Questo è il testo che l’autore ha prodotto per l’incontro su Felix Guattari avvenuto allo Spazio Inkiostro giovedì 16 maggio in occasione della Presentazione dei Quaderni di Testalepre e in particolare del numero 1 a cura di Andrea Ghelfi. Partecipavano oltre ad Andrea Ghelfi, anche Ilaria Agostini, Ubaldo Fadini e Domenico Vertone.
Dice Guattari:
«Ci sono due modi di consumare gli enunciati teorici: quello dell’universitario che prende o lascia il testo nella sua integralità, e quello del dilettante appassionato che al tempo stesso lo prende e lo lascia, lo manipola secondo la propria convenienza, cerca di servirsene per illuminare i propri punti di riferimento e orientare la propria vita» (cit. p. 38).
Ecco, il mio approccio al lavoro teorico degli altri è proprio questo: non un’appropriazione, ma l’uso.
Il capitale, come aveva intuito Rosa Luxemburg ha bisogno di ripetere periodicamente la fase dell’accumulazione (quella del capitolo 24 Libro I, Sezione VII del Capitale, la cosiddetta accumulazione originaria). Io credo che appena capita l’occasione, il capitale riutilizzi quella mossa, quella pratica. Se quella originaria era quella delle enclosures – delle recinzioni dei campi che provocò l’allontanamento dei contadini e il loro divenire proletariato e, di conseguenza, il loro inurbamento che arricchiva l’esercito di mano d’opera a disposizione per l’industria nascente – la nuova mossa non ci si discosta molto: cambiano gli oggetti, ma essa rimane la stessa. In Inghilterra le recinzioni sottrassero le terre comuni – o quelle di uso comune (ad es. i campi a maggese convertiti in colture a foraggio) – ai contadini, favorendo i grandi proprietari che adottarono nuove forme di coltivazione intensiva. Adesso con una crisi ormai endemica della produzione manifatturiera, il capitale vira verso la rendita, la finanziarizzazione, la messa a profitto dei beni comuni, diviene estrattivo.
Un esempio. L’accumulazione originaria, come scrive Jason Moore, aveva bisogno oltre che di forza lavoro a basso costo, di materie prime e di energia sempre a basso costo. Ci doveva cioè, essere sempre una zona in cui rifornirsi di risorse senza pagarle al prezzo pieno, e una zona dove liberarsi dei costi, sotto forma di rifiuti e inquinamento. E la forza lavoro a basso costo era tale anche perché non calcolava il lavoro riproduttivo. Per fare questo bisognava non pagare il lavoro femminile di riproduzione e cura. Serviva un recinzione: ecco allora la forma di organizzazione familiare di tipo patriarcale. L’onore è il contenuto del capitale simbolico, con la conseguenza di impegnare costantemente gli uomini nelle relazioni esterne atte a consolidare od accrescere tale “valore”. Perseguire il valore, l’onore della casata, è compito e ruolo quotidiano del maschio, attività sociale da compiere fuori di casa, esterna alla casa, dell’ordine economico e non oikonomico. Riguardano più la polis che non l’oikos. Determinano anche una separazione spaziale dei ruoli: all’uomo la piazza, lo spazio sociale, alla donna la casa, lo spazio domestico, a lei la conservazione, a lui la produzione dei beni materiali, ma anche simbolici. Siamo qui, di fronte a enclosures che “lavorano” su tutti e tre i piani.
Se per Guattari, le ecologie sono tre: ambientale, sociale e mentale, le recinzioni si svolgeranno su piani relativi ai tre ambiti. Un piano che riguarda la territorializzazione; un piano intorno alle istituzioni, mi riferisco a qualcosa del tipo della norma e/o della legge; un piano che riguarda le gabbie mentali. Alcuni degli urbanisti del Laboratorio Politico perUnaltracittà dicono spesso che certi spazi urbani dismessi, di proprietà pubblica, vanno lasciati senza destinazione. Devono godere cioè di una possibilità d’esistenza legata al loro uso pubblico e non assegnati a una destinazione di tipo mercantile. È quest’ultima “recinzione” che porta alla loro alienazione, ad una sottrazione al comune che svela un’appropriazione da parte del privato. Il meccanismo delle enclosures è qui evidente.
