Il caso Assange: un grido di allarme per le democrazie occidentali

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Lunedì scorso eravamo in molti ad aver riacceso le speranze a seguito dell’inattesa decisione della giudice inglese, Vanessa Baraitser, di non permettere l’estradizione negli USA dell’editore e giornalista australiano, Julian Assange.

Ma la volontà di non scagionarlo dalle accuse è apparsa chiara già dalle prime parole della giudice, che attestavano la sua presa di posizione netta a favore degli argomenti dell’Accusa, attribuendo la decisione di bloccare l’estradizione solo ed esclusivamente ai problemi di salute mentale di Assange e alle condizioni che avrebbe dovuto affrontare negli Stati Uniti, che avrebbero potuto verosimilmente portarlo al suicidio. Sui punti sostanziali del caso – in cui il governo degli Stati Uniti persegue Assange per 17 capi di imputazione, ai sensi dell’Espionage Act e ai sensi del Computer Fraud and Abuse Act, tutto porterebbe a pensare infatti che la giudice avesse espresso il suo verdetto persino prima che le fosse affidato il caso.

La doccia fredda definitiva è arrivata ieri, a due giorni dalla decisione della non-estradizione: gli avvocati della Difesa si sono infatti visti rifiutare la richiesta di rilascio su cauzione per il loro assistito, in quanto, dice Baraitser, Assange si darebbe alla fuga prima che gli Stati Uniti abbiano la possibilità di fare appello alla sua decisione di bloccare l’estradizione. La decisione sembra però non tener conto del fatto che Assange si è detto disponibile ad indossare un dispositivo di geolocalizzazione durante gli arresti domiciliari e del fatto che è ampiamente riconosciuto che il contatto coi propri cari allevierebbe il disagio mentale di cui è vittima Assange e che è alla base della decisione di lunedì scorso della stessa giudice.

Ieri non sono mancati neppure gli arresti plateali di alcuni storici sostenitori di Assange, tra cui il vecchino ultranovantenne, Eric Levy, che insieme ad altri manifestava pacificamente – colpevole di non indossare una mascherina – di fronte alla Magistrates Court di Londra. Perché dovete sapere che il Covid-19 potrebbe uccidere una persona che si trova all’aperto e rispetta le distanze di sicurezza, ma a quanto pare non al chiuso della “Guantanamo britannica” dove è dovuto tornare Julian Assange e dove si sono già ammalate decine tra detenuti e personale e nel quale da quasi 2 anni ad Assange vengono negate le cure mediche più basilari, pur con una patologia polmonare di lunga data, in regime di carcere duro e persino lasciato al freddo, 24 ore al giorno.

Il recente tweet del giornalista d’inchiesta Glenn Greewald (già perseguito legalmente in Brasile per motivi non troppo dissimili, seppur per un breve periodo), premio Pulitzer per il suo lavoro giornalistico di pubblica utilità, relativamente alle rivelazioni di Edward Snowden, è molto schietto riguardo alla decisione della giudice:

“Non ci sono accuse pendenti contro Julian Assange nel Regno Unito. Un giudice britannico ha negato la richiesta degli Stati Uniti di estradarlo, l’unico luogo dove le accuse sono pendenti. Nonostante ciò, la giudice ha appena stabilito che deve rimanere incarcerato – in una prigione di massima sicurezza appestata dal COVID – mentre gli Stati Uniti fanno appello. Ciò mostra quanto sia autoritaria la magistratura britannica. L’unica cosa di cui gli Stati Uniti si preoccupano è tenere rinchiuso Assange in una gabbia, per metterlo a tacere e farlo scomparire. Questo regala loro il migliore degli scenari possibili: rimane in prigione, senza che loro abbiano bisogno di dimostrare che sia colpevole di nulla. È un quadro dispotico.”

Intanto Assange, che bisogna ricordarlo, è vittima di detenzione arbitraria già da prima dell’ingresso a Belmarsh, ovvero da oltre 10 anni, non vede la sua famiglia da marzo 2020, in quanto a Belmarsh hanno sospeso le visite dei parenti per la pandemia, aggravata peraltro da una variante inglese del Covid-19, mentre la data del procedimento d’appello rimane sconosciuta.

La giudice quindi, sembra ignorare il fatto che il rischio per la salute mentale e fisica di Julian Assange sia già altissimo a Belmarsh e sembra persino dimenticare che è stato provato durante le udienze che Assange avrebbe già rischiato il suicidio durante la detenzione in UK[i], senza bisogno di aspettare l’eventuale estradizione.

Sfortunatamente, questi non sono i soli aspetti che sembrano sfuggire alla giudice e alla gran parte delle istituzioni di cui ci fregiamo nella democratica Europa.

Come infatti già mesi fa denunciavano centinaia di osservatori legali internazionali (e aveva già fatto a suo tempo il Consiglio d’Europa e il Relatore Speciale ONU sulla tortura, Nils Melzer[ii]), nel caso Assange si profilano inquietanti aspetti di violazione dello stato di diritto, tra cui:

L’illegalità del processo di estradizione verso gli Stati Uniti: rischio di essere soggetto ad un processo farsa negli Stati Uniti; la natura politica dell’offesa proibisce l’estradizione; rischio di torture ed altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti negli Stati Uniti.

