Ormai da mesi, ogni settimana i titoli dei giornali riportano, più o meno allarmati, notizie e dati sul dilagante utilizzo dei voucher nell’economia italiana. Da ultimo, l’11 gennaio scorso, è stata diffusa la notizia dell’approvazione, da parte della Corte Costituzionale, di un referendum proposto dalla CGIL che intende abrogare lo strumento dei voucher (approvazione, va ricordato, parallela all’accettazione di un secondo quesito, relativo agli appalti nella pubblica amministrazione, e alla negazione di un terzo quesito, che verteva sull’articolo 18, decisione, quest’ultima, che ha suscitato non poche perplessità, sul piano giuridico prima ancora che su quello politico).
Consideriamo la battaglia contro i voucher fondamentale, per questo a Firenze, il 2 marzo alle ore 18.30, inaugureremo proprio con un’iniziativa sui vouchers la Camera Popolare del Lavoro di via de’Pilastri 43/r. Un luogo di incontro e dibattito, ma anche di sostegno concreto e di organizzazione politica per TUTTI i lavoratori, a partire da quelli del centro di Firenze, per i quali il precariato è una costante di vita quotidiana.
Chi li ha inventati e quanti sono?
I voucher sono stati introdotti nel 2003 dalla legge Biagi (governo Berlusconi) e destinati ad attività “di natura esclusivamente occasionale”, poi sono stati resi operativi solo cinque anni dopo, con il governo Prodi, che ha anche previsto un limite economico di 5.000 euro per lavoratore nei confronti di un singolo committente. L’ambito di applicazione era limitato: i lavoratori potevano essere solo studenti o pensionati e l’unico settore in cui potevano essere utilizzati era quello delle vendemmie di breve durata. Successivamente sono stati estesi a tutte le attività agricole.
Con la legge Fornero del 2012 (governo Monti) i voucher sono stati estesi a tutti i tipi di lavoro e di lavoratore. Non a caso, il boom dei voucher ha cominciato a farsi registrare proprio dal 2012/13.
L’ultimo passo nella direzione di universalizzare i buoni-lavoro, è stato compiuto dal Jobs Act, che nel 2015 ha portato a 7.000 euro netti annui il tetto massimo di compenso ricevibile da un lavoratore, e contemporaneamente ha stretto ancora di più sull’utilizzo di altre forme contrattuali (ad esempio, con l’eliminazione quasi completa dei Co.Co.Pro.).
Il Jobs Act agisce anche su alcuni aspetti che negli anni precedenti erano risultati controversi, tra le altre cose vietando l’utilizzo dei voucher negli appalti, ma nel complesso non fa altro che approfondire il solco tracciato dalle liberalizzazioni precedenti, sancendo la trasformazione del voucher da ipotetico strumento di emersione del lavoro nero e di integrazione di soggetti marginali nel mercato del lavoro a effettiva modalità di pagamento universale, e portandoci così dritti dritti agli oltre 133 milioni di voucher venduti nel 2016 (9,5 milioni nella sola Toscana), rispetto ai 115 dell’anno precedente e ai 69 del 2014.
Cosa sono? Cosa comportano?
Consideriamo, ora, cos’è un voucher: si tratta di un buono dal valore lordo di 10 euro e netto di 7,5 euro. I 2,5 euro di trattenuta, corrispondenti al 25 % del totale, sono ripartiti tra quota assicurativa INAIL (0,70 Euro/ 7%), versamento dei contributi nella gestione separata INPS, che vengono accreditati sulla posizione individuale contributiva del prestatore (1,3 euro/ 13%) e spese di gestione dell’INPS, che eroga il buono 0,5 euro / 5%). Esistono anche buoni del valore di 20 e 50 euro, a cui si applicano le stesse proporzioni, ma il loro uso è estremamente scarso.
Emergono subito alcuni dati interessanti: di fatto, con i voucher viene introdotta una sorta di salario orario minimo. Se la normativa non lo indica espressamente, essa qualifica però i buoni come orari, sottintendendo che a un’ora di lavoro deve corrispondere almeno un voucher. Se possiamo dunque immaginare rari e fortunati casi in cui a un’ora di lavoro corrispondano più voucher, di fatto i 7,5 euro netti si qualificano come paga minima per un’ora di lavoro, al di fuori di qualsiasi CCNL o contratto integrativo.
Oltre alla paga, c’è poco altro.
Senza dubbio, infatti, il 13% di contributi è meglio, per un lavoratore, rispetto allo 0 di lavoro in nero, ma per il datore di lavoro è un incomparabile vantaggio, a fronte del 29% circa previsto per il lavoro subordinato e del 23,72% (o del 17% per i lavoratori titolari di pensione diretta o indiretta o per gli iscritti ad altre forme pensionistiche obbligatorie) previsto per il lavoro a progetto, per le collaborazioni occasionali e per l’associazione in partecipazione.
La riduzione degli oneri economici prevista per il lavoro accessorio va insieme ad un certo alleggerimento degli oneri gestionali. Infatti, il committente non dovrà consegnare al lavoratore alcuna lettera/contratto di lavoro, non dovrà effettuare alcuna comunicazione obbligatoria (instaurazione, proroga o cessazione) ai servizi per l’impiego, non avrà la necessità di inserire alcuna registrazione nel Libro Unico del Lavoro, non avrà l’obbligo di elaborare alcun prospetto paga per i compensi corrisposti al lavoratore e non sarà necessario presentare alcun tipo di denuncia agli Istituti, né tanto meno effettuare versamenti contributivi o di altra natura.
A questo va inoltre aggiunto il 5% che trattiene l’INPS per il servizio: una quota che il lavoratore non percepisce in alcun modo, né direttamente né indirettamente. Ma il problema maggiore sta alla radice: oltre agli scarsi contributi e all’assicurazione, i voucher non prevedono niente. Niente maternità, niente ferie o malattia, niente differenze di mansioni o scatti di anzianità. Tutti gli istituti contrattuali conquistati nel corso di decenni di lotte sociali e sindacali…semplicemente scompaiono! Rimane quasi unicamente il puro rapporto di lavoro, che neanche è riconosciuto come tale.
Il voucher, infatti, non è un contratto: non sancisce in alcun modo il rapporto di subordinazione tra un datore di lavoro e un lavoratore, e di conseguenza la “responsabilità” del primo nei confronti delle condizioni globali di vita del secondo, che prende la forma degli istituti sopra citati (cosa che, va ricordato, non deriva dalla buona volontà delle aziende, ma principalmente dal conflitto sociale dell’ultimo secolo e mezzo). Tramite i buoni-lavoro, gli “utilizzatori” possono derogare in peggio ai più elementari diritti dei lavoratori. E, inoltre, riescono a indebolire notevolmente la forza collettiva di lavoratori e lavoratrici, che si trovano frammentati e isolati, in condizioni in cui mobilitarsi per rivendicare i propri diritti risulta molto più difficile. (Continua)
*Clash City Workers
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