Sul piano della territorializzazione e della istituzione (norma/legge) c’è un termine greco che ha avuto fortuna nell’ambito disciplinare della filosofia politica a partire da un ab-uso da parte di un pensatore di destra stranamente iper citato da autori di sinistra: il termine è nomos, il pensatore è Carl Schmitt. Vediamo un po’ di cosa si tratta. Per Varrone, il termine “territorio” indicava delle terre di uso comune, successivamente il termine territoria rimandava invece a luoghi interni all’impero ma occupati da barbari. Ecco da subito un’ambiguità se non un conflitto tra un fuori e un dentro. Ma il punto in cui il nomos diviene il paradigma della governamentalità, quando cioè il campo semantico vira verso l’ambito del diritto, si svela una delle accezioni etimologiche del termine che rimanda al concetto di “pascolo”. Il governo pastorale non regna su un territorio, ma su una molteplicità di individui (citazione da Foucault) o, meglio ancora, sui loro legami, sia quelli tra di loro, sia tra questi e le cose, territori compresi.
L’elemento territorializzante a cui rimanda il termine nomos, si costruisce intorno alle sinergie di tre elementi interpretativi di una particolare polisemia – o trisemia – del termine stesso. Che per il reazionario di Schmitt sarebbero appropriazione, spartizione e pascolo, da cui trae queste conseguenze «nomos significa in primo luogo Nahme, “presa di possesso, conquista”. In secondo luogo significa “dividere” e “spartire” ciò di cui si è preso possesso. Il nomos e dunque secondariamente la fondamentale procedura di divisione e di spartizione del terreno, nonché l’ordinamento proprietario che su di essa è basato. Il terzo significato di neimen è weiden, “pascolare”, vale a dire l’utilizzazione, la coltivazione e la valorizzazione del terreno ottenuto con la divisione, dunque la produzione e il consumo», sin qui Schmitt. Ma vediamo cosa ne pensa Benveniste: «Altri verbi in greco significano dividere per esempio dateomai; ma la differenza sta in questo: nemo è dividere secondo la convenienza per questo un pascolo spartito secondo il diritto basato sul costume si chiamerà nomos». Si tratta di una ripartizione senza divisione e senza singola appropriazione. Se un’appropriazione c’è, è di tipo collettivo, è comunitaria. «Il nomos ha finito per designare la Legge, in primo luogo in quanto si trattava di una distribuzione, di un modo di distribuzione» dicono Deleuze e Guattari che poi citano un lavoro di Laroche:
«La radice “nem” indica la distribuzione e non la divisione, anche quando le due operazioni sono legate. Ma, appunto, in senso pastorizio, la distribuzione degli animali si fa in uno spazio non limitato e non implica una divisione delle terre: Il lavoro di pastore in epoca omerica, non ha nulla a che vedere con una divisione di terre. Far pascolare (nemo) non rinvia a suddividere, ma a disporre qua e là, distribuire le bestie. E soltanto a partire da Solone, nomos designerà il principio delle leggi e del Diritto (thesmoi e dike), per identificarsi poi con le leggi stesse»
Per rendersi conto che il nomos originario non era trattabile nei termini di cui parla Schmitt se non attraverso quella violenza simbolico-materiale che il dispositivo delle enclosures mette in atto, Deleuze e Guattari ce ne danno anche una rappresentazione figurata, paragonando il nomos al gioco del go in contrapposizione alla polis che corrisponderebbe agli scacchi: «Nomos del go contro Stato degli scacchi, nomos contro polis». Perché il go corrisponde ad una disseminazione rispetto agli scacchi che tengono il senso legato al “valore” reciproco dei pezzi.
