli che si rispettano, c’è sempre una ‘fase di ideazione’, che nel nostro caso specifico ha consistito nell’introdurre la concessione. Segue la ‘fase di sperimentazione’ con cui verificare l’idea in altri ambiti e contesti. Segue infine una ‘fase di messa a punto e collaudo’ del prototipo, che viene poi ‘codificato’ e ‘applicato su grande scala’.

Fase di ideazione

Vale la pena di fare un salto indietro nel tempo a quando si è introdotta l’idea della concessione, ricordando quella che fu la prima “grande opera” italiana: la rete delle autostrade. Fu costruita in Italia all’indomani della seconda guerra mondiale, formalizzata con la legge Romita (L.463/1955), che ne disegnò l’impianto.

L’autostrada del Sole tra Milano e Napoli, dà il via all’opera, realizzata attraverso una convenzione, firmata nel 1956, tra Anas e Società Autostrade Spa (Società Autostrade Concessioni e Costruzioni Spa). Siamo nella situazione in cui dei beni publici, la rete autostradale nella fattispecie, sono gestiti da società “concessionarie” che ne raccolgono i profitti pagando in cambio un canone allo stato. Fino alla fine deagli anni ’90 del secolo scorso queste società rimarranno pubbliche, proprietà di enti locali oppure statali, come nel caso della Società Autostrade che appartiene all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Il concorso finanziario per l’autostrada del Sole prevedeva due agenti: lo Stato (circa 36%) e dall’altra parte la Società Autostrade Spa che avrebbe emesso obbligazioni trentennali garantite da ipoteca sui lavori eseguiti con le quali si copriva il resto delle spese.

L’ introduzione del sistema delle concessioni nella realizzazione della rete autostradale e grandi interventi pubblici in generale preoccupava fin dall’inizio il grande ingegnere dei trasporti Guglielmo Zambrini (ordinario di Infrastrutture e Pianificazione dei Trasporti presso la scuola di Urbanistica dello Iuav). La dura critica di Zambrini alle concessioni viene ricondara da Barp e Vittadini nell’ introduzione di un libro che raccoglie alcuni dei suoi scritti. «La critica stringente di Zambrini sulla questione autostradale e sulle distorsione delle priorità che deriva dal meccanismo della concessione ha fornito un contributo, ancor oggi molto importante di analisi tecnica e consapevolezza politica. In teoria le autostrade in concessione avrebbero dovuto ripagarsi almeno per circa ¾ con pedaggi e ¼ con denari pubblici a fondo perduto. Succedeva invece che i costi d’ investimento assai superiori al previsto (o entrambe le cose) [l’assenza di domanda adeguata – ndr] rendessero i pedaggi largamente insufficienti a coprire i costi»[4]. Essendo società pubbliche, lo stato elargiva generosamente risorse pubbliche alle concessionarie insolventi sottraendole ad altri investimenti. «La garanzia dello Stato, la mancata riforma e il successivo prolungamento sistematico delle concessioni giustificheranno la caustica definizione delle concessionarie come ‘società a irresponsabilità illimitata’ in »Autostrade all’attacco programmazione alle corde” che raccoglie gli editoriali di “S&T! [Strade e Traffico – ndr] dei primi anni settanta»[5].

L’articolo di Casabella n. 496 del 1983 «Buchi nei conti, buchi nei tubi, buchi nei monti» rende bene come già allora Zambrini vedesse nelle grandi opere infrastrutturali la tendenza ad essere inutili (buchi nei monti) , dispensiose oltre misura (buchi nei conti) e a scapito di opere indispensabili come l’approvigionamento idrico (buchi nei tubi)[6].

Fase di sperimentazione

Un’ ulteriore elaborazione del modello della concessione avviene con il MoSE (Modulo sperimentale elettromeccanico) spacciato per essere un sistema di alta tecnologia capace di salvare Venezia. Con il Mose si introduce il modello della ‘concessione unica’. Si rimanda all’eddytoriale 174[7] per conoscere i dettagli dell’operazione, ma è opportuno ripercorrere due episodi.

Nel 1982, mentre il Comune di Venezia lavorava alacramente per affrontare il riequlibrio complessivo dell’ecosistema lagunare, si costituisce il Consorzio Venezia Nuova (CVN). Quattro imprese, diversamente legate al mondo del cemento armato, ne fanno parte: Italstrade, Grandi Lavori Fincosit, Società italiana per Condotte d’Acqua e Mazzi Impresa Generale di Costruzioni. Due anni dopo, mentre il Parlamento discuteva ancora sulle modalità con qui affrontare il problema della salvaguardia della Laguna, per decisione del ministro Franco Nicolazzi (governo Craxi) il Magistrato alle Acque di Venezia (Ministero dei Trasporti) affida tutte le opere e gli interventi necessari alla difesa della Laguna al Consorzio Venezia Nuova.

