Il dominio della città-Stato. Per una critica del gigantismo/3

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Megalopoli è oggi interpretata come strumento di dominio territoriale. Lo abbiamo dimostrato nella seconda parte della nostra critica.

La sua raffigurazione è tesa tra città buona e città cattiva, tra città della perdizione e città della salvezza. Si tratta di un’escatologia, un’indagine sul destino ultimo della vita aggregata sul pianeta Terra. Come una aggiornata Gerusalemme celeste, Megalopoli si vuole unica, ultima, via di salvezza di fronte alle “minacce” rappresentate dalla compromissione dell’ambiente globale.

Ideologia salvifica, ma con una insanabile contraddizione. L’inurbamento mondiale ipertecnologizzato è infatti causa ed effetto di squilibri sociali, territoriali e ambientali: mentre dai territori depredati i popoli affluiscono nella megacittà arrestandosi ai suoi margini, nelle aree centrali si dispiega il culto neocapitalista. Eppure la retorica impone il modello “iper” come esclusiva soluzione ai mali dell’insediamento umano. Senza tuttavia offrire prove di realtà.

 

Il disvelamento dei programmi megapolitani

Alla “città-Stato”, il più recente capitolo del gigantismo metropolitano[1], è dedicata una recente pubblicazione dell’Istituto Aspen[2]. Quanto a interpretazione critica del fenomeno, il think tank presieduto da Giulio Tremonti offre analisi e scenari di grande interesse: la letteratura padronale ha infatti il merito di mostrare il mondo dalla parte di chi detiene il potere economico. Non solo. All’incomparabile vantaggio di tale disvelamento si assomma oggi, dacché la lotta di classe è stata vinta dai megaricchi, la rinuncia alla pruderie consentanea alla postura dominicale. Ciò rende estremamente proficuo lo studio di questo filone letterario.

Quello delle “città-Stato” è il rango delle metropoli «più grandi», le più popolose e produttive, quelle megalopoli che aspirano alla supremazia politica su una macroregione, «che può coincidere anche con l’intero territorio nazionale»[3]. È il rango delle metropoli «potenti quanto i principali paesi del mondo»: il PIL di New York equivale infatti a quello del Canada, Londra quello dell’Olanda.

«Incubatori e acceleratori» delle new economy, e naturalmente «smart», le città-Stato sarebbero seicento sull’intero pianeta. In accanita competizione tra loro poiché, secondo il verbo megapolitano, città-Stato e megaregioni costituiranno i «tasselli fondamentali dell’economia globale».

 

Megasindaci per megacittà

In Italia la sola Milano pare destinata ad assurgere al ruolo di città-Stato. Aspirazione sostenuta dal successo economico: il PIL della Grande Milano vale infatti il 33% del prodotto nazionale[4]. Ma Milano, città che «fagocita, attrae e concentra, diventando il fulcro di un sistema monocentrico», è già città-Stato? Stefano Boeri ha la risposta: «Su scala nazionale, no. Sì, se la consideriamo il centro di una regione urbana di cinque o sei milioni di abitanti. Milano è fin d’ora una città globale, l’unica in Italia. Il mondo vi è già rappresentato, lo dimostrano le multinazionali come Microsoft o Google che la scelgono»[5]. Evidentemente, la governance milanese uscirà corroborata dal varo del federalismo regionale differenziato.

A livello planetario, quanto a strategie politiche, le ipercittà si muovono autonomamente. A fronte dell’«evoluzione della governance globale» (o, in altri termini, della privatizzazione del potere pubblico) e a fronte di città-capitali «sclerotizzate» in Stati sempre più indebitati e «vetusti», molte città infatti «hanno deciso che era necessario prendere direttamente l’iniziativa». I megasindaci si sono così imposti «come protagonisti della scena internazionale» (p 43), prendendo iniziative «indipendentemente dai capi supremi dei rispettivi stati-Nazione» e dando vita a una «attivissima “city diplomacy” internazionale».

