Vivere nelle rovine di Megalopoli. Critica della Natura-merce

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Le archistar si affidano alle virtù della “Natura” per curare i mali di Megalopoli. Una fiducia che postula il ruolo subalterno del vivente non umano: dominato, mercificato e messo a valore quale impresa di servizi compensativi agli squilibri urbani.

«Portare la natura nelle città» o «avviare la forestazione delle metropoli» sono enunciati che, per quanto apparentemente sovversivi, risultano del tutto organici alla retorica megapolitana. La “foresta urbana”, ad esempio, risponde al desiderio contemporaneo di wilderness: un’aspirazione prontamente sussunta dalle forze capitalistiche che la adattano a compensare gli inconvenienti dello sviluppo. Per la capacità della foresta di fissare carbonio, esse ne sfruttano la forza-lavoro: così, lungi dall’agire alla radice del problema, estraggono denaro dal processo di fotosintesi continuando ad inquinare.

Paris Smart City 2050

Nella sua versione green, il discorso sviluppista-espansivista contribuisce a rinnovare il mito di Megalopoli, forma “urbana” congeniale al paradigma basato sull’eccezionalismo della specie umana e sull’individualismo utilitarista. Megalopoli, che poco ha a che fare con la natura (se non in senso estrattivo), è uno strumento di dominio territoriale, coloniale, capitalistico, gerarchico, patriarcale. Un dominio che si fonda su una “naturale” polarizzazione verso le aree metropolitane, poste al centro di megaregions: territori rapinati e offesi per la sopravvivenza stessa di megalopoli, desertificati.

Megalopoli è intesa come destino ultimo della città. La sua figurazione ha tenore dogmatico. Come ogni propaganda, funziona in forza dell’annuncio, ed elude quindi di fornire le prove scientifiche capaci di avvalorare il modello. Anzi, sono proprio le contraddizioni del modello a fornire vigore argomentativo per convalidarne il successo: se megalopoli produce criticità (divario sociale, ingiustizia ambientale etc.), è la stessa megalopoli che detiene gli strumenti per superare le criticità da essa prodotte. E così – dissipatore ed entropico, patriarcale e profondamente iniquo, artificiale e a «infecondità programmata» (Costa, 2018, p. 24) – il modello megapolitano è rappresentato come unica via di salvezza al cospetto delle “minacce” globali, ambientali e politiche.

Paris Smart City 2050

Nella narrazione imperante, di taglio economicista, la Natura gioca oggi un ruolo basilare. La sua riduzione a fonte di servizi “ecosistemici”, quantificabili e vendibili, rappresenta la nuova frontiera dell’accaparramento. Il coinvolgimento del vivente nella cura della città avviene in forma strumentale a compensazione degli squilibri ambientali urbani, e si limita a «rimedi, aggiustamenti e disinquinamenti» (Langer, 1992, p. 438), e a protesi sempre più frequentemente carpite dal vivente non umano. Tutto ciò avviene costringendo il vivente a svolgere, in contesti ostili, funzioni preordinate, anche tramite la modificazione genetica. L’ipotesi della personificazione giuridica del vivente – «dotato di diritti che gli sono propri» (MNHN, 2019, p. 41) – non vi è contemplata.

Demandando, dunque, le capacità riproduttivo-generative – inesistenti o insufficienti in un sistema altamente tecnologizzato – la megacittà non giunge a costituirsi come “ecosistema”. La sua sopravvivenza ha peraltro un importante risvolto socio-politico, poiché rischia di fondarsi su strumenti autoritari e disciplinari che possono mettere in crisi la tenuta democratica.

Le ipotesi in voga tra scienziati e archistar (particolarmente sollecitate dalle questioni poste in gioco dalla pandemia) ci aiutano a dipanare il nostro ragionamento. Procediamo per punti.

1) La ri-delega alla natura. «La plastica recuperata dai mari può essere usata come combustibile per fornire energia alla città», scrive Saskia Sassen sulla stampa del think tank di Tremonti. L’affermazione discende dalla teoria (che si vuole emancipatrice) della «(ri)delega alla biosfera», la quale, a nostro giudizio, rappresenta un travisamento di concetti quali la simpoiesi (ovvero il «con-fare» descritto da Donna Haraway). «Delegare alla natura, [ma] non tornare alla natura» significa coartare il vivente (alghe, muffe etc.) a determinate funzioni; significa valutare (anche economicamente) i benefici apportati da un organismo o da un insieme di organismi nel risarcimento dei danni antropici alla Biosfera. Le esternalità negative rischiano, tuttavia, di sopravanzare i benefìci immaginati.

