Periferie: guerra a bassa intensità

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Le recenti uccisioni da parte della polizia americana confermano che è in atto nelle periferie una guerra sanguinosa e a bassa intensità. Il concetto di periferia ha subito nel corso degli ultimi decenni una trasformazione ed è ormai abbastanza lontano da una denominazione puramente spaziale sulla base del significato originario, comprendendo anche morfologia del costruito, aspetti sociali, culturali, economici, sfera del diritto.

La globalizzazione liberista provoca una mutazione nei campi più disparati, ma non può non manifestarsi e articolarsi nella città in forme concrete E’ difficile ad esempio, non mettere in relazione il moltiplicarsi di quei quartieri residenziali protetti da fili spinati e aperti solo a proprietari-residenti, scelti per cooptazione con la tendenza delle minoranze ricche a non voler più vivere accanto agli altri. In tal modo, l’appartenenza a uno spazio è contemporaneamente appartenenza allo stesso status che ne consente l’accesso.

Le città-fortezza negli Usa una volta erano fenomeno limitato ai miliardari, ora sono in piena esplosione nella middle-class: già alla fine degli anni Novanta più di 30 milioni di persone risiedono in aree governate da associazioni comunitarie private. Si tratta di una porzione di territorio in cui una comunità, spesso caratterizzata dall’omogeneità professionale dei suoi ricchi membri, è dotata di propri servizi, scuole, e soprattutto proprie regole “condominiali”. L’area è quasi sempre recintata, sorvegliata elettronicamente, pattugliata giorno e notte dalla vigilanza privata, esempio vivente di come nella forma che assume una città oberdini una sua porzione, si materializzano contenuti e idee di relazione.

Come nelle parole si depositano le conoscenze, i modi di pensare e i rapporti sociali, indipendentemente dal grado di consapevolezza, così nelle forme della città si esprimono la cultura nel suo complesso ed i rapporti fra classi. Parafrasando Pasolini, la realtà fisica di una città o di una periferia è un discorso che insegna dove si nasce, in che mondo si vive, come si deve concepire la propria vita, esprimendo così una condizione e concezione sociale. Negli Usa e in Europa, si vorrebbe che venisse riconosciuto legislativamente una sorta di “diritto alla recinzione”, la possibilità per chiunque di isolarsi, segregandosi in un proprio spazio puro, disinfestato una sorta di autonomismo oligarchico.
L’altra faccia della città liberista è costituita dalle periferie, “terre oscure urbano-industriali” (Mike Davis) dell’Occidente postfordista nelle quali l’incuria urbana è diventata l’equivalente della guerra. Non è un paragone metaforico poiché la politica delle amministrazioni Nixon e Ford, ad esempio, ha fatto demolire a New York circa 300.000 unità abitative, quasi quanto quelle spianate dalla Luftwaffe nel 1940-41. Questa distruzione ha l’obiettivo politico di emarginare le minoranze etniche e sociali, accatastate in quartieri con tassi di criminalità e servizi, com’è ovvio, proporzionalmente inversi.

Il sistema economico, politico, culturale, antropologico del liberismo impatta pesantemente sulla città, che ha nelle periferie, nei ghetti e nel “pianeta degli slum” la morfologia della configurazione razziale e classista. Le rivolte urbane del ’65 e del ’92 negli Stati Uniti, la palpabile vena di razzismo e classismo che emerge sia nei giorni in cui l’uragano “Katrina” sommerge New Orleans, la fiammata di violenze nelle periferie francesi, e in molte città del Regno Unito dell’agosto 2011, la rivolta di Villa Literno e Castel Volturno, i recenti fatti di Ferguson e di Roma dimostrano come, al di là di un proprio specifico, le varie sommosse hanno il loro nodo nella disoccupazione di massa, nello smantellamento dei servizi pubblici, nella segregazione urbana, nella discriminazione professionale, nella stigmatizzazione religiosa e culturale oltre che nel razzismo istituzionale e nella brutalità poliziesca quotidiana: le rivolte sono figlie del liberismo. Ma vi è una sorta di omertà nazionale nei confronti della questione sociale che viene trasformata in questione d’ordine pubblico mentre le rivolte urbane sono affrontate come un fatto criminale.

In generale si creano così nuove periferie attraverso la saldatura di un regime di apartheid nei confronti delle frontiere esterne con quello che si installa nel cuore delle città: è nella città infatti che si stanno costruendo delle frontiere interne in una configurazione razzista e classista. I luoghi carichi di ingiustizia e di violenza sistemica trovano la massima espressione nel “pianeta degli slum”, ossia nelle periferie delle megacittà post-industriali del mondo, la cui popolazione cresce di 25 milioni all’anno per effetto del decentramento produttivo nella continua ricerca di bassi salari e di una legislazione del lavoro pressoché nulla. Gli slum sono il contraltare delle Città globali, sono i punti di intersezione di quella stessa economia mondiale, dove regna sovrana la povertà, volto del postfordismo, dove è in atto una guerra a bassa intensità contro i poveri, scatenata dalla Banca Mondiale, Fondo Monetario internazionale, Wto, ecc.

Il liberismo fa planare sullo spazio urbano una pesante minaccia: le città hanno la prerogativa di aumentare le tensioni poiché sono il luogo dove prospera la più sfacciata speculazione fondiaria ed edilizia. Da qui l’importanza di libri come Le città fallite di Paolo Berdini che ci aiuta a comprendere che l’apartheid metropolitano è il momento rivelatore di una situazione nella quale milioni di persone vivono in flagrante contraddizione tra l’universalismo della cittadinanza e la sordida realtà dell’intima relazione tra sviluppo capitalistico, rendita metropolitana, rendita finanziaria e corruzione.

*Aldo Ceccoli, Libera Università Ipazia

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Aldo Ceccoli

Aldo Ceccoli è uno degli animatori della Libera Università di donne e uomini "IPazia"

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