L’azione dei sindaci, autonoma ma «concertata», sarebbe connessa – secondo l’Aspen – all’affermazione della sharing economy, della «violenza transnazionale» e del caos climatico, fenomeni che, pur avendo natura globale, si concretizzano nelle città. Le città-Stato sarebbero perciò chiamate a dettare «una sorta di programma globale progressista, favorevole all’afflusso di capitali e migranti, senza curarsi dei desiderata del polveroso e formale potere di capitali lontane» (corsivo nostro).

 

La megacittà è dominio economico. E politico

Dunque, come si vede, l’impiego della formula “città-Stato” aggiunge, alla valenza economica di cui è caricata Megalopoli, quella del dominio politico (concernente la polis). In questa narrazione, il dato sociale e la qualità dell’ambiente costruito, la civitas e la urbs, escono ulteriormente indeboliti.

Megalopoli, anche nella sua versione politicamente egemonica che la renderebbe più «inclusiva», depriva la città di quella dimensione di solidarietà, di autonomia (l’arte di darsi le regole), di democrazia diretta, che è centrale nel municipalismo libertario dell’ecologia sociale o nel policentrismo territorialista di cui abbiamo trattato nella prima parte della nostra critica.

Come chi legge ha già intuito, non sfugge ai cantori del fenomeno il fatto che Megalopolis sia un contenitore di disuguaglianze: «Vincenti e perdenti della globalizzazione urbana finiscono [infatti] per trovarsi a strettissimo contatto». E che, anzi, le metropoli siano “il” luogo delle contraddizioni: «le metropoli di oggi condensano, in un microcosmo del mondo globale, grande ricchezza e grande povertà, radicamento al territorio e quasi totale mobilità, realtà geografica e annullamento della distanza».

Nella narrazione dominante, come dimostreremo, il superamento delle iniquità sociali e degli squilibri ecologici è affidato all’ipertecnologizzazione dell’insediamento, alla iperconcentrazione di abitanti, e all’aggiunta (nella città-Stato) dei poteri politici al capitale cognitivo-economico metropolitano. Partiamo dal tema ambientale.

 

Ecologia della città-Stato

La città-Stato esemplare è la futura Pechino da 103 milioni di abitanti. Una capitale globale al centro di un territorio, la Cina, che già oggi manca di risorse rurali e che perciò si accaparra i terreni agricoli in Africa. Per consentire la sopravvivenza alimentare delle decine di milioni di metrocittadini nelle molte città-Stato, si promette agricoltura idroponica e «aterritoriale», ossia su piattaforme marine. Per le città africane è indicata come miracolosa la soluzione del vertical farming (vedi foto) e coltivazioni «rooftop», ossia sul lastrico solare degli edifici.

Le aree rurali sono ridotte ad interstizi nel dispiegamento della metropoli cinese. Per esse si prevede una riforestazione da 60 milioni di alberi: che «mira a migliorare la qualità dell’aria e a ridefinire i confini tra le città».

A fronte degli evidenti danni ambientali dell’insediamento planetario polarizzato in grandi città globali, la letteratura offre la ricetta universale per i mali ambientali: «la strada da percorrere – si legge nell’introduzione ad “Aspenia” – sarà quella dell’economia circolare e dello sviluppo sostenibile […]. Combattere il cambiamento climatico è un obiettivo globale: [… e] se alcuni si sottraggono il problema non si risolve» (corsivo nostro).

Le nozioni di “economia circolare” e “sviluppo sostenibile”, per come proposte dalla letteratura megapolitana, appaiono formule retoriche prive di contenuto. Travolte entrambe dalla green economy, ed entrambe oggetto di sussunzione riduzionista di matrice tecnocratica, funzionale ai diktat del turbo-capitalismo, le due nozioni hanno perso mordente. Ma c’è di più. Il citato «se alcuni si sottraggono», in odor di coercizione, è non latente espressione di quel «fascismo tecno-burocratico» previsto e temuto da Illich e da Gorz.

In questa temperie, Saskia Sassen, sociologa di fama, teorizza la «(ri)delega alla biosfera»[6]. La strada che viene indicata quale soluzione ai mali ambientali urbani non si perita di (ri)collocare la natura in ruolo ancillare, in ruolo subalterno: mette all’opera le capacità rigenerative della natura nel risarcimento dei danni. In altri termini: ai danni subìti “ci pensi la Natura”, che a difenderci dalla Natura (e dal clima impazzito) ci pensiamo noi.

