A Roma, abitanti, gruppi e associazioni, si autorganizzano, si riappropriano di spazi, mettono in moto modalità di riuso di edifici abbandonati e di aree dismesse.
Fuori raccordo anulare, la geografia dell’autorganizzazione è molto densa. Il conteggio si perde: si tratta di centinaia di aree verdi la cui realizzazione, gestione e manutenzione è autorganizzata. Ogni quartiere ha un suo comitato, una sua associazione locale. Nel municipio terzo, su circa duecentoventimila abitanti esistono duecentocinquanta associazioni locali. Ogni territorio è presidiato. È il segno di una reazione; le persone si riprendono il territorio urbano, presidiano i luoghi in cui vivono e costruiscono una politica di tipo alternativo. Mettono in moto processi di risignificazione, di riappropriazione dello spazio, che riconfigurano a misura delle loro esigenze. Per questi spazi che assumono un grande valore simbolico le persone sono disposte a spendersi.
Un esempio. Borgata Finocchio è un’area molto periferica, al diciottesimo km della Casilina, otto-dieci chilometri al di là del raccordo, totalmente abusiva, 40.000 abitanti. Nel quartiere, denso, fatto di un tessuto di case basse, in media di due piani, è stata portata avanti una battaglia. Il comitato locale ha combattuto per far confiscare al Comune un edificio di sei piani in cemento armato di proprietà della banda della Magliana, e per farlo abbattere.
Quel luogo è diventato un parco pubblico: la Collina della pace. Eliminare e radere al suolo un edificio che svettava sull’edilizia bassa e in cui la banda esercitava il proprio potere, è stata un’operazione di grande forza simbolica. Il progetto è stato premiato a livello europeo: il parco, oggi tenuto benissimo, è il segno della dignità della periferia. Ora il comitato si batte per avere una biblioteca.
Lo stesso avviene nei quartieri di edilizia economica e popolare, quelli noti a tutti: Corviale, Tor Bella Monaca, Laurentino 38.
Tor Bella Monaca, 35.000 abitanti, è un quartiere PEEP, tutto è pubblico. Ma il “pubblico” non si vede, è un soggetto lontano, irraggiungibile. Sono territori dove è presente la criminalità organizzata, sparatorie, spaccio; malgrado ciò, gli abitanti sono molto attivi. Ad esempio, in una torre residenziale, le settantasette famiglie che vi abitano hanno trovato un accordo per la manutenzione del verde pertinenziale, che è lasciato a se stesso malgrado le famiglie paghino una quota alla Stato nell’ambito del proprio affitto.
A Tor Bella Monaca non c’è una biblioteca pubblica (in realtà, una è predisposta ma non attiva). Dunque, alcuni giovani si sono organizzati, hanno raccolto offerte, donazioni, per aprire una biblioteca, il Cubolibro, in un edificio realizzato coi fondi europei ma che non ha mai avuto l’agibilità. A Roma ci sono una decina di biblioteche autorganizzate di questo tipo: il servizio comprende addirittura il prestito interbibliotecario. Una capacità di autorganizzazione molto elevata, tramite la quale si forniscono servizi al cittadino: è un’energia sociale importantissima.
Così è anche per i servizi ai quartieri. In zona Tuscolana – ma esistono esempi in molte altre realtà urbane – SCuP! Sport e Cultura Popolare è una palestra organizzata in autofinanziamento, in un edificio abbandonato delle Ferrovie e occupato, che offre anche altre attività, iniziative sociali e culturali, ecc.: nella latitanza dello Stato è fornito alla popolazione, illegalmente, un servizio altrimenti mancante.
Ma i casi sono moltissimi, anche per quanto riguarda i luoghi di produzione culturale (cinema e teatri) spesso abbandonati o destinati alla “valorizzazione immobiliare”: i cinema occupati (come il Nuovo Cinema Palazzo nel quartiere San Lorenzo, o l’esperienza del Cinema America a Trastevere) e i teatri riutilizzati (Teatro Valle, il Teatro di Ostia). Analogamente sono tantissime le occupazioni a scopo abitativo: cinquantamila sono le persone coinvolte. E, infine, gli edifici industriali inutilizzati: nelle Officine Zero, a Casalbertone, si è tentato di recuperare la fabbrica e riportare il lavoro in forma autorganizzata.
