L’espulsione dell’Altro di Byung-Chul Han

Questo recente saggio, presentato in quarta di copertina dell’edizione italiana come la summa dei precedenti lavori dell’autore, Byung-Chul Han, è un vero e proprio kunai (coltello da lancio giapponese, arma tipica del ninja), piccolo ed affilato, lanciato da questo metallurgo coreano divenuto filosofo tedesco contro l’attuale ordine spettacolare che domina il mondo. Alcuni chiamerebbero il periodo attuale iper-modernità, altri parlerebbero di spettacolare integrato. L’Autore parla di neoliberismo o di “rapporti neoliberistici di produzione”, dando una sfumatura marxista alla sua prosa, oppure, più semplicemente, del “nostro tempo”. Un libro sulla situazione attuale insomma che mira a smascherare il deserto che si cela dietro le brillanti insegne della globalizzazione.

L’Autore sfodera le armi della tradizione filosofica per leggere le trasformazioni antropologiche in atto a causa dell’avvento di internet, che lui inquadra come ordine digitale o iper-comunicazione. La rete globale ha più o meno improvvisamente azzerato ogni distanza, ma non per questo ha reso vicine le cose lontane, ha piuttosto distrutto la vicinanza e la prossimità, trasformando le altre persone in specchi di noi stessi.

È ben noto che la bacheca di Facebook mostra all’utente i contenuti dei suoi contatti (chiamati ipocritamente amici) in base ad un algoritmo in continuo perfezionamento il cui fine è quello di mettere in evidenza unicamente cose che piacciano all’utente stesso, per fare in modo che si senta a proprio agio e non si turbi; che l’esperienza, altro termine ipocrita, sia il più possibile gradevole.

È questa l’espulsione dell’Altro di cui parla l’Autore. Tutto ciò che non ci piace, che ci disturba, che ci potrebbe inquietare o disgustare viene eliminato, espulso, bannato, come si dice in gergo. Perciò mentre navighiamo sui social media, anche se abbiamo l’impressione di essere in contatto col mondo intero in realtà stiamo contemplando la nostra stessa immagine. Il narcisismo diventa quindi uno dei tratti fondamentali dell’uomo contemporaneo, rompendo gli argini delle eziologie individuate dagli psicoterapeuti del passato (ad esempio A. Lowen, che ha dedicato un intero volume al tema).

La cosa più crudele è che il narcisismo odierno viene scambiato per autenticità e venduto come una forma di emancipazione: un imperativo, un obbligo all’autonomia (da cui già Latour ci aveva messi in guardia parlando di attaccamenti) dietro al quale c’è solo l’ennesima forma di sfruttamento, l’autosfruttamento: “L’io, in quanto imprenditore di se stesso, produce se stesso, è la performance di se stesso e si offre come merce. L’autenticità è un fattore di incremento delle vendite” (p. 30). La stessa dinamica si radicalizza nella mania dell’autoscatto, il selfie, che testimonia al mondo intero la nostra esistenza e la nostra felicità. In un passaggio radicale l’Autore lo affianca al gesto estremo del terrorista che si fa saltare in aria: il selfie definitivo che lo immortalerà sulle pagine (digitali e non) della cronaca.

Fin dalla prima pagina l’Autore sottolinea quanto la situazione sia cambiata dai tempi di Freud: le attuali psicopatologie non sono il frutto di repressione, bensì di un eccesso di permissività nei costumi che alimenta, attraverso il consumo sfrenato e il godimento senza inibizioni, la fornace capitalista.

Così come siamo passati dalle carestie all’obesità, anche sul piano psicologico siamo passati dalla negazione delle pulsioni ad una abbuffata di godimenti effimeri che svuotano il soggetto; siccome ci ingozziamo di cose che ci piacciono, non c’è alcuna difesa: “Contro il grasso non si formano anticorpi. Nessuna difesa immunitaria può ostacolare la proliferazione dell’Uguale” (p. 8).

