La recente fronda di un gruppuscolo di senatori del Partito Democratico a Palazzo Madama, peraltro prontamente rientrata, ma soprattutto la stizzita reazione in riferimento a tale vicenda del premier Matteo Renzi, rappresentano una chiara e limpida esemplificazione di quale sia la declinazione pratica che la totalità delle forze parlamentari applica al concetto di democrazia.
Ovviamente, e a scanso di equivoci visto che si tratta del primo numero della rivista La Città invisibile, chi scrive non nutre il minimo interesse per tutte le manovre ed i riposizionamenti tattici che continuamente attraversano il partito guidato dall’ex sindaco di Firenze. Premesso ciò, rimane pur vero che la dialettica interna che anima la principale forza liberista in Italia può risultare un utile strumento per comprendere il degrado politico che viviamo quotidianamente.
Renzi, in merito alla sostituzione di Corradino Mineo con Luigi Zanda in commissione Affari Costituzionali ed alle polemiche scaturitesi, ha infatti fatto appello alla legittimità che qualsiasi sua decisione riceverebbe dagli oltre 11 milioni di voti conquistati alle recenti elezioni europee. Il richiamo secco e diretto ad un momento considerato dirimente, il segno sulla scheda elettorale appunto, rispetto a tutta la dialettica che può scaturire da un processo complesso come è certamente l’azione di governo, ha ricordato a molti, in un paragone che ciclicamente riacquista visibilità mediatica, il modus operandi di Silvio Berlusconi. In realtà, abbandonando un certo provincialismo italico, scopriamo come tale fenomeno abbia investito, nel più o meno recente passato, forze politiche di estrazione ideologica molto diversa ed a latitudini dissimili. Dai governi guidati da Hugo Chávez in Venezuela a quelli presieduti da Olof Palme negli anni settanta in Svezia, non sono infatti mancati neanche a sinistra richiami volti a sottolineare la de-legittimità della protesta, fosse questa interna al contesto parlamentare oppure di piazza, a fronte del voto che sostanziava invece la piena ed inequivocabile espressione della volontà popolare. Probabilmente però l’esempio più famoso in tale direzione rimane la battuta con la quale il Presidente francese Charles De Gaulle, a seguito dello schiacciante successo elettorale riportato dal proprio partito elle elezioni parlamentari del giugno 1968, chiuse la stagione di fortissime proteste apertasi un mese prima: “la ricreazione è finita”.
Quello che unisce tutti gli eterogenei esempi richiamati, oltre ad una naturale aderenza dei detentori del potere a formule miranti alla preservazione del medesimo, è una stretta vicinanza ad una formulazione procedurale o minimale del concetto di democrazia. Questa, spogliata da tutti gli orpelli propagandistici, ruoterebbe sostanzialmente attorno a due centri gravitazionali: il momento elettorale e la regola della maggioranza. Tale visione della democrazia assegna quindi un ruolo di assoluta centralità ai partiti politici, incaricati non solamente di strutturare le incoerenti domande presenti a livello endogeno nella società, ma anche di assicurare all’elettore, attraverso la continuità nel tempo, la possibilità di premiare chi ha ben governato e punire, viceversa, chi non è sembrato all’altezza della situazione. Quanto questa visione della democrazia sia non solamente limitante, ma anche distante da quello che i nostri occhi quotidianamente osservano è, al tempo stesso, banale da intuire, ma decisamente più complicata da argomentare in poche righe. Qui basterà forse ricordare come non solo la maggioranza, e la storia ci sembra abbia fornito sufficienti prove al riguardo, non sia in alcun modo garanzia di saggezza, ma anche come la tanto decantata libertà di scelta degli elettori rimanga, nei fatti, confinata a selezionare marche diverse dello stesso detersivo. Come ebbe a scrivere Herbert Marcuse: “la libera elezione dei padroni non elimina né i padroni né gli schiavi”.
In questa cupissima prospettiva che abbiamo disegnato rimane però un elemento di criticità che dobbiamo necessariamente far emergere. L’idea che tutto il processo democratico sia confinato esclusivamente al momento elettorale per poi divenire materia ad esclusiva pertinenza degli specialisti – e magari fossero tali – della politica, è stata storicamente e costantemente sfidata da una visione alternativa di democrazia. Questa pone le sue basi di legittimità nel continuo controllo al quale i governanti devono essere sottoposti ad opera dei governati. Controllo che si esercita nelle forme e modalità più disparate, ma che prevede sempre un coinvolgimento diretto ed attivo della cittadinanza, che da spettatore diviene attore attivo, almeno parzialmente, del processo di governo della comunità. Quanto detto rientra precisamente all’interno del concetto di contro-democrazia utilizzato dallo studioso francese Pierre Rosanvallon. Ovvero, non l’opposto di democrazia, ma piuttosto una forma di democrazia che attraverso un brulicare incessante di processi e percorsi auto-generatesi sia in grado di rendere più ricca e meno asfittica la democrazia elettorale. Questa nuova avventura editoriale nasce, in un certo senso, proprio dall’implicita adesione di molti di noi a questa idea di democrazia. Rimanendo sempre consapevoli però, che qualsiasi forma di critica dell’esistente deve essere radicale nella sua disamina, pena il trasformarsi nella forma cerimoniale della protesta, ovvero la negazione innocua ed assimilata di un sistema fondato sullo sfruttamento.
Gianni Del Panta è un attivista, studioso di Scienze politiche
Gianni Del Panta
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