La concessione unica è un affidamento esclusivo e omnicomprensivo, che ha consentito a un solo operatore privato, il Consorzio Venezia Nuova, di disporre di tutte le risorse che lo Stato trasferiva per la salvaguardia di Venezia. Un consorzio che decide autonomamente la progettazione del sistema e le soluzioni tecnologiche da utilizzare. Rispetto alla concessione delle autostrade il concessionario ora é interamente privato.

Il sistema Mose è stata una vera e propria sperimentazione in cui sono stati coinvolti, dirigenti regionali e ministeriali, finanzieri, centri di ricerca, università. Attraverso consulenze, collaudi, direzione lavori si sono co-optate moltissime persone, inclusi ricercatori e intellettuali, enti pubblici e privati. Attraverso incarichi e relativi compensi il Mose si è comprato il consenso di un ampia fetta della società veneziana.

Con il Mose il modello non è ancora del tutto a punto e non sono ancora codificate le regole per disciplinare i rapporti tra stato e impresa. Tanto è vero che per raggiungere gli obiettivi affaristici è ancora necessario ricorrere allo strumento della corruzione. Nel frattempo la magistratura reagisce e il 4 giugno 2014 avvengono numerosi arresti per tangenti.

Due elementi, che diventeranno delle costanti delle grandi opere inutili, emergono con evidenza dall’operazione Mose:
• lievitazione dei costi (dalla previsione iniziale di un costo pari a€1.600 milioni al consuntivo al 2018 pari a €5.493)
• prolungamento all’infinito dei lavori (e ulteriore aumento dei costi)
• sottrazione di risorse per le grandi opere realmente necessarie.

La fase di collaudo

Il 7 agosto 1991 veniva presentata in pompa magna l’Alta velocità ferroviaria, che prevedeva la realizzazione di sette nuove tratte (Milano-Bologna, Bologna-Firenze, Roma-Napoli, Torino-Milano, Milano-Verona, Verona-Venezia, Genova-Milano) dedicate al trasporto passeggeri. I contratti iniziali prevedevano un costo complessivo pari a 14 miliardi di euro e si prometteva la realizzazione in 7 anni. A Paolo Cirino Pomicino va dato il “merito” di avere posto un’altra pietra miliare dell’architettura contrattuale delle grandi opere!

Le Ferrovie, attraverso la Tav Spa (una società del Gruppo Ferrovie dello Stato fondata appositamente per la pianificazione e la progettazione della Tav) danno incarico di costruire le line ferroviarie a un general contractor, che poi appalterà i lavori a terzi (consorzi e aziende), che si spartiranno le commesse senza vere gare d’appalto. Il general contractor, privato, non ha alcuna responsabilità nella gestione finanziaria: non mette soldi, non gestirà l’opera, non rischia sul rapporto costi-guadagni. In merito alla Tav ricordiamo due favole:
1. Si giustificava l’affidamento a un general contractor della Tav per dimezzare i tempi di realizzazione. In realtà tutte le tratte hanno subito ritardi; per esempio la tratta Tav Bologna-Firenze ha più che raddoppiato i tempi e quadruplicato i costi!
2. Con l’affidamento a un general contractor privato si voleva fa credere che il sistema Tav italiano fosse frutto di investimenti pubblici e privati, ma di investimento privato non c’è mai stata l’ ombra perchè l’unico azionista è lo stato[8].

Al “collaudo” il modello non passa: criticato dall’Antitrust il ministro Bersani azzera i contratti, elimina questo strumento e torna alle gare per i lavori ancora non avviati. Ma la sosta del sistema affaristico dura poco: arrivano i governi Berlusconi che codificheranno il metodo, legalizzandolo e rendendolo praticamente infallibile.

La fase di codifica: tre leggi

Nel 2001 si approva la Legge Obiettivo n.443/2001 per le cosiddette grandi opere strategiche volute da Berlusconi, con la quale si perfeziona il general contractor. Nel mondo anglosassone il general contractor (persona fisica o società giuridica) si assume la responsabilità integrale in merito alla realizzazione di un’opera, avvalendosi sia di competenze interne, sia di subappaltatori specializzati reperibili sul mercato e si accolla il rischio del lavoro. Il general contractor all’italiana invece può facilmente ricorrere alle varianti (relative a costi e tempi) per mantenere in positivo il suo margine o per aumentarlo, non si assume rischi e ha interesse a dilatare tempi e andare avanti all’infinito.

