Bushmeat, una carne insostenibile

  • Tempo di lettura:10minuti
image_pdfimage_print

In questo articolo ci soffermeremo sul bushmeat, termine con cui si indica la carne di animali selvatici destinata al consumo umano, che viene venduta in Africa, in Asia, in Sudamerica, anche e non soltanto, nei ‘wet market’, cioè in quei mercati che sono ‘umidi’ per il sangue e per le deiezioni degli animali macellati. Ma il bushmeat non è certo l’unica carne insostenibile, parafrasando un pensiero del Dalai Lama, si può dire che mentre gli animali uccidono solo quando hanno fame, gli uomini sopprimono milioni di animali per estrarre profitto.

Due carni insostenibili e complici

Il bestiame funge da ponte epidemiologico fra la fauna selvatica e infezioni umane: l’influenza aviaria era legata all’allevamento intensivo del pollame; il virus Nipah è stato collegato all’intensificazione dell’allevamento suino e della produzione di frutta in Malesia. La carne degli allevamenti intensivi è insostenibile per gli animali e per il pianeta, come il ‘bushmeat.’

La prima contribuisce alla deforestazione, il bushmeat contribuisce alla defaunizzazione; la prima abbatte gli alberi, diminuisce la quantità di ‘foreste intatte’, consuma e cambia l’uso del suolo; l’altra abbatte gli animali selvatici, promuovendone l’estinzione; entrambe contribuiscono a diminuire la biodiversità del mondo vegetale e animale e ad esacerbare la crisi climatica; entrambe minano la salute degli ecosistemi, delle persone, disseminando di malattie cronico-degenerative, di antibiotico resistenza, di malattie infettive e zoonotiche, di pandemie; entrambe contribuiscono alla sesta estinzione di massa.

La tempesta perfetta

L’integrità dell’ecosistema sostiene la salute umana, all’opposto  ‘La dilagante deforestazione, l’espansione incontrollata dell’agricoltura, l’agricoltura intensiva, l’estrazione mineraria e lo sviluppo delle infrastrutture, così come lo sfruttamento delle specie selvatiche hanno creato una “tempesta perfetta” per la diffusione di malattie dalla fauna selvatica all’essere umano. Ciò si verifica spesso nelle aree in cui vivono le comunità più vulnerabili alle malattie infettive.’ Le carni insostenibili vanno vietate altrimenti la crescita indiscriminata della popolazione mondiale, che secondo le stime più recenti dovrebbe raggiungere 9,7 miliardi nel 2050, la conseguente fame di proteine animali, potrebbe provocare una ulteriore aumento degli allevamenti, e del bushmeat, con conseguenze planetarie devastanti.

Un nuovo paradigma a fame zero

La crisi mondiale sanitaria e socioeconomica indotta da Covd-19, che sarebbe partita dal mercato umido di Wuhan, impone un nuovo paradigma, che riparta dalla tutela e dal ripristino degli ecosistemi, che elimini le ‘carni insostenibili’ e i wet market, che vada verso economie a ‘fame zero’ come dice Vandana Shiva. Un nuovo paradigma che sostituisca ‘il modello economico basato sul profitto, sull’avidità e sull’estrattivismo che ha accelerato la distruzione ecologica, aggravato la perdita dei mezzi di sussistenza, aumentato le disuguaglianze economiche e polarizzato e diviso la società tra l’1% e il 99%.’

I mercati senza frigorifero

Se questi mercati non fossero più umidi, se fossero regolamentati, se ci fosse l’accesso all’acqua potabile, se ci fosse l’uso di guanti e strumenti moderni per macellare e cucinare, se fossero dotati di frigoriferi, alla fin fine assomiglierebbero ai nostri mercati di carne, dove si vende anche il bushmeat nostrano, cioè cinghiali, fagiani, lepri etc.

Sushi africano

In mancanza di frigoriferi, per soddisfare la richiesta di carne fresca, non rimane che uccidere sul momento e sul posto gli animali, tenuti chiusi vivi, accatastati nelle gabbie, insieme a quelli morti. Qualcosa di simile avviene anche in certi ristoranti del mondo ricco, dove si fanno scegliere i pesci, le aragoste ancora vivi, che vengono cucinati al momento. Quello che cambia è l’igiene, l’ambientazione e il prezzo della carne.

Tanti possibili hot spot di spillover

L’avidità di alcune persone per bushmeat ha portato al rilascio del demone, recita un detto popolare cinese, alludendo a quel mercato di Wuhan, in cui con tutta probabilità si è verificato lo spillover, (cioè il salto del virus SARS-CoV-2 dai pipistrelli, al pangolino, all’essere umano), che ha innescato l’odierna pandemia. Tutti i ‘mercati umidi’ rappresentano dei punti caldi (hot spot), in cui può avvenire il salto di specie (spillover), da cui l’innesco di epidemie, dato il gran numero di persone che entra in stretto contatto con gli animali vivi e morti.