Le violazioni della libertà di stampa e del diritto di sapere: i capi d’accusa 1-17 dell’atto d’accusa portati avanti grazie all’Espionage Act violano la libertà d’espressione, la libertà di stampa e il diritto di sapere. Queste accuse presentano attività standard e necessarie del giornalismo investigativo come pratiche criminali. Le pratiche includono indicare la disponibilità nel ricevere informazioni, indicare quali informazioni sono d’interesse, incoraggiare l’approvvigionamento di informazioni, la ricezione di informazioni con lo scopo di pubblicarle ed infine la pubblicazione per l’interesse pubblico. L’estradizione sulla base di questi capi d’accusa metterebbe in serio pericolo la libertà di stampa, un pilastro fondamentale nelle democrazie europee come attesta l’Art. 10 del CEDU.

Le violazioni del diritto di non essere torturato, del diritto alla salute e del diritto alla vita: il Relatore dell’ONU sulla tortura ha comunicato e continua a comunicare, sul trattamento riservato al Sig. Assange, come parte del suo mandato presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Nelle date del 9 e 10 Maggio 2019, il Prof. Melzer insieme a due esperti in medicina, specializzati nell’esaminare potenziali vittime di tortura o altri trattamenti inumani o degradanti, sono andati a visitare Assange nella Prigione di Belmarsh. Il gruppo ha rivelato che Assange mostrava “tutti i sintomi tipici di una prolungata esposizione a tortura psicologica, inclusi casi di stress estremo, ansia cronica e intensi traumi psicologici.” Il Relatore dell’ONU ha concluso che “Il Sig. Assange è stato deliberatamente esposto, per un periodo di molti anni, a forme severe di trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti in una maniera persistente e progressiva, gli effetti di queste pratiche possono essere descritte solamente come tortura psicologica”.

Le violazioni del diritto a un giusto processo: i conflitti di interesse giudiziari; la disparità delle armi; la negata abilità dell’imputato di seguire propriamente le udienze e di dirigere il suo team legale; il rifiuto nell’affrontare il maltrattamento dell’imputato[iii].

Bisognerebbe parlare poi del motivo per cui un’organizzazione come Wikileaks si è resa necessaria e lo è tuttora più che mai. Come illustrato sopra dai legali “LawyersforAssange” la libertà di stampa è un pilastro fondamentale delle democrazie, in quanto svolge la doppia funzione d’informazione della cittadinanza e quella di controllo del potere costituito. A giudicare dal voltafaccia e dalle calunnie riservati ad Assange per anni dai media mainstream del mondo intero, in seguito tramutatisi in “silenzio stampa” – lo dico per chi ancora non lo avesse realizzato – si direbbe invece che sia il potere ad esercitare un controllo sulla stampa, e non viceversa. Si direbbe proprio che nelle nostre “democrazie” si possa parlare soltanto della mancata trasparenza e della violazione dei diritti umani dei Paesi che risultano scomodi all’Impero americano: per intenderci, vanno benissimo i vari Wong, Navalny, Zaki, ma guai a parlare dei diritti violati così spudoratamente a casa nostra. Salvo quando parlarne diventa una scelta obbligata[iv].

Chiudo con un recente auspicio diffuso sui social dell’attivista, scrittrice ed ex parlamentare afgana, Malalai Joya:

“Mentre esprimo la mia più totale solidarietà a Julian Assange, riconosco che c’è ancora molta strada da fare affinché quest’uomo impegnato, difensore degli oppressi, che ha esposto i crimini e gli abomini americani, sia libero dagli imperialisti. La diffusione di notizie (della portata di quelle di Wikileaks, ndr) dimostra che i coloni nemici dell’umanità, con la loro enorme macchina da guerra e gli apparati di intelligence, non saranno in grado di imprigionare l’umanità per sempre.”[v]

[i]Come ha testimoniato il Dott. Michael Kopelman a seguito delle sue visite ad Assange (v. undicesimo giorno: https://wetooareprotesters.home.blog/ ).

[ii]https://www.pressenza.com/it/2020/02/consiglio-deuropa-julian-assange-deve-essere-rilasciato-e-devessere-vietata-la-sua-estradizione-negli-usa/

[iii]https://www.pressenza.com/it/2020/09/lawyers-for-assange-julian-assange-deve-essere-rilasciato/

[iv]L’atteggiamento dei media mainstream ha raggiunto nelle ultime ore il parossismo più totale: d’un tratto, forse per non perdere del tutto la credibilità agli occhi di un pubblico che si affida sempre più spesso alla cosiddetta “controinformazione”, sono tornati a parlare del caso Assange, di cui non hanno parlato affatto per anni o quando lo hanno fatto è stato per calunniarlo o quantomeno per insinuare il dubbio che fosse una persona esecrabile.

[v]Vi ricordo i maggiori (wiki)leaks riguardanti l’Afghanistan: https://wikileaks.org/10years/afghanistan.html

*Veronica Tarozzi su Pressenza

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