Zero-Sei

Il documento della Commissione Infanzia Sistema Integrato 0-6 uscito a maggio si distingue da altre analoghe produzioni per una certa sensibilità psicopedagogica e sociale. Si tratta di un vantaggio “di default” che caratterizza i primi gradi della scuola italiana, in cui lavorano persone che hanno ricevuto anzitutto una formazione pedagogica.

Il documento è dunque scritto in un linguaggio che sembra tener sempre conto delle differenze, disuguaglianze e dei privilegi, addirittura una nota linguistica si preoccupa di avvisarci che quando si scrive “bambini” si intendono anche le bambine e quando si scrive “educatrici” si intendono anche gli educatori, privilegiando il femminile su base statistica.

E’ scaturito da una commissione composta in maggioranza da emiliani e romagnoli e serba dunque il ricordo di quando la regione era ai primi posti nei servizi per l’infanzia e vi si sperimentavano interventi per ridurre il sessismo di certe scelte ludiche e linguistiche (venne a sperimentare negli asili rivieraschi persino Luce Irigray)

A tanta accuratezza corrisponde però altrettanta faciloneria quando si tratta di definire i LEGAMI EDUCATIVI A DISTANZA. Mai sentiti prima? Il neologismo non viene mai illustrato sulla base della letteratura esistente, come ci si potrebbe aspettare in una circolare rivolta alle educatrici. E’ una novità assoluta? Evidentemente no, casi di bambini che devono evitare il contatto fisico per periodi anche più lungi di due mesi purtroppo non sono rarissimi negli ospedali pediatrici. Su vasta scala è forse la prima volta che i bambini di una nazione intera restano a casa per così tanto tempo, perciò è lecito porsi interrogativi su quanto è accaduto in questi mesi e svolgere ricerche, come quella proposta dalla SIRD.

La Commissione non fornisce né dati né ipotesi esplicative. Inventa neologismi che sono contraddizioni in termini e per illustrarli ricorre ad altri ossimori. Noi non abbiamo nulla contro l’ossimoro, Dante e Pascoli seppero trarne pagine di grande poesia, ma qui siamo in un ambito diverso in cui il linguaggio non ha funzione poetica ma conativa, serve a far fare quel che si vuole e deve perciò definire e non sfumare.

“Legami educativi a distanza” e il suo acronimo LEAD, che involontariamente richiama il guinzaglio in inglese, nella fascia di età presa in esame, non esistevano prima e non esistono adesso. Esistono collegamenti per fare un saluto all’educatrice e ai compagni e video da cui i bambini possono forse imparare qualcosa e da cui le famiglie potranno trarre qualche sollievo, benché sano in molti a segnalare che avendo figli di età diverse, tra LEAD, DAD e smart working si trovano ad avere molto meno tempo e più fonti di stress rispetto a prima.

Vi è, comprensibilmente, un’ansia di “ritorno alla normalità” a cui il documento risponde con un altro neologismo, “Nuova Normalità”. Per qual motivo, cessata un’emergenza, non si dovrebbe ritornare alla normalità? Ci viene detto che questa è un’emergenza sanitaria, non una crisi sistemica, quindi non si tratta di pensare qualcosa in antitesi all’esistente per poi farne una sintesi, almeno non per quanto riguarda i nidi e la scuola dell’infanzia.

Si farà questo se salteranno i paradigmi educativi, se i bambini esprimeranno altri bisogni, se le strade si riempiranno di orfani, come fu dopo le guerre mondiali (che segnano appunto altrettante svolte nel pensiero pedagogico), ma non si può intraprendere questa impresa caldeggiata più volte dal documento solo perché siamo stati via tre mesi per una malattia. Se poi la risposta alla crisi c’è già e sono i LEAD, sigla ripetuta sedici volte in sedici pagine, perché ci resti bene in mente, che problema c’è? Per i più piccoli i LEAD e per i più grandi la DAD, senza soffermarsi troppo sul fatto che in entrambi i casi viene meno il ruolo della scuola come “primo spazio pubblico” affermato anche nel documento.

Viene meno perché la didattica a distanza si fa da casa, in famiglia, e si sa già che le famiglie non sono tutte uguali ma rispecchiano almeno quattro tipologie diverse: quelle prive di “device” o di connettività, quelle che non possono seguire le dirette con i ragazzi, quelli che possono farlo e quelle disponibili a farlo in gruppo, si segmenta la popolazione scolastica in chi riceverà una scatola con giocattoli e pongo (sic!), chi sarà impegnato in una videochiamata e chi guarderà video in differita. A scuola non è così, la scuola è, insieme alla morte, la grande livellatrice (solo un po’ più classista e, a tratti, più divertente). Quindi non chiamiamo scuola i LEAD, non giochiamo con i campi semantici per chiamare “presenza” l’assenza.

Questo è forse il difetto principale del documento, che peraltro contiene indicazioni di buon senso per le educatrici e per le famiglie, ma non è un difetto da poco. L’aspetto propagandistico prevale nettamente su quello pedagogico: un documento uscito alla fine della quarantena poteva prevedere una scansione temporale della riapertura della scuola in presenza e calibrare su quella l’importanza (residuale) da dare ai collegamenti da casa, invece si suggerisce l’idea che questa nuova dimensione educativa debba entrare a far parte della “nuova normalità”.

Risulta a tal proposito particolarmente odiosa perché paternalistica e manipolatoria la proposta di far immaginare ai ragazzi come sarà il rientro attraverso un “problem solving” fatto di domande che contengono già la risposta più gradita  Qualche esempio?

“Il virus si trasmette attraverso le goccioline di saliva che escono dalle nostre bocche quando tossiamo o starnutiamo, anche se noi non ce ne accorgiamo. Come potremmo fare per bloccare queste goccioline minuscole?”

“Il virus si trasmette se stiamo vicini: come potremmo fare per giocare tutti insieme nella stesa stanza senza toccarci?”

Ricordiamo che queste tecniche furono escogitate durante la Seconda Guerra Mondiale dai persuasori di professione per persuadere gli americani a consumare carne meno pregiata e riservare le scorte migliori ai soldati al fronte. Siamo in guerra? No, è una malattia. Molto brutta per chi la prende, molto pericolosa per chi ne ha altre. Diciamo questo ai bambini e se temporaneamente ci sono attività che è troppo rischioso fare diciamo no senza sensi di colpa e senza coinvolgere loro nei nostri scrupoli, come si fa con l’arrampicata libera sulle librerie pericolanti e con le mai sporche a merenda.

Invece si propone: il problem solving a tre anni e dopo la valutazione SWOT (punti di forza, punti di debolezza)… Non è così che si anima una discussione a scuola, gli estensori del documento dovrebbero saperlo. Vadano a leggere come facevano Mario Lodi e Danilo Dolci. Quanta più libertà, quanto gusto della sfida. La parola sfida è ripetuta tre volte nel documento ma è depotenziata ogni volta che viene ripetuta, perché è sfida ministeriale e non sfida al potere).

Non aveva tutti i torti Goffredo Fofi quando accusava certa pedagogia “molto bolognese” di essere molto conformista nel suo apparente anticonformismo.

*Chiara Rantini e Massimo De Micco