Si è riacceso nelle ultime settimane il dibattito sulla realizzazione di un villaggio commerciale a Castelluccio di Norcia. A quasi un anno dall’approvazione del progetto annunciata dal vicepresidente della regione Umbria, infatti, sono iniziate le opere di urbanizzazione sul Pian Grande per la costruzione dell’ormai noto Deltaplano, parte di un più ampio processo di delocalizzazione di 10 ristoranti e 18 attività commerciali, di servizio e caseifici (solo alcuni dei quali presenti nel paese prima del sisma) attivato nell’area di Castelluccio (D.D. 1098/2018).
Travagliata sin dall’inizio, la storia di questo progetto si e’ sviluppata tra le proteste di associazioni ambientaliste presenti sul territorio e le dichiarazioni di sostegno, formulate secondo un circostanziale principio di residenzialità, della Comunanza Agraria di Castelluccio. Con il passare dei mesi, a seguito delle perplessità emerse, si è ridotta l’iniziale previsione di 11.000 mq ad una planimetria di 6000 mq, di cui 1.500 mq di superficie coperta; si è abbandonata l’idea di un parcheggio (questione antica, da anni foriera di frizioni e malcontenti); si sono eliminati i riferimenti all’architetto Francesco Cellini, autore originario del progetto.
Il Deltaplano, inoltre, ha riaperto vecchie acredini tra i commercianti del borgo ed Ente Parco Nazionale dei Monti Sibillini, cui sono state imputate maglie normative eccessivamente stringenti, desuete e soprattutto inadatte alle “nuove geografie del territorio”[1] ridisegnate dal terremoto. Un dibattito il cui esito emblematico è stata una raccolta firme per l’uscita di Castelluccio dal Parco dei Sibillini, promossa e sottoscritta da associazioni di “castellucciani” non residenti.
Ma la vicenda di Castelluccio acquista connotati di gran lunga più preoccupanti se letta nella cornice di quel lento ridimensionamento delle aree interne, in corso ormai da decenni, a favore di una loro turistificazione posticcia. Una dinamica che sembra aver trovato nella ricostruzione un importante vettore di accelerazione. Accanto ai 214 campi SAE, infatti, che ospitano le cosiddette casette, negli ultimi mesi abbiamo visto comparire numerose aree pensate per concentrare servizi e attività commerciali, che nulla hanno a che fare con le economie caratterizzanti la zona e difficilmente risultano compatibili con delicati sistemi ecologici. Castelluccio è il caso più evidente, che suscita lo scandalo dei social perché forse più noto anche ai meno avvezzi frequentatori degli Appennini, ma il fenomeno assume dimensioni notevoli se viene pensato nell’insieme di simili progetti che puntellano il territorio.
Si prendano, ad esempio, le ‘marcite’ di Norcia, un’area di 150 ettari a ridosso delle antiche mura della città dove ha trovato posto un Padiglione Polivalente disegnato dallo studio Boeri Architetti e finanziato dalla campagna di RCS media-group e Cairo Communication. Come spiegato da Franco Pedrotti[2], le marcite sono formate da praterie irrigate tutto l’anno con l’acqua delle sorgenti che nascono nella zona, una “vasta area prativa con un ricco suolo agricolo che ricoperta da ghiaia è stato così sterilizzato” (2018).
Costruito in deroga ai normali vincoli paesaggistici, il Centro e’ stato poi sequestrato dal GIP di Spoleto, per scongiurare “il rischio che le procedure acceleratorie – pensate per far fronte, in limiti stringenti e tassativi, alla situazione di emergenza post-sismica – possano essere utilizzate […] ben al di fuori delle ipotesi espressamentepreviste, cedendo alla tentazione di un pericoloso preteso efficientismo che rischia di compromettere definitivamente un contesto storico-paesaggistico importante e delicato come quello del territorio del Comune di Norcia e, nel lungo periodo, di fare danni maggiori di quelli apportati dal sisma”.