Rispetto al modello concessionario originario il modello successivo con il general contractor agisce in regime privatistico e potrà affidare i lavori a chi vorrà, anche a trattativa privata, e qualunque cosa faccia sarà difficilmente perseguibile per corruzione: le eventuali tangenti diventano soltanto provvigioni!. L’allora dirigente del Ministero delle Infrastrutture Ercole Incalza condiziona così i lavori pubblici di autostrade, porti e alta velocità per 25 miliardi di euro e la ditta di Ingegneria SPM (Stefano Perotti) si assicura sempre una fetta significativa dei fondi, che a forza di varianti fanno lievitare i costi spropositatamente.

Nella sua «Indagine relativa agli interventi gestiti da TAV S.p.A.», l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici attestava che questi risultano caratterizzati da “gravi infrazioni ai principi della libera concorrenza e della non discriminazione” e che “hanno subìto, in corso di esecuzione, notevoli incrementi di costo e del tempo di realizzazione[9].

Nel frattempo vengono trasformate anche quelle operazioni di vecchia data, infatti nel 1999, la stessa Società Autostrade viene privatizzata e subentra all’IRI un nucleo stabile di azionisti costituito da una cordata guidata da Edizione (controllata dalla famiglia Benetton). La società, che dal 2007 si chiama Atlantia Spa controlla oltre 3.000 chilometri di autostrade italiane.

Nel 2002 si approva anche la Legge Salva-deficit n.112/15 giugno 2002 – detta anche Legge Tremonti. Una normativa prettamente economica che istituisce dal nulla, rispettivamente agli articoli 7 e 8, due società di capitale pubblico ma di diritto privato: la “Patrimonio dello Stato Spa” e la “Infrastrutture Spa”. La “Patrimonio Spa” ha la funzione di «valorizzare, gestire e alienare il patrimonio dello Stato», nonché di finanziare la “Infrastrutture Spa”. Quest’ultima è una società pubblico-privato, inizialmente partecipata solo dal Ministero dell’Economia e istituita dalla Cassa Depositi e Prestiti che – con il beneplacito del ministro – può cedere al mercato proprie azioni fino al 50 per cento. La Infrastrutture Spa adempiendo alle sue funzioni di finanziamento e garanzia delle grandi opere può aumentare la sua capacità di indebitamento tramite la svendita o l’emissione di titoli su beni di fondamentale valore culturale e paesaggistico. Cioè questi beni entrando a far parte del patrimonio di una società a maggioranza privata, sono esposti ad eventuali procedure fallimentari nel caso di insolvenza della società medesima. Il rischio è che ci pagheremo le grandi opere Inutili con il nostro patrimonio pubblico ambientale, culturale e artistico.

Con la legge delega sulle infrastrutture n.166/2002, (idea di Pietro Lunardi) si stravolge la precedente legge Merloni sui lavori pubblici e il project financing risalenti al 1994. 

Il project financing è una complessa operazione economico-finanziaria rivolta ad un investimento specifico per la realizzazione di un’opera e/o la gestione di un servizio, che presuppone il coinvolgimento di soggetti e finanziatori privati. Nelle proclamate intenzioni il finanziamento dell’iniziativa è basato soprattutto sulla validità economica e finanziaria del progetto che deve essere potenzialmente in grado di generare flussi di cassa positivi, sufficienti a ripagare i prestiti ottenuti per il finanziamento del progetto stesso e a garantire un’adeguata remunerazione del capitale investito, che deve essere coerente con il grado di rischio implicito nel progetto stesso.

Uno degli esempi di project financing all’italiana è la Pedemontana Veneta, un infrastruttura stradale che nasce come superstrada a pedaggio[10] [9]. Ricordiamo qui solo alcuni passaggi della vicenda assai complicata di questa opera che subordina gli interessi sociali, economici ed ambientali della collettività alle logiche affaristiche. Nel 1995, nel contesto di un drastico taglio della spesa pubblica il Presidente della Autostrada A4 Serenissima si offre di realizzare la Pedemontana come autostrada in concessione “senza oneri per lo Stato”. La proposta sembra allettante. ANAS, senza aspettare alcuna valutazione preventiva, indice una gara a licitazione privata per il progetto definitivo dell’autostrada, che viene vinto nel gennaio del 2000 dalla società di progettazione Bonifica Spa. Per comprendere la mossa apparentemente azzardata della Autostrada A4 Serenissima e dell’ANAS bisogna sapere che nelle leggi finanziarie di fine anni ’90 si stanziavano denari per la realizzazione della Pedemontana, sebbene questa si sarebbe dovuta costruire “senza oneri per lo Stato”. Dal 2001, la Pedemontana è una delle opere presenti nella legge obiettivo e oggetto di trasferimento di competenza alla regione. Nel 2002 la società Pedemontana Veneta Spa presenta il progetto di project financing. A 10 anni dall’approvazione, l’avanzamento dell’infrastruttura pone grossi problemi: viene meno completamente il rischio del concessionario e si presentano problemi ambientali e idraulici notevoli, che continuano a far lievitare i costi. La pedemontana è emblematica di come nelle grandi opere le mancanze progettuali e gli errori del concessionario sono a spese dello stato.