Come viene percepito il bushmeat

Per non fare pornoecologia, non dobbiamo dimenticare che chi vive, ogni giorno, in una foresta tropicale africana ha una percezione fisica e mentale degli animali selvatici del tutto diversa, meno artificiale, di noi che viviamo nelle città europee o mondiali. La carne di foresta viene percepita dai consumatori come un prodotto naturale, organico, salutare, senza additivi o prodotti artificiali, prelibato, fresco, perché proviene dalla foresta e di lusso da offrire a persone importanti e in importanti occasioni cerimoniali. A volte lo si preferisce per il gusto o semplicemente perché ricorda legami culturali e identitari.

Come viene percepita la carne alternativa

La carne congelata è considerata insalubre e di pessimo sapore. Per taluni il bushmeat avrebbe la funzione ‘di mantenere la diversità nutrizionale di fronte al consumo eccessivo di carne e pollo industriali, al fine di limitare l’incidenza di obesità, diabete, malattie cardiovascolari e i loro effetti dannosi’.

Bushmeat in Africa

In Africa, nel bacino del Congo (Cameroon, Guinea equatoriale, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Repubblica Centro Africana), ma anche in Ghana, in Sierra Leone, in Liberia, in Burkina Faso e in Senegal, per le popolazioni rurali in genere, il bushmeat è molto spesso l’unica fonte disponibile di proteine a basso costo. Per chi vive nelle città, invece può rappresentare uno status symbol, il cibo della gente di successo, di chi fa affari e vuol ostentare il proprio prestigio sociale. Il problema principale in Africa oggi è l’urbanizzazione, che amplifica la domanda per beni di consumo e anche di carne selvatica.

Bushmeat in Asia

A differenza dell’Africa, più che sulla caccia di frodo, in Asia il bushmeat è declinato sull’allevamento, e poi sul commercio, di specie selvatiche che soddisfano abitudini alimentari sofisticate o tradizionali (il “selvaggio” di un animale è molto ricercato ), mentre le condizioni igieniche e la disumanità sono le stesse. ‘L’industria cinese di allevamento faunistico selvatico arruola circa 6,3 milioni di professionisti, per un valore di produzione totale di $ 18 miliardi, cui c’è da aggiungere  il fatturato delle medicine tradizionali cinesi che usano prodotti della fauna selvatica, come scaglie di pangolino, bile di serpente, feci di pipistrello, il cui uso non è vietato’.

Foresta vuota

In Africa, in Asia, come abbiamo visto, c’ è una grande richiesta di carne di animali selvatici, di pipistrelli, di scimmie, pangolini, zibetti, antilopi, serpenti, tartarughe, coccodrilli, cani etc. Negli ultimi decenni il consumo di carne di animali selvatici è aumentato notevolmente, minacciando la sopravvivenza di alcune specie cacciate. Ogni anno, solo in Perù, vengono cacciate e consumate 28.000 scimmie. In Indonesia oltre a scimmie e altri mammiferi selvatici vengono catturate ed esportate 25 tonnellate di tartarughe. I cacciatori di frodo, facilitati dalla deforestazione, dotati di moderne armi, svuotano letteralmente le foreste di animali, provocando l’estinzione di specie anche protette. Ogni anno vengono estratti dal bacino del Congo fino a 6 milioni di tonnellate di carne di animali selvatici, quasi l’equivalente della produzione annuale di carne bovina del Brasile. Addio biodiversità. Addio anche ad una possibile economia faunistica sostenibile, la cosiddetta ‘wildlife economy’, basata sullo sviluppo del turismo e delle aree protette.

Distruzione degli ecosistemi e pandemie

Ad oggi abbiamo perso quasi la metà della superficie forestale che proteggeva il pianeta; questa deforestazione, che è una delle principali cause del riscaldamento globale, insieme ai cambiamenti di uso del suolo e alla distruzione degli habitat naturali, è pure responsabile di circa la metà delle zoonosi emergenti.  È stato documentato  un legame significativo tra perdita di foresta e focolai di malattia da virus Ebola (EVD) nell’uomo. La deforestazione può alterare la circolazione naturale dei virus e aumentare il contatto tra animali infetti e umani, che sempre più vanno ad occupare l’habitat naturale degli animali selvatici. I pipistrelli della frutta della famiglia Pteropodidae, che sono sospettati essere riserve del virus Ebola, sono ampiamente consumati nell’Africa occidentale rurale, affumicati, grigliati o in una zuppa piccante.