Stesso discorso sarebbe estendibile ai pascoli di Balzo di Montegallo, al lungo-fiume di Pescara del Tronto e a quello della Valnerina. Per queste aree, diverse ordinanze del capo della Protezione Civile hanno consentito di derogare ai vincoli paesaggistici per la costruzione di strutture provvisorie finalizzate ad assicurare l’assistenza della popolazione e la continuità dei servizi pubblici. Tuttavia, le ingenti platee in cemento armato su cui poggiano, l’assenza di piani di dismissione e la poca chiarezza sulle attività che andranno ad ospitare lasciano non pochi dubbi su tale carattere di temporaneità.
Assieme a queste evidenti criticità di consumo di suolo e deturpamento del paesaggio, preoccupa di più il modello di economia turistica che molti degli insediamenti progettati sembrano proporre, e di cui il Deltaplano è certamente l’esempio più eclatante. Il famoso “prima le fabbriche, poi le case” mutuato dal dimissionario Commissario Straordinario per la Ricostruzione Errani dall’esperienza friulana, ad indicare la priorità del tema lavoro su quello residenziale, si è ridotto a un triste “prima il food” – una semplificazione del sistema residenziale-produttivo montano, trasformato in mera imprenditoria turistica stagionale.
Trascurando il caso-spot di Arquata del Tronto, dove l’imprenditore fermano Diego della Valle ha inaugurato un mini-stabilimento industriale TOD’s[3], il resto degli investimenti pubblici a favore di una ripresa delle attività produttive nelle aree interne è ferma. Se il parco edilizio dopo due anni raggiunge ormai percentuali accettabili (le cosiddette SAE sono all’88,3% delle consegne), gli investimenti statali in aree pubbliche, mobilità e infrastrutture lavorative sono al palo. Gli unici esperimenti compiuti, e che assurgono a modello, sono rappresentati da queste poche “cittadelle” tra le macerie votate all’economia estrattiva del turismo mordi-e-fuggi.
Un utilizzo effimero dei luoghi che si è già manifestato in tutti i suoi limiti nell’esperimento amatriciano della “piazza dei ristoranti”, o in quello nursino, e che punta alla mobilitazione dei capitali simbolici legati alle suggestioni culinarie del km0 e dell’autenticità, a beneficio di una becera mercificazione della tradizione dei luoghi.
Un processo che, d’altronde, sembra consolidare un percorso avviato già prima del terremoto. Da Castelluccio a Norcia, da Visso ad Amatrice, indotti gastronomici altamente localizzati, incapaci di soddisfare un mercato di massa, ricorrevano già in larga parte a una forte delocalizzazione della produzione, solo nelle fasi finali (etichettatura, imbustamento, marchiatura etc.) svolta nelle zone della cui nomea si fregiavano i prodotti venduti. Una traiettoria che non può che consolidarsi in un contesto dove gli unici investimenti (sia sul piano simbolico che su quello strutturale) si concentrano sulla parte conclusiva della filiera, ovvero sulla vendita diretta al turista del food.
Ma chi beneficia di una residenzialità ridotta ad economia estrattiva stagionale? In nome di quale sviluppo si sacrifica la tutela del paesaggio, con il pretesto dell’emergenza e di una falsa temporaneità? Che territorio verrà riconsegnato alle comunità e che ruolo avranno giocato queste ultime nella sua trasformazione? L’impressione è che si stia strumentalizzando la necessità di rilancio di queste aree per affermarne una nuova vocazione esclusivamente turistico-ricettiva. Una monocoltura dietro cui si nascondono vecchi e nuovi interessi e logiche di estrazione di valore dal territorio che poco si confrontano con una reale riflessione su bisogni e criticità del territorio, di chi lo abita o vorrebbe viverci.
*Emidio di Treviri
Note al testo
[1] Da una nota di Roberto Pasqua, presidente della Comunanza Agraria Castelluccio.
[2] Franco Pedrotti, docente emerito dell’Università di Camerino, botanico, decano dell’ambientalismo italiano. Qui l’articolo citato nel testo: greenreport.it/news/aree-protette-e-biodiversita/minacce-danni-sui-sibillini-marcite-norcia-pian-grande-castelluccio
[3] Sarebbe da aprire un approfondimento importante sulla necessità e l’opportunità di una produzione industriale incastonata nel punto dove si incrociano il Parco Nazionale dei Monti Sibillini e quello dei Monti della Laga a due ore di strada da un nodo ferroviario e/o autostradale.
Emidio di Treviri
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