Contratti diversi da quello “comune”
Alla negazione della stabilità di cui si è detto nella prima parte di questo articolo (http://goo.gl/sqlXXm), fa riscontro la pesante riduzione della durata del rapporto di lavoro attraverso molteplici strumenti, tutti previsti se non incentivati dalla legge. La frammentazione è perseguita attraverso varie tipologie: contratti a termine, di somministrazione, intermittenti, accessori. Viene portata a ulteriore effetto la liberalizzazione del termine apposto al contratto, malgrado dichiarazioni di preferenza per il lavoro a tempo indeterminato, in omaggio solo formale alla direttiva europea (n.70 del 1999).
Infatti, il contratto può essere a termine senza bisogno di enunciare ragione alcuna, può durare fino a 36 mesi, con la possibilità che, nel periodo dato, si verifichino ben cinque proroghe di sei mesi l’una, ciò che equivale a un periodo di prova di tre anni.
Anche il contratto di lavoro in somministrazione, quello che consente all’imprenditore di ricevere da agenzia autorizzata personale da adibire a qualsiasi mansione inerente il ciclo produttivo – cancellati completamente i divieti di interposizione di mano d’opera della legge 1369/60, già abrogata – non prevede la sussistenza di alcuna ragione giustificatrice. Viene meno qualsiasi razionalità causale, vale solo quello che si trova in mente domini.
Alla frantumazione dei periodi lavorati fa riscontro anche la frammentazione dell’orario attraverso l’uso indiscriminato del lavoro part time, che prevede la possibilità di orario elastico nella collocazione quotidiana o settimanale e nella durata (lo straordinario è consentito), sempre a discrezione padronale.
Altra tipologia di frantumazione lavorativa presenta il contratto di lavoro intermittente, che si applica in particolare ai settori del turismo, spettacolo, pubblici esercizi e che può anche prevedere la possibilità per il lavoratore di rendersi disponibile, dietro compenso, per prestazioni a chiamata.
Fattispecie di chiusura è il contratto di lavoro accessorio retribuito con voucher. Introdotto nel 2003 al dichiarato scopo di fa emergere il lavoro sommerso (o nero), era previsto originariamente per categorie vessate dal mercato (donne, immigrati, disabili…), ma si è esteso, nel tempo, a tutte le categorie e i settori produttivi. Non a torto, dato che le vessazioni del mercato hanno progressivamente toccato tutti.
La legge delega (183/2014) ne prevede l’applicazione a tutte le attività discontinue e occasionali accessorie al lavoro principale in vari settori produttivi. In effetti, gli ambiti in cui il ricorso a questo tipo di lavoro è autorizzato sono i più vari e disparati (servizi, turismo, ristorazione, agricoltura, attività commerciali, anche industria e pubblico impiego) con un tetto retributivo annuo che arriva a €.7.000,00 (rivalutabili annualmente) pro capite. La copertura assicurativa (INPS e INAIL) è minima, quindi questa forma di rapporto produrrà per il futuro pensioni quasi inesistenti, mentre per il presente non sono previste né indennità di malattia o di maternità, né ferie né trattamento di fine rapporto.
Al tema della conciliazione fra esigenze esistenziali e lavorative è dedicato apposito decreto (80/2015) che non innova le regole delle precedenti leggi se non modestamente in termini quantitativi e non vale certamente a scardinare il tradizionale privilegio riservato alla mano d’opera maschile e neppure a mutare di segno il rapporto fra i sessi in termini di ripartizione del lavoro di riproduzione sociale.
Assai modesto anche il congedo di tre mesi previsto per le donne vittime di violenza inserite in un percorso di protezione tutto istituzionale: non il tempo necessario alla loro sicurezza, solo l’ elemosina di tre mesi di retribuzione, qualunque sia il pericolo che le sovrasta.
Malgrado fosse previsto dalla legge delega (n.183/ 2014), nessuno degli otto decreti delegati fissa un salario minimo applicabile al lavoro subordinato.
Considerata la qualità della normazione con la quale ci confrontiamo, non vi è nulla di cui dolersi, anche perché la giurisprudenza ha da tempo provveduto a parametrare la retribuzione ai minimi fissati dai contratti collettivi nazionali di settore o di settori contigui, applicando l’art. 36 della Costituzione.
Questa tutela avrebbe semmai potuto essere estesa alle prestazioni rese da coloro che, non formalmente subordinati, sono economicamente dipendenti dal lavoro che svolgono in favore di terzi.
Non vi era, tuttavia, motivo di pensare che un legislatore tanto incline alle violazioni costituzionali potesse mostrarsi bene orientato nella questione retributiva. (continua)
*Maria Grazia Campari, avvocata esperta in diritto del lavoro
Maria Grazia Campari
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