L’espulsione dell’Altro si sistematizza in un vero e proprio Bannoptikum, geniale neologismo dell’Autore che riprende il Panoptikum di Bentham e poi di Foucault, che cerca di creare un mondo fatto di superfici levigate, prive di attriti, di conflitti, di dolore, un mondo dove vivere senza sforzo. In tal senso a mio avviso si potrebbero inquadrare tanto l’odierna l’ossessione per la sicurezza quanto l’eccesso di automazione (scale mobili, porte automatiche, sportelli automatici… e chi più ne ha più ne metta). Il soggetto galleggia in una bolla specchiata, una campana di vetro che lo protegge da ogni vera esperienza capace di trasformarlo, di farlo crescere. “Si va dovunque senza fare mai esperienza” Perché “la negatività dell’Altro e della trasformazione è ciò che costituisce l’esperienza in senso enfatico” (pp. 9-10).

Sorge così una nuova figura dello spirito, quella del turista, che viaggia ovunque senza mai incontrare niente che lo cambi in profondità, che lo trasformi. Il turista al massimo torna a casa con dei ninnoli da mostrare agli altri come lui. “Su internet non siamo che turisti” (p. 47). Proprio come il vero turista è frenetico perché vuole vedere tutto, ma specie in posti esotici si affida ad una guida che gli fa da filtro e che gli impedisce di entrare in contatto col paese reale, con il quale non sarebbe in grado di interagire, e tutto deve essere proprio come se lo aspetta, le grandi emozioni e gli imprevisti non sono compresi nel pacchetto e non sono graditi, così l’uomo che vive nella iper-comunicazione vive in una frenesia di informazioni ma non incontra mai veramente l’Altro e di conseguenza non cresce, non fa esperienza. L’io perciò, non incontrando mai qualcosa che lo possa distruggere diventa autodistruttivo: e risulta indifeso quanto il sistema immunitario rispetto all’obesità. “La proliferazione dell’Uguale dà luogo a quei mutamenti patologici che infestano il corpo sociale” (p. 39). Come ad esempio la depressione, sorta di auto-schiacciamento, auto-seppellimento sotto il peso di un Io che, non trovando nulla che lo contenga, cresce flaccido e ipertrofico.

L’Autore introduce l’antropologia del turista in un capitolo, il più corto, che a mio avviso fa da architrave a tutto il libro; un titolo suggestivo: soglie. Interessante innanzi tutto come arrivi a parlare di soglie in questo contesto: avendo tirato in ballo l’autenticità come mercificazione ultima del soggetto, sia come immagine che come soggetto di performance, era inevitabile in Germania doversi confrontare col maestro Heidegger. Vi si accosta per così dire lateralmente, partendo dall’angoscia. Per Heidegger l’angoscia è un sentimento verticale nel quale ci confrontiamo con la morte, ovvero il totalmente altro per eccellenza. “L’angoscia strappa l’Esserci […] dalla familiare e consueta quotidianità, dalla conformità sociale” (p.39). Solo essa ci dischiude le porte dell’autenticità. Ma l’ipercomunicazione odierna cambia radicalmente lo scenario: essa sostituisce la dittatura conformista del “si dice” con una “diversità di opinioni e di opzioni”. Ma la trappola è dietro l’angolo.

“La diversità ammette solo differenze conformi al sistema, poiché rappresenta l’alterità che può essere consumata.” Si tratta dunque di un gioco di prestigio, un trucchetto. “Molteplicità e scelta simulano una diversità che in realtà non esiste” (p. 40). Viene spacciata per autenticità, ma è esattamente il contrario in quanto “ha luogo invece all’interno dell’ordine della quotidianità. Il sé autentico è una forma commerciale del sé, si realizza nel consumo” (p. 41). Le conseguenze di questa mutazione antropologico-esistenziale sono nefaste: “anche la morte è ridotta al silenzio”, in nome della produttività. E qui emerge l’altra faccia del consumo, che non può che essere la produttività, che ha un doppio valore: produrre merci da consumare e migliorare l’appetibilità del soggetto come merce-lavoro. È proprio il caso di dirlo: due al prezzo di uno! “Oggi la produzione si è elevata a totalità, diventando l’unica forma di vita. L’isteria della salute è in ultima analisi l’isteria della produzione.” E “Se si rinnega la morte in nome della vita, la vita stessa si trasforma in qualcosa di distruttivo, diventa autodistruttiva” (p. 42). Perciò l’angoscia verticale nei confronti della morte viene sostituita dalla angoscia orizzontale che si ripiega su un individuo completamente in balia di sé stesso, paradossalmente alimentato dal continuo paragone con gli altri: “angoscia di non farcela, angoscia di fallire, angoscia di diventare dipendenti, angoscia di commettere un errore o di prendere una decisione sbagliata, angoscia di non riuscire a soddisfare le proprie esigenze” (p. 46).