Paris Smart City 2050. Gli HLM

2) La città che sale. Parigi Smart City 2050, dal punto di vista della mercificazione della vita, non ha rivali. Il progetto per la futura Parigi modella un «ecosistema maturo capace di generare l’energia di cui ha bisogno». Gli assunti scientifici a sostegno di tale prospettiva superano le leggi della termodinamica: primo fra tutti, «i rifiuti urbani riciclabili all’infinito». Nei progetti dalla grafica accattivante, l’innalzamento della città esistente con superfetazioni cementizie – ma, va da sé, vegetalizzate – combatte la museificazione della città e la gentrificazione, laddove (Milano ne è l’esempio lampante) greenwashing e forestazione operano viceversa nel senso della selezione sociale. Nella «città mangrovia», la tour Montparnasse si trasforma in «Central Parc à la verticale»; il «raddoppio» della residenza pubblica si attua con l’apposizione – sopra le case popolari (HLM) – di prefabbricati in forma di alveare, naturalmente «destinati agli studenti».

3) Urbanesimo filantrocapitalista. Questo filone, nostrano, applica all’urbanistica i principi del capitalismo filantropico. Nell’aprile 2020, quando in piena pandemia i lavoratori più smart svernano nelle seconde case immerse nella natura, l’autore dei milanesi “Bosco verticale” e “Torre botanica” lancia l’idea: le metropoli adottino i “borghi” nelle aree interne. Il «grande progetto nazionale» – neocoloniale, caritatevole (ma «con vantaggi fiscali e incentivi») – parte dalle 14 metropoli verso «i 5.800 centri sotto i 5.000 abitanti», concentrandosi proprio su quei centri che l’attrazione metropolitana da decenni ha contribuito a svuotare. Questo moto “umanitario”, frutto di un sistema capitalista che «si permette atti di pietà e di compassione nei confronti dei vinti della società» (Galli), contribuirebbe certo alla depoliticizzazione del processo di ripopolamento delle aree interne.

4) Città e abitanti sono «un meccanismo bellissimo». La metafora meccanicista è espressa in una recente intervista a Carlo Ratti, nella quale l’archistar sovverte la dinamica classica dell’urbanesimo: «non più la città che va alla conquista della campagna e della natura, bensì la natura che ritorna nel cuore delle nostre città». In questo nuovo idillio, gli inestricabili problemi del traffico veicolare si possono risolvere grazie a protesi informatiche: «un sistema di slot come negli aeroporti – egli afferma sul “Corriere” –. Ciascuno programma il proprio spostamento, per esempio attraverso una app, e questo consente un tracciamento, come per i contagi, ma in anticipo». La distopia si fa panottica: la città sposa salute ambientale e controllo capillare degli abitanti.

5) L’«internet delle case» descrive una metropoli nella quale sono gli stessi edifici a gestire “la natura”, tramite app e sensori. In tempi di coronavirus, i progettisti avviano un ripensamento sull’ambiente domestico. Nel prevedibile futuro susseguirsi di pandemie, è quanto mai necessario, sancisce Massimiliano Fuksas, il varo di «una legge che vieti la costruzione di case più piccole di 60 metri quadri», ed è a maggior ragione necessario ripensare i sistemi rigenerativi degli ambienti chiusi che diventano casa-ufficio-fabbrica. La «purificazione e il trattamento dell’aria [si potrà attuare] con sistemi semplici ed efficaci – prosegue l’architetto romano, su “la Repubblica” – come le lampade a raggi ultravioletti che sono in grado di sanificare». Apparecchi sofisticati – ottenuti con risorse sempre più rare – sostituiscono i sistemi naturali alzando i costi energetici dell’abitare. Niente di nuovo sotto il cielo metropolitano.

“Vertical farming”.

6) Vivere senza suolo. Nella città che sostituisce i processi naturali con meccanismi tecnici, infine, la sopravvivenza alimentare è garantita dall’agricoltura idroponica e «aterritoriale» (cioè su piattaforme marine), dal vertical farming – coltivazione idroponica che avviene in scaffalature illuminate artificialmente, all’interno di un ambiente chiuso che può trovare spazio nelle aree urbane – e nelle coltivazioni «rooftop» che si distribuiscono sui lastrici solari degli edifici. Secondo la narrazione dominante, nelle megalopoli del mondo si può materializzare il sogno delle monocolture senza suolo – che non possiamo qui approfondire –, energivore e dipendenti dall’agricoltura tecnologizzata e dagli organismi geneticamente mutati.

 

Elementi di critica, con cenni a possibili vie d’uscita

Nelle megalopoli, la green economy ­diviene fondamento di un nuovo ciclo di accumulazione, di rinverditi immaginari, e si trasforma in occasione di investimento per settori finanziari parassiti che, come ha dimostrato Naomi Klein, scommettono sulle catastrofi per moltiplicare i propri profitti.

I progetti sopra descritti sono frutto di «un modo di pensare che prima frammenta e poi connette», e che separa Natura da Cultura. Afferma Jason W. Moore che, in tale frammentazione, l’idea di Natura «è sempre in contrasto con Società, Civiltà, o altri concetti simili». Ciò fa parte di una prassi, «quella [cioè] di dominare gli umani, non solo i suoli, i corsi d’acqua, i campi e le foreste». La Natura, così intesa, diviene «un progetto di classe, un progetto imperiale che ha fuso la produzione di “plusvalore” con l’esercizio di “pluspotere”», diviene una categoria di azione che non può «essere separata dalla dominazione e dall’appropriazione degli esseri umani», da gerarchia e sfruttamento.

