A quasi quattro anni dallo scoppio delle cosiddette Primavere Arabe, La città invisibile propone un viaggio in cinque tappe curato da Gianni Del Panta che, a partire da queste note introduttive, dovrebbe permettere di tracciare un quadro di quanto successo dalla fine del 2010 ad oggi nei cinque paesi nord-africani che si affacciano sul Mediterraneo. Il primo approfondimento sarà dedicato all’Algeria. L’ultimo alla Tunisia, dove tutto è cominciato e dove si sono svolte proprio nel fine settimana scorso le prime elezioni parlamentari dopo l’entrata in vigore della nuova Carta costituzionale. Nel mezzo troveranno spazio i focus specifici su Libia, Egitto e Marocco. Prima però, qualche considerazione introduttiva su quanto è successo.
Il 17 dicembre 2010, nella piccola cittadina dell’entroterra tunisino di Sidi Bouzid, un giovane venditore ambulante decise di darsi alle fiamme per protestare contro il sequestro della propria merce e per l’ennesimo maltrattamento che aveva ricevuto dalle onnipresenti forze di polizia locali. Mohamed Bouazizi, questo il nome del coraggioso e sfortunato ragazzo, morirà a soli ventisei anni il successivo 5 gennaio per le gravissime ustioni riportare. Il suo gesto però non risulterà vano e sarà destinato ad essere ricordato come il classico battito d’ali di farfalla capace di provocare un imprevedibile uragano. In meno di un mese infatti il presidente tunisino Zine al-Abidine Ben Ali, considerato come uno dei più stabili dittatori dell’intero mondo arabo, fu costretto ad abbandonare rocambolescamente il potere e a rifugiarsi in Arabia Saudita. L’ 11 febbraio 2011 anche Hosni Mubarak, vicino a raggiungere la strepitosa soglia dei trent’anni consecutivi alla guida dell’Egitto, esautorato dall’alto comando militare e sotto la crescente pressione di piazza Tahrir, veniva dichiarato decaduto. Inoltre, vaste manifestazioni di scontento e rabbia si sono diffuse in tutta la regione: da Rabat a Manama, da Algeri a Damasco, da Tripoli a San’a’. Nel volgere di pochissime settimane regimi autoritari saldamente al potere da decenni si sono sbriciolati come castelli di sabbia. Altri hanno dovuto ricorrere ad una violentissima repressione per rimanere in sella. Altri ancora infine, potendo disporre di ingenti risorse economiche hanno placato le reazioni ed evitato un confronto diretto con i movimenti di protesta attraverso concessioni e promesse.
In questo contesto, un ruolo non meno determinante è stato giocato – non certo per la prima volta – dalle grandi potenze mondiali che hanno freneticamente mosso le proprie pedine in uno scacchiere caratterizzato da incertezza ed instabilità. Francia e Gran Bretagna, riproponendo la coalizione coloniale già sperimentata all’epoca della guerra di Suez nel 1956, hanno spinto gli insolitamente riluttanti Stati Uniti ad un determinante intervento militare in Libia. La Russia ha difeso con vigore il regime di Assad, con la precisa intenzione di garantirsi il suo ultimo presidio fisso nel Mediterraneo. La Cina ha invece cercato un più stretto legame con il nuovo Iraq sciita di Nouri Kamal al-Maliki, innervosendo la più importante potenza regionale nell’area, l’Arabia Saudita, e soprattutto allarmando gli Stati Uniti, che hanno defenestrato il “democraticamente eletto” primo ministro iracheno. Un elemento ha però accomunato tutti questi interventi: un’odiosa propaganda volta a legittimare l’utilizzo reale, o semplicemente minacciato, dell’uso della forza attraverso finalità umanitarie oppure di diffusione della democrazia. Il persistente appoggio francese al dittatore tunisino Ben Ali è risultato, al riguardo, il più clamoroso esempio della strumentale retorica occidentale.
Quello che emerge, oltre ad una situazione ancora oggi altamente instabile, è un quadro profondamente mutato rispetto alle tradizionali letture che venivano date del Medio Oriente e del Nord Africa. I recenti movimenti di protesta hanno infatti segnato una cesura forte nella storia di una regione tradizionalmente rappresentata come supina e scarsamente propensa a dar vita a forti manifestazioni di protesta per le indicibili diseguaglianze sociali e per gli illiberali regimi al potere. Tutto questo è stato possibile grazie a straordinari movimenti sviluppatisi dal basso, al di fuori delle canoniche strutture politiche e lontano dai tradizionali canali rappresentativi. La loro determinazione è stata grande, il seminato vastissimo ma il raccolto scarso. Ripercorrendo quanto successo cercheremo di capire come mai le vecchie élites al potere, abbandonata l’anatra zoppa di turno al suo triste destino, sono riuscite a piegare ed utilizzare a proprio vantaggio quei movimenti che teoricamente ne mettevano in discussione la sopravvivenza. Questo ci porterà a verificare quanto sia importante per gli sfidanti poter disporre di strutturate e stabili organizzazioni, decisive per evitare che nelle fasi di transizione le – spesso tanto amate a sinistra – acefale ed orizzontali coalizioni siano esautorate da quelle forze che mantengono le leve del potere. Insomma, occorrerà una speculazione critica su una ricorrente tematica per tutte le forze antisistema che deve trarre forza e legittimità dall’analisi empirica di quanto successo sul campo. Proprio per tale ragione, il nostro percorso non potrà che muovere da una descrizione di quanto successo. Un’esigenza che assume oggi, almeno ai nostri occhi, una grande centralità per contrastare quella generale tendenza a rappresentare quanto succede nella regione come un semplice e banale problema securitario.