Torniamo alle soglie. Le soglie risvegliano l’angoscia. L’Autore sembra riferirsi a quelle soglie oltrepassate negli stati non ordinari di coscienza. “L’angoscia è una tipica sensazione legata alla soglia, che indica il transito verso l’ignoto. Aldilà della soglia comincia uno stato dell’essere del tutto diverso, essa è perciò sempre in relazione con la morte. In tutti i riti di passaggio si muore per rinascere al di là della soglia, la morte infatti viene esperita come passaggio” (p. 47, corsivi miei ).

Un passaggio doloroso che il turista evita con maestria, muovendosi “nell’inferno dell’Uguale”, fatto di superfici levigate, ovvero prive di attrito, e trasparenti, in modo da non potersi mai nascondere. “In questo modo tutto si fa minacciosamente vicino, nulla ci offre riparo” (p. 48). È un mondo frastornante dove non è possibile fermarsi a pensare, a maturare, un mondo privo di silenzio. Si genera dunque una nuova forma di alienazione, del tutto differente da quella delineata da Marx: una auto-alienazione che si verifica “nella forma della libertà. Dell’autorealizzazione e dell’ottimizzazione di se stessi. […] sono io a sfruttare me stesso, credendo in tal modo di realizzarmi.” Si sviluppa la patologia del burn-out, che significativamente è tipico in quei lavori in cui ci si fa carico delle sofferenze altrui, oppure si muore per il troppo lavoro. “Io mi butto euforicamente nel lavoro per poi alla fine crollare.”

La libertà che ci viene propinata è un veleno che risulta “fatale, poiché non rende possibile alcuna resistenza, alcuna rivoluzione” (p. 52). Contro questo veleno servono degli anticorpi in senso letterale, qualcosa che va contro al corpo, che fa resistenza, che si mette in mezzo. L’Autore riprende la radice latina della parola “oggetto”, il verbo obicere, gettare contro. L’esperienza dell’obicere, dice Han, “è più originaria della rappresentazione di ciò che è presente come oggetto.” La rappresentazione è la modalità con cui il soggetto cerca di impadronirsi dell’oggetto; il suo estremo è la merce, alla quale “manca del tutto la negatività dell’obicere: la merce non mi getta davanti nulla […] non mi si oppone. Vuole piuttosto adattarsi a me e piacermi, vuole strapparmi un mi-piace” (p. 54).
Questa sarebbe dunque la moderna fenomenologia della percezione, la quale si configura come grado zero dell’esperienza perché in effetti il soggetto è come se non incontrasse proprio nulla; l’obicere, in quanto opposto al mi-piace, è di conseguenza il grado massimo dell’esperienza. Gli anticorpi sono tutto quello che mi dà il senso della pesantezza, della gravità, come una pesante porta vecchia che a malapena gira sui suoi cardini arrugginiti, che mi fa percepire il corpo mio e soprattutto del mondo, che l’ordine digitale tende a far sparire. Ma, si potrebbe dire, anche ciò che si può scorgere oltre le soglie di cui il totalitarismo digitale della produzione ci priva.