Dove e quando nascerà la prossima pandemia? 

Focolai o malattie epidemiche possono diventare sempre più frequenti per il cambiamento climatico e le zoonosi di origine selvatica potrebbero rappresentare in un prossimo futuro la più consistente minaccia per la salute della popolazione mondiale. Il luogo di partenza sarà irrilevante in quanto i patogeni possono diffondersi rapidamente, minacciando l’intera popolazione globale. Per questo motivo, sarebbe importante che tutti i paesi del mondo cooperassero, per sviluppare strategie integrate di monitoraggio e prevenzione delle malattie zoonotiche, che sono trasmesse dagli animali all’essere umano e viceversa. L’interazione dell’uomo o del bestiame con la fauna selvatica espone al rischio di diffusione di agenti patogeni. Il Center for Disease Control (CDC) degli Stati Uniti ha stimato che circa il 60 percento di tutte le malattie infettive umane è di origine zoonotica e che il 75% delle malattie infettive emergenti di recente è della stessa  natura.

Parassiti, batteri, virus

Il riscaldamento globale contribuisce a creare un habitat ideale per virus e batteri. Fra i possibili agenti patogeni presenti nella carne di foresta, ci sono parassiti, come Trichuris sp., Ancylostoma sp., Roundworms, Toxoplasma gondii e Strongyloides fulleborni;  batteri, come Escherichia coli, Salmonelle, Campylobacter; virus, come virus di Lassa, virus Ebola, HIV, virus Nipah, febbre della  Rift Valley, virus del Nilo occidentale, malattia del virus Zika ed i recenti coronavirus della Sars (sindrome respiratoria acuta improvvisa), della Mers (sindrome respiratoria del Medio Oriente) e del Covid-19. La trasmissione di questi patogeni all’uomo, non avviene principalmente durante il consumo di carne di animali selvatici, ma attraverso l’esposizione ai fluidi corporei e gli escrementi (vedi mercati umidi) durante la manipolazione e il taglio della carne di animali selvatici antecedenti la cottura.

One Health, un approccio multidisciplinare e collaborativo

Come abbiamo visto la minaccia rappresentata dalle malattie zoonotiche è tutt’altro che remota. E’ ormai ampiamente riconosciuto che la salute umana, animale e ambientale sono strettamente interconnesse. L’Organizzazione mondiale della sanità, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura e l’Organizzazione mondiale per la salute degli animali hanno formato un quadro politico tripartito One Health per rafforzare la protezione contro le pandemie, principalmente attraverso una maggiore biosicurezza delle aziende agricole e la sorveglianza delle malattie negli animali e nelle persone. Dovremmo adottare l’approccio “One Health” a livello locale e globale, che rappresenta l’integrazione tra chi opera nel mondo medico, veterinario e a salvaguardia dell’ambiente. One Health ‘…è riconosciuto ufficialmente anche dal Ministero della Salute italiano, dalla Commissione Europea e da tutte le organizzazioni internazionali quale strategia rilevante in tutti i settori che beneficiano della collaborazione tra diverse discipline (medici, veterinari, ambientalisti, economisti, sociologi etc.).’

Il bushmeat globalizzato

La prossima pandemia potrebbe partire da Londra o Parigi, perché la carne di animali della foresta viene trasportata illegalmente in tutto il mondo. Si calcola, per esempio, che ogni settimana attraverso gli aeroporti di Parigi vengono trasportate 5 tonnellate di bushmeat dirette in Francia. Per fronteggiare questa pericolosa diffusione illegale la Confederazione Svizzera, e l’organizzazione Tengwood (dedicata ad aiutare a preservare due primati a rischio di estinzione: lo scimpanzé Nigeria-Camerun e il trapano, o Mandrillus leucophaeus) hanno redatto un opuscolo informativo, ricco di macabre foto, per aiutare le guardie di confine a riconoscere e sequestrare la carne di foresta negli aeroporti.

Vietare bushmeat è imperialismo culturale?