In questo i media mainstream hanno giocato un ruolo tanto centrale quanto negativo. Infatti, prima hanno romanzescamente descritto le proteste e poi si sono quasi dimenticarsi di quanto stava accadendo a poche centinaia di chilometri dalle coste italiane. La confusione risultante è stata grande. L’ultimo limpido esempio di quanto diciamo è stato fornito da Roberto Saviano. Lo scrittore napoletano, in un articolo nel quale mirava a dileggiare i propri concittadini che stavano contestando i vertice della Bce riunitisi nel capoluogo partenopeo, annoverava ancora tra le rivoluzioni in corso l’Egitto. Paese colpito invece, come sarebbe necessario sapere quando se ne parla, da un colpo di stato guidato dai militari il 3 luglio 2013 contro il presidente eletto Mohammed Morsi e da una conseguente profonda deriva autoritaria. Insomma, ci sembra proprio che l’iniziale infatuazione che molti hanno condiviso per le cosiddette rivoluzioni di twitter (sic!) ed il tradizionale disinteresse italico per le questioni internazionali abbiano creato un mix straordinario di pressapochismo ed inconsapevolezza.
Apriamo quindi queste riflessioni critiche chiedendoci quale sia stato il carattere distintivo delle cosiddette Primavere Arabe. La nostra risposta è che i vasti e disomogenei movimenti di protesta che si sono sviluppati in quella regione sono stati in primo luogo una risposta di forte critica ed avversione nei confronti dell’autocrate di turno. Le rivendicazioni politiche avanzate dalle piazze erano infatti, almeno inizialmente, molto limitate. La capacità di trasformarsi in movimenti con un più alto grado di criticità è stato in gran parte il portato della chiusura ed ottusità della coalizione dominante, risultata in molti casi assai meno coesa di quanto era lecito attendersi. Proprio per questo, parlare come molti hanno fatto di rivoluzioni sociali non sembra corretto sia per gli esiti finali ai quali sono approdate queste proteste sia per le premesse che le hanno generate. Le Primavere Arabe, condividendo in questo molti aspetti con altri movimenti di contestazione che si sono diffusi in altre regioni del globo, hanno visto i manifestanti più interessati a criticare il modo in cui il sistema lavora, che il sistema stesso. Per dirla diversamente, il problema non era considerato tanto il sistema capitalista in sé, quanto piuttosto l’arroganza e la supposta incapacità dell’élite al potere di ben amministrare le risorse a disposizione. Date tali premesse, aspettarsi esiti diversi era francamente impossibile.
Le proteste scoppiate sul finire del 2010 in Tunisia e rapidamente diffusesi ad altri stati della regione, hanno colto molti studiosi e specialisti d’area di sorpresa. Questo probabilmente è stato il portato di un’eccessiva attenzione per la capacità di resilienza dei regimi autoritari. Attenzione che ha finito inevitabilmente per oscurare la politica dal basso. Al contrario, quello che proporremo nei nostri approfondimenti sarà una prospettiva in grado di tenere di conto, allo stesso momento, sia della piazza sia del palazzo. Ci sembra infatti che qualsiasi tentativo di spiegare altrimenti quanto è successo, sia destinato a riscuotere scarso successo. Dal nostro punto di vista, l’irrompere di vaste manifestazioni di protesta sullo scenario politico è sempre una risposta ad una cattiva condotta, reale o presunta che sia non importa, delle élites al potere. Su questo anche un inguaribile spirito rivoluzionario come Lenin ha sovente messo in guardia quanti immaginavano come supremo il potere delle masse coscienti e politicizzate. I tentativi rivoluzionari possono nutrire speranze di successo solo quando l’élite al potere, cosciente che la struttura di potere presente non è più ritenuta efficiente, si trova profondamente divisa al suo interno su quale siano i cambiamenti necessari da introdurre.