La (ri)delega si fonda sullo «sfruttamento delle capacità biosferiche» quale alternativa all’attuale impiego di sostanze chimiche e sintetiche dannose per l’ambiente, «(non tutte)» precisa l’autrice. Il processo proposto punta sull’impiego di «strumenti» che si prestano a un uso multisettoriale, quali «gli edifici, le acque nere e le alghe». È perciò richiesto un cambiamento di approccio alla gestione e al progetto dei luoghi di vita. I proposti rimedi, aggiustamenti e disinquinamenti insistono infatti sulla «riserva di capacità in quella “terra di mezzo” tra la realtà urbana e la biosfera».

In altri termini, i rimedi insistono su:

a) le prestazioni ecologiche di manufatti e costruzioni: boschi urbani, edifici “intelligenti”, magari «dotati di spazi per la nidificazione degli uccelli e per la crescita di vegetazione superficiale» (il sempreverde esempio è il Bosco verticale a Milano);

b) l’azione biologica di funghi, batteri e altri microrganismi;

c) la circolarità del sistema economico. A questo proposito l’autrice di Global city raggiunge il paradosso: «la plastica recuperata dai mari [prodotta e dispersa dalla città, ndr] può essere usata come combustibile per fornire energia alla città [medesima]».

Il raggiungimento degli obiettivi ambientali e climatici resta tuttavia nell’ambito delle ipotesi, anche perché non vengono messe in conto le esternalità negative in termini di consumo di energia, di acqua, di materie prime etc. e di inquinamento indotto, che rischiano di sopravanzare i benefìci desiderati. Un risultato che rischia di tradursi in ciò che in gergo filosofico si definisce “eterogenesi dei fini”.

Comunque sia, la messa in opera delle prestazioni rigenerative della “terra di mezzo” vede collaborare in rete le megacities. Tra di esse, quelle bagnate dal mare sono già pronte a fortificarsi con muraglie di protezione dall’innalzamento dei mari. Il Mose insegna.

 

Barbarie fuori dalla città-Stato

I laudatores urbis megapolitanae sono avvertiti del rischio di esiziale esclusione dei territori non raggiunti dal «programma globale progressivo»; ma il loro timore ha natura politica, ed è connesso alla detenzione del potere di mettere a valore l’habitat.

«Dimenticare, infatti, i territori e puntare solo sulle megalopoli può voler dire, a livello politico, trovarsi addosso problemi come Brexit – votata dai centri più piccoli e periferici che hanno battuto la megalopoli Londra – o come la rivolta dei gilet gialli che si riversano a Parigi per manifestare il loro scontento non solo al governo francese, ma anche ai cittadini di un’altra grande metropoli». Se ne deduce che le popolazioni rurali residue devono spostarsi nelle ipercittà. Un’altra faccia dell’attrattività.

Secondo Slavoj Zizek, il capitalismo globale (e la sua manifestazione urbana), presentandosi sotto forma di capitalismo globale dal volto umano, si pone come ultimo baluardo contro il global-fascismo: «l’oscenità della situazione», chiosava recentemente il filosofo, «toglie il fiato»[7].

 

Per concludere

Il modello proposto – gigante, violento, inumano e ostile alle forme di vita non umane – si limita ad enunciati di natura escatologica, senza fornire prove di effettiva funzionalità e durabilità. Il messaggio, povero di immaginario e mai convalidato da convincenti prove scientifiche, è questo: solo se l’umanità si stipa nell’ambiente totalmente artificiale della megacity, potrà affrontare le “sfide” globali.

La metropolizzazione del globo promette di risolvere i problemi che essa stessa genera. In questo avvitamento teorico, l’ideologia tecnologica megapolitana mostra l’inadeguatezza delle sue declamate virtù. Essa promette di annullare le diseguaglianze, che sono invece strutturali al modello iperurbano; promette il risarcimento dei danni ambientali dovuti all’estrazione delle risorse, vitali per le protesi metropolitane; annuncia una felicità individuale, fondata sul consumo delle risorse necessarie alla vita stessa.