Mi sembra evidente un passaggio: una privatizzazione di un bene comune, e la si potrà ottenere soltanto attraverso un’assegnazione escludente, una recinzione. In origine non si trattava dunque di un’appropriazione di un diritto d’uso, d’uso comune. L’accento dovrà essere messo non sulla proprietà, ma sull’uso. Non si tratta di appropriarsi della terra, si tratta di “abitare un mondo”. Un mondo non è un territorio circoscritto, racchiuso entro confini definiti, si tratta di abitudini, cosmogonie, storie da raccontare, ritmi musicali, esperienze da condividere. Ecco che emerge il plesso semantico del termine nomos che si riferisce alle consuetudini e non alle leggi, alle istituzioni/recinzioni.
Altre recinzioni, le gabbie mentali. Non basta la critica al modo di produzione, la critica dell’economia politica, occorre destituire l’economia in quanto categoria metafisica che diviene una tecnologia del dominio. Azzerare tutto perché il capitale ha costruito il suo dominio non solo attraverso l’economia, quella gli serve per incamerare il profitto, ma il comando e l’obbedienza sono stati costruiti attraverso secoli di lotta etica e di trasformazione della morale.
La recinzione come dispositivo. Le recinzioni di genere, le identità sessuali, agiscono su entrambi i generi, soltanto così infatti ci possono restituire forza lavoro “disponibile” e concentrazione domestica della riproduzione e cura con soggetti predestinati (recintati anche in senso spaziale). Tenendo però presente che in un’economia dei beni simbolici, la riproduzione biologica è subordinata “alle necessità della riproduzione del capitale simbolico”. Ecco emergere un’indispensabilità simbolica di attributi aggressivi tipicamente (recinzione) maschili. Le fa da specchio, l’empatia femminile (recinzione), causa od effetto che essa sia. Si produce così un surplus di senso che funziona meglio quanto di più comporti la reverenzialità della paura (dispositivo e recinzione). L’accumulo di strumenti (delle energie) atti a suscitare il terrore fonda la prima dinamica sociale. Ad essa è consustanziale l’educazione del maschio ai ruoli aggressivi, da cui si dipanano alcune distinzioni di genere che fondano la supremazia maschile, che, a sua volta, forgia gli attributi, l’aura di senso, del termine “virile”. Dice Bourdieu:
«Come l’onore – o la vergogna, la sua contropartita, che a differenza del senso di colpa, sappiamo esser provata davanti agli altri – la virilità deve essere convalidata dagli altri uomini, nella sua verità di violenza attuale o potenziale, e certificata dal riconoscimento dell’appartenenza al gruppo dei “veri uomini»
C’è un circuito dell’onore che tramite una serie di strategie (matrimoniali, successorie, economiche, etc.) orientate ad assicurare la conservazione o l’aumento del capitale simbolico, costringe l’uomo, determina per lui un’urgenza, gli dà delle cose da fare, degli investimenti agonistici, per mantenere e accrescere l’onore stesso. Lo status di uomo nel senso di vir implica un dover essere, una virtus, che [gli] si impone. Una volta entrato in circolo, in quell’ambito in cui l’onore detta le sue regole, l’uomo non si può più tirare indietro, deve in ogni momento e in qualsiasi circostanza dover (potere) affermare la propria virilità, intesa come capacità riproduttiva, sessuale e sociale, ma anche come disponibilità e attitudine alla lotta con la conseguente propensione all’uso della violenza. La vir e una prestanza, una possibilità, l’avere in potenza, una capacità di fare violenza; è dunque un attributo maschile, virile. Violento è etimologicamente imparentato con il concetto di forza e a quello di prepotenza, recinzione legata al maschile. La forza, anche in termini “figurati”, è invece più femminile.
*Gilberto Pierazzuoli
Gilberto Pierazzuoli
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