Qualche settimana fa i giornali hanno riportato la notizia del sequestro di beni per un valore di 5 milioni di euro, tra cui anche il ristorante dello Sporting Club di Mezzana e il Gian Burrasca – in provincia di Prato – in gran parte riconducibili a un imprenditore pratese ritenuto vicino al gruppo Terracciano (vedi, ad esempio, Il Tirreno, 04/05/2018).
L’affiliazione storica camorristica di Giacomo e Carlo Terracciano e del loro gruppo risulta da una sentenza del Tribunale di Napoli del 1985 che li giudica definitivamente appartenenti alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, in particolare per la zona di S. Sebastiano, Ponticelli, Barra e Pollena e Cercola in provincia di Napoli e li condanna, rispettivamente, a cinque anni e otto mesi e cinque anni e due mesi di reclusione.
Giacomo e Carlo Terracciano arrivano in Toscana per obbligo di soggiorno agli inizi degli anni novanta e le operazioni giudiziarie mostrano che hanno pianificato e attuato nel territorio toscano una politica di penetrazione. In pratica si tratta di un’associazione di tipo camorristico composta oltre che dai due fratelli, anche dal figlio di Giacomo, Francesco, e almeno altre cinque persone quasi tutte nate e residenti in Toscana, nelle zone di Prato, Pistoia, Lucca oltre a una serie di prestanome per varie attività anche nel campo della ristorazione.
I principali settori in cui operano sono: l’acquisizione di una serie di attività imprenditoriali ed economiche sul territorio, soprattutto locali notturni, night club, lo sfruttamento della prostituzione all’interno dei locali notturni, attraverso i canali dell’immigrazione irregolare, la gestione del gioco d’azzardo e delle scommesse clandestine, il controllo di importanti flussi di denaro di provenienza illecita, più che altro dall’usura che coinvolge sia imprenditori sia giocatori d’azzardo.
Per le loro attività i Terracciano si sono avvalsi nel corso del tempo anche di alcuni guardaspalle particolarmente violenti che avevano il compito di piegare le residue resistenze dei contro-interessati e di un avvocato che ha fornito consulenze e consigli giuridici e operativi per rafforzare l’associazione camorristica al di fuori della cornice di legalità.
Questo è un esempio di tipo di presenza abbastanza raro nel panorama toscano poiché caratterizzata da una serie di elementi che in genere non risultano compresenti: si tratta di una penetrazione di tipo economico, tesa a riciclare denaro sporco, con una presenza stabile sul territorio e con protagonisti dal profilo criminale “visibile”, uso esplicito e abbastanza frequente della violenza, coinvolgimento dell’area grigia, quindi di consulenti e prestanome. Ciò che qui interessa è focalizzare l’attenzione sul fatto che il patrimonio accumulato negli anni di attività è notevole ed è stato più volte colpito da sequestro e confisca.
Già nel 2012 -2013, con l’operazione denominata Ronzinante, erano stati sequestrati al gruppo beni per circa 41 milioni di euro, tra Toscana, Campania, Basilicata, Lazio, Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Umbria. Per quanto riguarda la Toscana, 21 gli immobili più varie società tra Firenze, Siena e Prato, intestate a vari prestanome e per la maggior parte in dissesto finanziario.
Tra i beni, anche i marchi della catena di ristoranti-pizzerie Don Chisciotte e Sancho Panza di cui sei tra Firenze, Agliana (PT) e Prato, gestite sempre dal solito imprenditore pratese che anche nell’ultima operazione risulta intestatario di beni riconducibili ai Terracciano (vedi anche Repubblica, 30/05/2013).
Infine, per quanto riguarda l’ultima operazione, le due società operanti a Prato nel settore della ristorazione sono state affidate ad un amministratore giudiziario con l’obiettivo di garantirne l’attività fino alla disposizione definitiva dell’autorità giudiziaria. Infatti, con una modifica legislativa, risalente agli inizi degli anni ottanta, il custode giudiziario viene sostituito dall’amministratore giudiziario che, una volta nominato dal Tribunale, è tenuto proprio ad amministrare il patrimonio e le aziende eventualmente presenti, non solo con l’intento di custodirli, ma anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni. Questo impegno, tra l’altro non esplicitato nella legge, è dunque particolarmente importante nel caso di aziende poiché significa dirigerle in modo da garantire l’occupazione e renderle, laddove possibile, “profittevoli”. Solo nel 2011, con l’introduzione del c.d. Codice Antimafia, l’ambito di azione dell’amministratore giudiziario è stato specificato; in particolare, l’amministratore giudiziario ha l’obbligo di presentare al Tribunale della Prevenzione entro trenta giorni (entro sei mesi, se si tratta di imprese) una relazione dettagliata sulle condizioni delle aziende /beni sequestrati e del progetto di sviluppo delle loro attività.
Nel nostro caso specifico, l’amministratore giudiziario ha stabilito di bandire un’asta per affittare la gestione temporanea (fino a settembre, rinnovabile fino a dicembre) delle due attività di ristorazione con le relative dotazioni patrimoniali e merci (avviamento commerciale, beni mobili strumentali all’esercizio dell’attività, giacenze di magazzino) e subentrando nel rapporto di lavoro con i dipendenti in organico.
Come approfondiremo nelle prossime uscite, le operazioni di sequestro e confisca dei beni sono di particolare interesse poiché, con le parole di Giuseppe Quattrocchi, “sono le misure che più di ogni altra infastidiscono la criminalità organizzata perché ai mafiosi interessa più non perdere il patrimonio che finire in carcere” (Repubblica, 30/05/2013).
*Graziana Corica, Rosa Di Gioia
Graziana Corica Rosa Di Gioia
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