Liquidate le archistar, obiettivo polemico di Contro l’architettura (2008), Franco La Cecla cambia ora di scala. Nel mirino, la gestione urbana neoliberista e il pensiero razional-economicistico ad essa sotteso.
In Contro l’urbanistica l’antropologo palermitano indaga, dissezionandolo, il settore della disciplina che – costola dell’economia finanziaria – riveste un ruolo ancillare nei confronti dei «profeti della globalizzazione». Un’urbanistica che, smesse le vesti progressiste, dissacra e mercifica la città assimilandola a mero fenomeno economico improntato a fast policies, competitività, bigness; che procede dal welfare state al real estate; che ignora i corpi e le pratiche di riappropriazione e addomesticamento degli spazi; che si fonda su un’idea di città «assolutamente anti-sociale». Disciplina «contraria alla dimensione dell’abitare», in mano ad esperti dal «colpo di genio riformatore» che risolverebbe i problemi urbani globali; «professione debilitante» (avrebbe detto Illich) il cui linguaggio «per iniziati» degrada il cittadino-abitante a utente di infrastrutture e nega alla civitas «ogni connotazione di vitalità autonoma», ogni virtù autopoietica.
Nell’età neocapitalista, l’urbanistica (non tutta, assicura La Cecla) impiega i propri talenti nella previsione dei “trend”, si riduce a tutor dell’economia immobiliare, diventa «“mezzo politico” capace di mediare tra le forze del capitale territoriale», è funzionale a trasformare città e territorio in entità da giocare in borsa. “Contrattata”, in deroga, extrapianificatoria, la tecnica del planner alligna tra la debolezza politico-amministrativa e la miopia della speculazione finanziaria. Determina i disastri che Paolo Berdini denuncia da anni.
“Creative” e “smart cities” sono le invenzioni «più brillanti e più povere di contenuto» dell’urbanistica «ossessionata dal marketing». Nelle prime, il “brand” ridicolizza l’autorappresentazione urbana: il logo diventa simbolo vuoto, utile alla competizione globale di città che mirano a inserirsi in classifiche di attrattività internazionale; città nelle quali i grattacieli diventano marchio, eludendo «le faccende serie di invivibilità delle città, di esaurimento delle risorse, di surriscaldamento del pianeta». Torri e grandi eventi – scriveva l’autore nel 2008 – sono «un vorace aspirapolvere» messo in campo per trasformare «in pura immagine i servizi che mancano, la residenza pubblica che non viene costruita».
Le smart cities – città “furbette” più che intelligenti – materializzano «l’idea keynesiana dell’autocontrollo del capitalismo e del grande mercato». Città informatizzate nelle quali «gli algoritmi promettono la soluzione appropriata e neutrale per ogni problema». La loro gestione è demandata a macchine intelligenti. «Le smart cities richiedono uno stuolo di esperti a cui affidarsi per traffico, criminalità, ambiente, partecipazione. Ci può entrare di tutto, l’importante è essere convinti che le città sono nuovamente machines à habiter».
Ma qualunque sia l’aggettivazione, l’idea di città oggi imperante è Megalopoli: mostro dalle virtù autoregolative al pari di quel Mercato che le è modello. Le statistiche parlano di un mondo urbano, processo inarrestabile finché «ai contadini del mondo verrà impedito di vivere sulla propria terra». La «città mondo», premiata dagli organismi internazionali, diventa uno degli indici di sviluppo delle nazioni benché essa concentri la povertà mondiale e sia rifugio, in slums senza fine, per profughi derubati dal landgrabbing, cui l’agroindustria nega il naturale diritto alla campagna.
L’impossibile fertilità di una conurbazione senza terra, ossimoro insito nella definizione di urban prosperity che l’Onu ha fatto propria, è risibile al pari di quella di resilient city inverantesi nei “grattacieli verdi” coperti da una coltre vegetale che anticipa la reimmissione postuma del cemento armato nei cicli naturali. Spazi disincarnati, impermeabili all’evidenza di corpi «tornati alla ribalta» (dalle primavere arabe agli accadimenti stambulioti) con il potere «fortissimo che essi hanno: il potere di chi sa “stare”».
Corpi che, asserisce l’autore di Mente locale (1993), entrano in «risonanza» con i luoghi, in un gioco imitativo, gestuale e prossemico, che diventa arte dell’“essere di un posto”. Esercizio cui La Cecla si dedica in pagine monografiche dedicate a “città viste”, dalla prosa sapida e immediata, che accompagnano il lettore in ambienti dove i sensi sono sollecitati e tenuti in allarme. Traversata antropologica nel corpo delle città del mondo, dalla quale la disciplina urbanistica può uscire arricchita.
Franco La Cecla, Contro l’urbanistica. La cultura delle città, Einaudi, Torino 2015. pp. 158 € 12.00.
*Ilaria Agostini, urbanista, attiva in perUnaltracittà