Tale prospettiva spingerebbe quindi ad un primo focus sulla coalizione dominante, oppure nei termini precedentemente utilizzati, sulla politica di palazzo. Al tempo stesso però, l’emergere di elites contestative, troppo forti per essere sconfitte definitivamente e troppo deboli per sostituirsi al segmento di coalizione dominante che tiene realmente in mano le redini del potere, è probabile che resti celato fino a quando non si palesa un’occasione ritenuta politicamente propizia dalle elites contestative stesse. Questo in genere accade quando il regime al potere è sfidato da vasti e conflittuali movimenti di protesta. In tal senso, una parte del palazzo deliberatamente utilizza la piazza per perseguire i propri fini. In alcuni casi l’élite riesce nel proprio tentativo, in altri invece finisce per perdere il controllo del processo che deraglia verso esiti imprevisti. In questo secondo caso emergono le rivoluzioni sociali, ovvero violente e rapide trasformazioni degli assetti istituzionali e delle strutture socio-economiche di uno stato. Da quanto detto dovrebbe risultare semplice intuire che la storia non ha inizi e fermate. Per questo scegliere un punto di partenza per il proprio racconto è sempre una scelta arbitrale. Noi al riguardo abbiamo deciso di partire dalle piazze.
I movimenti che abbiamo visto marciare in molte capitali della regione mediorientale, hanno tratto forza e legittimità dalla situazione sociale ed economica presente. Tuttavia, gli indicatori che misurano la disoccupazione giovanile, la povertà, oppure il divario di reddito tra una ristrettissima maggioranza e la quasi totalità della popolazione, non sono in grado di spiegare tutta la storia. Certamente, un reddito pro-capite medio di oltre 70.000 dollari annui e nessuna forma di tassazione, condizioni presenti in Qatar, sono incentivi estremamente allettanti per indurre alla quiescenza. Al polo opposto rimane vero che il quasi dieci volte più ricco Bahrain, la comparazione è qui con il Marocco, e la non poverissima Tunisia, hanno mostrato uno scontento sociale decisamente maggiore di quello di altri stati più poveri. Insomma, appare evidente come la depressione dei valori socio-economici sia condizione necessaria, ma da sola non sufficiente, per spiegare quanto successo: a questo si dovranno aggiungere le opportunità politiche disponibili, le strutture di mobilitazione presenti e la formazione di un forte sentimento di identità tra i manifestanti. Un frame teorico che potrà essere utilmente utilizzato per ogni paese preso in considerazione.
Le cosiddette Primavere Arabe hanno investito dieci paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Quattro di questi hanno mostrato manifestazioni di media intensità: Kuwait, Algeria, Marocco, e Giordania. In tutti questi casi, l’élite al potere è riuscita a sedare il malcontento montante e a restare in sella. Altri sei paesi sono invece stati investiti da serie minacce per la stabilità dei regimi autoritari in carica. Quattro di questi hanno inoltre visto la caduta di dittatori che erano rimasti al potere per decenni: Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia, e Saleh in Yemen. Al contrario, in Bahrain la monarchia al potere, anche grazie all’aiuto delle truppe saudite, ha violentemente represso le oceaniche manifestazioni nella capitale Manama. La situazione siriana è poi, come peraltro ampiamente noto, ancora più complicata e disperata. Già da questa prima fotografia, dovrebbe apparire immediatamente evidente come i frutti raccolti dai movimenti di contestazione sono stati molto limitati. Il quadro diventa ancora più fosco però quando l’attenzione si sposta sui quattro positivi casi di caduta di autocrati al potere.
In Egitto, come già ricordato, il colpo di stato dei militari ha rimesso indietro le lancette della storia ad un passato che nei mesi successivi alla protesta di Tahrir sembrava definitivamente archiviato. In Libia la strisciante guerra civile è ormai sfociata in conflitto aperto tra le forze golpiste di Khalifa Haftar, uomo della Cia sul campo, sostenuto da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, e l’organizzazione islamista di Omar al-Hassi, spalleggiata dal battitore libero Qatar. In Yemen abbiamo registrato nel corso delle ultimissime settimane, in rapida sequenza, una recrudescenza dei conflitti settari tra sciiti e sunniti, un tentavo insurrezionale di rimuovere la classe dirigente ampiamente implicata nella gestione del potere pre-2011, un contro colpo di stato guidato dai fedelissimi di Saleh, e la presa del potere da parte del movimento sciita degli Houthis. Speranze più rosee permangono solo in Tunisia, anche se la possibilità di trasformare la protesta contro Ben Ali in una rivoluzione sociale sembra svanita. Insomma, per dirla à la Gramsci, il massimo portato delle Primavere Arabe è stato una quasi riuscita rivoluzione passiva, ovvero un mero cambio di regime che non intacca le esistenti strutture socioeconomiche. Nei prossimi appuntamenti indagheremo le ragioni di questi deludenti esiti nei cinque paesi nordafricani.
Gianni Del Panta
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