È una città diversa nella quale prevale la dimensione del fare, del fornire servizi ai territori. È anche l’unico luogo in cui si elabora e si produce cultura politica: gli obiettivi sono consumo di suolo zero, riuso del patrimonio edilizio, valorizzazione delle potenzialità locali, efficienza nell’utilizzazione dell’edilizia pubblica. Forte è la dimensione collettiva, comunitaria.
Sono energie sociali potenti che ci raccontano una città diversa.
Ma la nostra non è un’apologia. Esistono anche i rischi.
Ad esempio, esistono culture di pubblico molto differenti: c’è chi si riappropria degli spazi per appropriarsene; e chi invece “strappa” questi spazi per metterli a servizio e renderli accessibili a tutti.
I rischi sono possibili e destano preoccupazione in un contesto di arretramento del welfare.
In primo luogo, perché quelle che abbiamo velocemente descritto sono risposte a necessità e a servizi che l’amministrazione pubblica non fornisce più. Preoccupa che il soddisfacimento dei bisogni diventi una risposta sostitutiva all’inefficienza pubblica: è un campanello d’allarme. Il “welfare sostitutivo” può dare spazi di vita molto soddisfacenti, ma può essere al contempo una trappola micidiale per chi si impegna, per i movimenti di lotta per la casa. Perché da una parte devono agire per rispondere a chi ha bisogno, anche in termini di conflitto rispetto al modello di gestione urbana condizionato prevalentemente dalla speculazione. Mentre dall’altra, i movimenti, le energie sociali che riescono a risolvere il problema in autonomia, danno involontariamente una risposta di convenienza – “benissimo se riuscite a risolvere il problema per conto vostro!” –, risposte che il mercato mette a frutto.
Connesso a questo aspetto è un secondo motivo di preoccupazione molto rilevante: la mercificazione della socialità e delle capacità sociali di autorganizzazione. È una dinamica di segno biopolitico, del funzionalizzare la vita umana e il corpo umano ad altri interessi. In questo caso è la funzionalizzazione delle relazioni sociali ad altri interessi, ad interessi economici. È la stessa logica della movida: la movida è la valorizzazione economica della socialità. Uno studio sul Pigneto ha messo in luce il limite incerto tra la voglia di stare fuori casa e la sua valorizzazione economica; dove finisce l’una e dove invece cominciano le iniziative economiche per far sì che la movida resti in vita.
Il terzo motivo di attenzione, è quello della povertà e della diseguaglianza urbana. Le forme di occupazione di edilizia economica e popolare, etc., sono una risposta autorganizzata a un problema drammatico. Si sta profilando all’orizzonte il rischio della “città fai da te”: chi riesce ad organizzarsi risolve il proprio problema; chi invece non ne è capace resta indietro.
Queste forme di autorganizzazione si dimostrano efficaci finché portano avanti il conflitto. In tanti anni, tuttavia, è cambiata la forma del conflitto. Molte di esse invece escono dalle dinamiche conflittuali per costruire isole di vita autonoma, delle nicchie. “Processi destituenti” dettati dalla necessità, perché il nemico è talmente forte e pervasivo che la soluzione è quella di costruire isole salde, di città alternativa, in uno sviluppo urbano prevalente di un altro tipo.
*Carlo Cellamare
[Il testo è la trascrizione dell’intervento alla conferenza “Ambienti di vita a rischio: Firenze, Roma, Venezia”, con Ilaria Agostini, Carlo Cellamare, Riccardo E. Chesta, tenutasi il 5 febbraio 2018 presso il Gabinetto Vieusseux (Firenze) nell’ambito di “Lo spazio della parola. Incontri di filosofia e letteratura” organizzati dal gruppo Quinto Alto]
Carlo Cellamare
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