Questo articolo di Nathalie Van Vliet mette in guardia dallo stigmatizzare la carne selvatica, dal procedere al bando totale del bushmeat, trascurando la complessità di questo commercio, che nei contesti rurali, ha un ruolo importante come fonte di cibo, come fonte di reddito, come fonte di medicina, come mezzo di socialità e di identità culturale, come dimensione spirituale/religiosa, come valore psicoculturale.  Il divieto di bushmeat e dei mercati umidi, secondo l’autrice dell’articolo, potrebbe essere percepito dalle popolazioni africane come un pregiudizio contro di loro, come un atto di imperialismo culturale, che mina i mezzi di sussistenza di molte persone che vi lavorano e  che toglie proteine alle popolazioni più indigenti. I mercati sarebbero sostituiti dal mercato nero, intrappolando le comunità rurali / indigene in un circolo vizioso di illegalità, e criminalizzazione, il che aumenterebbe ancora di più il rischio di malattie zoonotiche. Inoltre le comunità indigene sparse in tutto il mondo rivendicano il loro diritto al commercio ed al consumo di carne selvatica, per la qualità delle diete, come espressione di sovranità alimentare, come protezione delle identità culturali, come diritto all’autodeterminazione. Secondo l’autrice  l’introduzione di norme rigorose e meccanismi di monitoraggio, l’introduzione di redditi alternativi per le persone coinvolte (i cacciatori di frodo), potrebbe essere una misura più efficace, del divieto, per ridurre il rischio zoonotico.

L’opaco divieto cinese

In seguito alla pandemia di Covid-19, il 24 febbraio 2020, il Congresso nazionale del popolo cinese ha vietato il consumo di qualsiasi fauna selvatica cacciata o allevata in cattività, allo scopo di prevenire ulteriori minacce per la salute pubblica, fino a quando non sarà possibile introdurre una nuova legge sulla protezione della fauna selvatica. La Cina deve cogliere questa opportunità e vietare permanentemente il consumo di fauna selvatica. Ma gli ostacoli sembrano enormi, se si pensa che in Cina c’è ancora da definire quali sono gli animali che fanno parte della ‘fauna selvatica’ e quali no.

Due petizioni

-E’ attiva una petizione del Wwf, per vietare bushmeat. Per sottoscrivere:

https://www.wwf.it/ecotips.cfm?53560/

-E’ attiva una petizione di Animal Equality, per chiudere i wet market. Per sottoscrivere:

https://campaigns.animalequality.it/wet-market/

*Gian Luca Garetti

The following two tabs change content below.

Gian Luca Garetti

Gian Luca Garetti, è nato a Firenze, medico di medicina generale e psicoterapeuta, vive a Strada in Chianti. Si è occupato di salute mentale a livello istituzionale, ora promuove corsi di educazione interiore ispirati alla meditazione. Si occupa attivamente di ambiente, è membro di Medicina Democratica e di ISDE (International Society of Doctors for the Environment).

Ultimi post di Gian Luca Garetti (vedi tutti)

3 commenti su “Bushmeat, una carne insostenibile”

  1. massimo de micco

    Un bellissimo articolo che mi conferma nell’orientamento prevalentemente vegetariano che da anni do alla mia spesa e alla mia alimentazione. Una domanda: perché non tradurre “bushmeat” con “selvaggina” o con “carne selvatica” (espresione che compare anche nell’articolo)? Come l’alimentazione, anche la lingua è più sana e saporita se varia e non viene limitata da una presunzione di purezza, però dove la parola c’è già, perché sostituirla con un’altra che andrà spiegata e acclimatata ai suoni e ai ritmi del nostro parlare? Non è una domanda retorica e sono convinto che la tua risposta farà dire anche a me “qui è meglio usare bushmeat”.

    1. Gian Luca Garetti

      Grazie della lettura e dell’apprezzamento. In effetti anche a me non piacciono i termini inglesi, in generale. In questo caso mi sembrava che la traduzione italiana: selvaggina, carne selvatica, carne di foresta, carne di arbusto non rendesse bene il significato. L’espressione che mi piaceva di più era ‘carne di foresta’ ma non la vedevo indicata per i cinghiali, le lepri, i fagiani (questi sono selvaggina), i pesci di casa nostra. Qui invece la carne è delle grandi scimmie, dei pipistrelli, di tutti gli animali delle grandi foreste Poi bushmeat, è un termine ‘secco’, più preciso, che suona un pò ambiguo e desta la curiosità, secondo me. Inoltre la letteratura, gli articoli che parlano di questa carne sono quasi tutti in inglese e mi sembra che in Italia non ci sia tanta consapevolezza dello svuotamento delle foreste, della cosiddetta ‘foresta vuota’, che fa da contraltare al troppo pieno, tragico degli allevamenti intensivi. La scelta vegetariana è indispensabile, per un altro mondo migliore possibile. Ai tempi di Leonardo da Vinci, un famoso vegetariano, la scelta era di tipo etico. Questo è sempre validissimo (personalmente mi vergogno di parlare di etica in questo mondo) ma ora essere vegetariano è una scelta indispensabile anche per il clima.

  2. Pingback: Bushmeat, una carne insostenibile

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Captcha *