Occorre oggi disattivare la «paralisi immaginativa» (Bifo, 2021) che blocca la progettualità riferita agli ambienti urbani. Urgono categorie capaci di accogliere le istanze di corporeità, di decolonizzazione del nostro rapporto con la materialità della vita, di simpoiesi. Ordinamenti nuovi, capaci di aprirsi al possibile, all’immaginabile, alla dismissione delle convenzioni imposte, degli stereotipi progettuali.

Stimoli interessanti provengono dagli studi femministi, antispecisti, anticoloniali che riescono a produrre consonanze da mettere a frutto nella umana «produzione di spazio» e di mondi “più che umani”, multispecifici, relazionali, interdipendenti. Non più dunque la Natura da una parte, e l’Uomo dall’altra, ma Umani e Non umani che hanno “fatto la storia” gli uni con gli altri, che hanno creato ambienti di vita gli uni per il tramite degli altri, e mai indipendentemente dalle loro connessioni con altri ancora. Non più dunque mondi pensati per umani e curati da non umani, ma mondi pensati per il futuro del vivente.

Per una nuova rappresentazione della vita nelle metropoli, riteniamo infine fecondo quel «vivere nelle rovine» (Lowenhaupt Tsing, 2017) – nell’ambiente, quello urbano, per eccellenza «costruito dagli uomini per gli uomini» (Stengers, 2017), ma edificato in relazione alla sua bioregione e alla disponibilità di risorse (Bevilacqua, 2015) – dove le rovine sono «luoghi di incontri […] segnati dalla contingenza, [nonché] collegamenti segnati dalla precarietà, [che] non danno alcuna certezza». Sono, le rovine, i mondi «multipli e aggrovigliati» dove si fabbricano storie e si alimenta immaginazione. Una «foresta popolata da lotte ed esperienze collettive capaci di inventare dal basso nuove pratiche di immaginazione, rivolta, resistenza e riparazione» (Ghelfi, 2019). Metafora assai più vitale e complessa del paravento arboreo ad operazioni di speculazione edilizia.

*Ilaria Agostini

 

Il testo è la rielaborazione del contributo dell’autrice all’incontro Abitare la biosfera. Come superare il paradigma gigantista-estrattivista? tenutosi il 18 gennaio 2021, in diretta facebook, con Enzo Scandurra, Ilaria Agostini, Ubaldo Fadini e Vanni Attili. L’incontro è stato organizzato da Quinto Alto ed è visibile cliccando qui.

 

Riferimenti bibliografici

Ilaria Agostini, Megalopoli e il destino della città, in Enzo Scandurra, Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Biosfera. Il pianeta che abitiamo, DeriveApprodi, Roma, 2020, pp. 133-166

Piero Bevilacqua, La città. Un ecosistema di beni comuni, “Scienze del territorio”, 2015, n. 3, pp. 17-26

Franco Berardi Bifo, Il pilota automatico e il caos, “Comune-Info”, 8 febbraio 2021, https://comune-info.net/il-pilota-automatico-e-il-caos/

Antoine Costa, La nature comme marchandise, Le monde à l’envers, Grenoble, 2018

Carlo Galli, Neoliberismo e ordoliberalismo: caratteristiche e problemi da un punto di vista filosofico-politico, lezione tenuta presso l’Accademia delle Scienze di Bologna, 25 giugno 2020

Andrea Ghelfi, Nella foresta dello Chthulucene, “DinamoPress”, 3 novembre 2019, https://www.dinamopress.it/news/nella-foresta-dello-chthulucene/

Colette Guillaumin, Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, Ombre Corte, Verona, 2020

Alexander Langer, Vie di pace / Frieden schließen, Arcobaleno, Trento, 1992

Jason W. Moore, Gennaro Avallone, Ecologia-mondo. Una discussione (I), “Effimera”, 18 settembre 2019, http://effimera. org/ecologia-mondo-una-discussione-di-jason-moore-e-gennaro-avallone/

Anna Lowenhaupt Tsing, Le champignon de la fin du monde: Sur la possibilité de vivre dans les ruines du capitalisme, La Decouverte, Paris 2017

Saskia Sassen, L’ambiente fra città e Biosfera, «Aspenia», n. 81 (Il ritorno delle città-stato), 2018, p. 74

Isabelle Stengers, Prefazione a Lowenthaup Tsing, 2017, ora in “La Città invisibile”, 2 settembre 2019, https://www.perunaltracitta.org/2019/09/02/il-fungo-della-fine-deo-mondo-e-le-possibilita-di-vivere-tra-le-rovine-del-capitalismo/

 

 

 

 

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Ilaria Agostini

Ilaria Agostini, urbanista, insegna all'Università di Bologna. Fa parte del Gruppo urbanistica perUnaltracittà. Ha curato i libri collettivi Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014 e Firenze fabbrica del turismo.

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