Conclusioni

Con l’uso di questi nuovi istituti contrattuali, tra cui la concessione e il general contractor, si è costruita una macchina infernale che trasferisce soldi pubblici ai privati attraverso la creazione di grandi opere inutili e dannose.

Le grandi opere non sono ideate e fortemente volute dai governi perché soddisfano rilevanti bisogni sociali. La Tav, la Pedemontana Veneta, il Mose hanno dimostrato in tutti questi anni di denuncie, critiche e puntuali analisi scientifiche di non essere progetti indispensabili per il miglior funzionamento del paese. Altre opere, a partire dalla manutenzione della rete ferroviaria esistente, sarebbero state più necessarie. Il confronto tra i benefici che una data opera porta a una comunità e i costi, compresi quelli ambientali, che essa deve sopportare ha dimostrato che queste opere non si sarebbero dovute fare.

Si continuano a portare avanti perché servono a chi le costruisce. Le imprese, le ditte, i consulenti, gli studi di progettazione ottengono lavori lautamente remunerati. Siccome i rischi e i finanziamenti sono pubblici, ovvero a carico dei contribuenti, i concessionari hanno interesse a dilatare i tempi, aumentare le opera da realizzare, fare errori che comportano ulteriori variazioni ai progetti, creare problemi, anche ambientali, producendo così altre occasioni di affari.

Queste opere offrono opportunità straordinarie anche a quei soggetti che, oltre a disporre di denaro a costo zero, hanno l’esigenza di riciclare capitali di provenienza illecita. La filiera dei subappalti si allunga e rende più difficile il contrasto alla mafia e alla corruzione, perché le misure elaborate per combattere gli illeciti erano state concepite per un sistema degli appalti ormai completamente sostituito dal meccanismo criminoso che si è appena descritto.

Questo immane impiego di risorse per opere sbagliate elimina la possibilità di investire risorse e lavoro in interventi necessari nei campi della difesa del suolo, della salute, della formazione e via dicendo, cioè in opera socialmente utili.

Di fronte alle critiche e analisi che comprovano l’inutilità delle grandi opere in atto ritorna una propaganda vecchia e bieca, che misura lo sviluppo in termini di infrastrutture fisiche. Una propaganda che ricorre anche all’alibi dei posti di lavoro che si perderebbero con l’annullamento dell’opera. Ma come detto poc’anzi non si tratta di perdere lavoro – tra l’altro basato sullo sfruttamento, sul nero, sul precario – ma ri-indirizzarlo verso impieghi socialmente e ambientalmente utili.

Note

[1] Ivan Cicconi, Alta Velocità: grandi opere e capitalismo, in «Il granello di sabbia», n.11 aprile 2014, raggiungibile su eddyburg.
[2] ibidem.
[3] Ibidem.
[4] A. Barp, M. R. Vittadini «Introduzione» in Guglielmo Zambrini «Questioni di trasporti e di infrastrutture. Teorie, concetti e ragionamenti per una buona politica dei trasporti», Marsiglio, 2011.
[5] Ibidem.
[6] Sulla Tav si legga l’articolo di Anna Donati e Maria Rosa Vittadini “Ancora sulla Torino-Lione: buchi nei monti, buchi nei conti” consultabile su eddyburg.

[7] Eddytoriale n.174 del 16 ottobre 2017.
[8] Per sapere chi ci metterà i soldi per costruire la TAV si legga l’articolo di Attilio Giordano (2006) “Che siate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga” nel quale si chiarisce che c’è un grande equivoco sul fatto di che la TAV sarà il risultato di investimenti pubblici (al 40 per cento] e privati (al 60 per cento).
[9] Sugli alti costi della Tav, gonfiati dai costi di mazzette, tangenti e più in generale corruzione si legga “Treni e tangenti, quanto ci costa l’alta velocità” (2015) di Gloria Riva e Michele Sasso.
[10] Sulla pedemontana Veneta si legga l’articolo di Maria Rosa Vittadini «La Pedemontana veneta: un caso da cui trarre insegnamento», consultabile su eddyburg.

*Ilaria Boniburini

Questo articolo è il completamento e lo sviluppo di una relazione tenuta a Firenze il 14 marzo, giornata di studio dedicata a Decisori o impostori. Decostruire il modello decisionale nell’ambito del ciclo di conferenze su La favola delle Grandi Opere organizzato allo Spazio InKiostro a Firenze. È stato pubblicato su Eddyburg

The following two tabs change content below.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Captcha *