Liberarsi dal turismo o dal capitalismo?

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Il capitale, lo sappiamo, sposta merci e persone su scala globale. Le prime hanno sapori e forme diverse: dal kiwi neozelandese al mandarino argentino, dall’ultimo modello del tanto amato iPhone prodotto in Cina nelle fabbriche-galere della Foxconn alla Fiat 500L assemblata nello stabilimento serbo di Kragujevac dove si lavora per 300 euro al mese. Le seconde, al contrario, salgono agli onori – si fa per dire – delle cronache per le tragedi umane di cui il Mediterraneo è triste testimone oppure per la sempreverde tematica “criminalità e sicurezza” legata allo straniero. Tutto procede insomma in questo campo secondo tradizione cattolica: pietà e stigmatizzazione infatti, si avvicendano e si saldano insieme continuamente.

Meno – molto meno però – si parla dei brevi e volontari spostamenti delle persone che rientrano sotto la generica dizione di turismo. In genere, rispetto a questo fenomeno troviamo due posizioni.

turisti-firenze-2Da un lato, c’è chi sottolinea la necessità di difendere e potenziare questo settore. Indovinarne il motivo non è poi tanto difficile: per quanto la produzione di valore avvenga solamente nei settori direttamente produttivi questa può essere, e nei fatti lo è, spazialmente redistribuita.

In parole povere, essere i profumatamente pagati organizzatori del prossimo matrimonio indiano a Firenze sembra essere – al netto dell’iper-autosfruttamento al quale probabilmente vi sottoporrete – comunque un ottimo affare. Sono quasi certo infatti che nessuno vi rinfaccerà mai di essere i parziali accaparratori – indirettamente, si intende – del plusvalore estratto ai lavoratori che faticano e sudano per il rampante figlio del tycoon di turno. Al contrario, privatizzerete momentaneamente pezzi di città con il plauso degli espropriati – certi che i pochi soldi ricavati saranno di beneficio per la comunità tutta (sic!) – ed assumerete per qualche giorno giovani volenterosi pagandoli una miseria con i ringraziamenti degli sfruttati e di chi standosene seduto sul proprio divano esclamerà trionfante che “gli indiani hanno portato lavoro in città”.

Generalizzando oltre il banale esempio del matrimonio suddetto, una schiera infinita di persone nella nostra città vampireggia sulla parte viva del proletariato mondiale: albergatori, guide turistiche, tassisti, venditori di souvenir e cianfrusaglie, ristoratori, squallidi ambulanti, baldanzosi bottegai, e finti raffinati commessi di boutique alla moda…solo per citare alcuni esempi di una lista lunghissima. Evidenziare l’esistenza di sfruttati e sfruttatori in questo intricato calderone, tratteggiare la presenza di classi dove l’economia mainstream vede macro-settori sarebbe compito delle forze di sinistra, ma questa, come direbbe qualcuno, è un’altra storia.

Al polo opposto troviamo invece coloro che sottolineano tutte le criticità di un eccessivo flusso turistico, evidenziandone soprattutto i guasti per il tessuto urbano e sociale. Questi vanno dal costante abbandono del centro storico da parte della popolazione autoctona alla sua trasformazione in un’immensa vetrina linda e pulita, dalla chiusura di storiche attività e botteghe alla moltiplicazione di esercizi commerciali che si rivolgono esplicitamente ai non-residenti.

Ricordando una scena di Midnight in Paris, fumanti bar ritrovo di stravaganti intellettuali lasciano tristemente il posto ad anonime lavanderie a gettoni. In apparenza, non sembra difficile simpatizzare con chi difende queste posizioni. Per quanto infatti possiate sentirvi gli ultimi indiani della riserva, non entrare a prendere un caffè in un all-white bar con alti sgabelli e maggiorazione per sorseggiare la miscela al tavolo, oppure fantasticare mentre si passeggia – parafrasando una nota opera di Rousseau – piuttosto che perdersi nella ripetitività delle scintillanti vetrine sono forme altre e più alte – per quanto banali – di restare umani e vivi.

2057351-9Ciò detto, non si può non riscontrare una grossa contraddizione nei sostenitori di questa seconda vulgata. Prendendosela con l’epifenomeno – il turismo – mancano di coglierne le cause ultime: la costante necessità del capitale di valorizzarsi. Questa ha determinato l’affermazione di un apparato ideologico molto esteso che ci fa avvertire come cool l’incessante spostarsi, l’entrare nei musei per quanto nessuno o quasi sia interessato a quello che c’è dentro, il trascorrere interi pomeriggi in anonimi centri commerciali a fare compere, l’accaparramento selvaggio di souvenir di dubbio gusto che finiranno a prendere polvere in qualche scatolone in garage.

Alcune criticità sono certamente legate alla specifica forma di turismo che si è andata affermando, quella che per intenderci possiamo definire “mordi e fuggi”. Tuttavia, la soluzione ultima non5 risiede nel sostituire il Gelato Festival con qualcosa di meno imbarazzante – cosa che comunque rimane auspicabile. La verità è che visitare una città, correndo da una parte all’altra dell’urbe, stipando la propria agenda con tutto quello che è imperdibile – garantito, c’è scritto anche sulla guida – è di per sé un non-senso. Le città non vanno visitate, ma vissute. Ci si deve risiedere, non ci si deve passare. Ma questo, oltre a denaro, richiede tempo. Proprio quella risorsa sulla quale l’esigenza e la disciplina della produzione capitalistica impongono un ferreo controllo. E quindi non ci resta che partire spesso, stare poco, essere turisti fintamente felici nelle città vetrine che disprezziamo. Altrimenti, possiamo iniziare a come sbarazzarsi di questo sistema sociale di produzione. Ma come già ricordato precedentemente, questa è un’altra storia.

E allora – anche per non lasciare con il solito finale roboante, ma che può sembrare poco pratico ai molti – mi permetterei di chiudere con un consiglio. Come mi ha svelato un mio caro amico c’è un solo modo per gustarsi una città quando si ha poco tempo: restare comodamente seduti ad un tavolino di un bar intenti ad assaporare odori e sapori di chi la città la vive, osservando così la fretta altrui. Anche solo per contrasto – mi garantisce l’amico, ma dato che non ho ancora provato non posso fare lo stesso con voi – sembrerà di gustarsi appieno la propria girata fuori porta.

*Gianni del Panta è un attivista, studioso di Scienze politiche.

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Gianni Del Panta

Gianni Dal Panta, studioso e attivista politico, è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione. Da piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).

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