L’ideologia degli «ecosistemi economici» (sic) megapolitani ignora ogni ipotesi alternativa e dissidente, microterritoriale e policentrica.

La sua mancata e impossibile autolimitazione, negando ogni analogia con l’ecosistema «autoequilibrato, autoadattivo, autopurificante»[8], si pone in maniera fallimentare fuori dalla Natura. Per come si sta configurando, dunque, il modello gigantista accelera verso ulteriori genocidi e biocidi.

Restano da trovare le forze per ostacolarne la realizzazione.

*Ilaria Agostini

Note al testo

[1] Cfr. Parag Khanna, La rinascita delle città-stato. Come governare il mondo al tempo della devolution, Fazi, Roma, 2017.

[2] Il ritorno delle città stato, “Aspenia”, n. 81, 2018. Il fascicolo raccoglie scritti di alcuni degli alfieri del tema: tra di essi, Saskia Sassen, Richard Florida, Stefano Boeri. Dove non alrimenti indicato, le citazioni contenute nel presente scritto sono tratte da questa pubblicazione.

[3] Alberto Mattioli, Stefano Boeri, “Milano città globale ma dialoghi con il Paese”, “La Stampa”, 31 gennaio 2019, p. 27.

[4] Borsa Milano vale 543 mld, 33% del Pil, comunicato stampa, 28 dicembre 2018, <http://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2018/12/28/borsa-milano-vale-643-mld-33-del-pil_6a85d97a-0283-4994-943e-e7e1e516ccec.html>.

[5] In Mattioli, Stefano Boeri, “Milano città globale ma dialoghi con il Paese” cit.

[6] Cfr. anche Saskia Sassen, Cities in a world economy, Sage, New York, 2018. La Sassen è autrice di un altro testo fondativo del gigantismo urbano: The global city. New York, London, Tokio, Princeton University Press, Princeton, 2001.

[7] Slavoj Zizek, La scomparsa della sinistra, “Internazionale”, 15 marzo 2019, p. 36.

[8] Ernst F. Schumacher, Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Mondadori, Milano, 1978 (ed. orig. Small is beautiful. A study of economics as if people mattered, Blond & Briggs, London, 1973).

 

Il presente articolo – terzo e ultimo della serie – è la trascrizione del contributo all’incontro Per una critica dell’urbanistica, organizzato dal Gruppo Quinto Alto presso il Gabinetto Vieusseux, Firenze 4 febbraio 2019. All’incontro hanno preso parte, oltre all’autrice del testo, Enzo Scandurra e Ubaldo Fadini.

Potete trovare su La Città invisibile la prima e la seconda parte della nostra critica del gigantismo. 

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Ilaria Agostini

Ilaria Agostini, urbanista, insegna all'Università di Bologna. Fa parte del Gruppo urbanistica perUnaltracittà. Ha curato i libri collettivi Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014 e Firenze fabbrica del turismo.

1 commento su “Il dominio della città-Stato. Per una critica del gigantismo/3”

  1. Buongiorno, trovo interessantissimo il suo riflettere sulle megalopoli come architrave di un ordine globale che sancisce la disuguaglianza globale iscrivendola negli spazi pubblici e forzando l’ecologia urbana; io stesso, lavorando per un centro studi politico-militare ne ho sondato i rischi ambientali, le aporie strategiche e le derive sociali implicite. Mi permetto di rilevare come qualsiasi progetto istituzionale-costituzionale di “regionalismo differenziato”, per quanto teoricamente funzionale, è già superato e di fatto può essere scartato e perfino contrastato dalla realtà di grandi imprese “over the top” (la definizione è di Franco Bernabè) che prediligono il centralismo statale emergenziale (oggi giustificato da pandemia e relative misure di “ripresa”), non tanto per le “grandi opere” cementizie (segnacolo di un berlusconismo affarista-speculativo che comunque è sempre in agguato) quanto per le nuove tecnostrutture ICT di un pugno di multinazionali ben addentro al circuito psicologico-sociale delle megalopoli del XXI secolo

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