Infatti l’obicere non è in fondo che l’esperienza dell’ignoto che irrompe nelle nostre vite. “Perciò i Greci esprimono l’adocchiante presenza degli dèi come il più tremendo e ammaliante essere-di-fronte. L’essere di fronte avviene come incontro con il totalmente Altro. Questo si manifesta come sguardo e come voce” (p. 58). Un passaggio interessante che sembra alludere ad una dimensione del sacro alla quale non accediamo volontariamente ma che ci viene incontro attraverso una presenza soverchiante, nella quale sperimentiamo l’impotenza e la debolezza.
Per prima cosa l’Autore riprende Lacan presentandoci l’esperienza in cui “si rinuncia alla sovranità dell’occhio e ci si consegna allo sguardo dell’altro” (p. 60). Uno sguardo che ci minaccia, esperienza che qualsiasi paranoico conosce bene. È lo sguardo delle distopie come 1984 di Orwell, lo sguardo della repressione. Ma anche qui la rete digitale trasforma il paesaggio, offrendo la sua velenosa libertà. “Il medium digitale si distingue dal medium ottico per il fatto di essere un medium privo di sguardo. […] Il Panopticon digitale funziona facendo a meno della prospettiva. […] si viene illuminati da tutte le parti, e persino da dentro” (p. 64). Non sfuggono nemmeno i pensieri a questo genere di dominio che si spaccia per forza emancipatrice.

Anche nel caso della voce dell’Altro riemerge il tema della debolezza. “Solo una debolezza, una debolezza metafisica, una passività originaria rende ricettivi alla voce dell’Altro.” È la qualità dei profeti, i quali “sono deboli di fronte alla potente voce dell’Altro” (p. 68).

È a questo punto che a mio avviso la proposta di Han inizia a perdere mordente. Egli parla di ascolto, titolo dell’ultimo capitolo, che però si configura come riconoscimento del prossimo e delle sue sofferenze. Questo va nella direzione di una ricostruzione della vicinanza e del senso di prossimità disintegrato dall’ordine digitale e dai rapporti di produzione neoliberisti. “L’ascolto ha una dimensione politica, è un’azione, un’attiva partecipazione all’esistenza degli altri, e anche alle loro sofferenze. L’ascolto stringe relazioni fra gli uomini formando così una comunità.” Ascoltare è quindi la vera azione sovversiva, contrastata con ogni mezzo dai funzionari dell’attuale ordine sociale, sempre più caotico e distruttivo. “La strategia del potere consiste oggi nel privatizzare la sofferenza e l’angoscia, e nel nasconderne così la dimensione sociale, impedendone in tal modo la socializzazione e la politicizzazione” (p. 97).
Ora, la socializzazione della sofferenza psicologica mi sembra una proposta piuttosto debole, pericolosamente vicina a quella di individuare nel “deviante” il “nuovo soggetto rivoluzionario”. Più condivisibile l’idea dell’ascolto dell’Altro come azione che spezza la gabbia frastornante della iper-comunicazione, che permetterebbe di ricostruire la comunità, presupposto di ogni socializzazione.

Questo va bene, ma sembra ancora poco. Uno potrebbe chiedere: e le soglie? E gli dei? E i profeti? Che fine hanno fatto? Che fine ha fatto la dimensione dell’ignoto? Che ne è del sacro? Latour ci dice che non siamo mai stati moderni. Sarà anche vero, ma per qualche secolo abbiamo fatto finta di esserlo. E come ci insegnano diversi aneddoti sugli sciamani, a volte basta quello. Possiamo fare a meno degli attaccamenti e seguire le sirene dell’emancipazione? Han ci mostra efficacemente dove ci ha portato questa mitologia: a chiudere tutte le soglie.

Io ho l’impressione che lo scetticismo moderno spinga per una trattazione del tema del sacro che si concentri sulle tecnologie attraverso le quali interagiamo con esso. Il sacro è il radicalmente ignoto, il totalmente Altro di cui parla Han. Le tecnologie del sacro producono strumenti, oggetti culturali attivi che fungono da intermediari con una regione dell’essere che ci resterà sempre inaccessibile. In una posizione che potremmo quasi definire convenzionalista, o strumentalista, non è questione di verità dei singoli strumenti ma di ciò che essi permettono di fare. Poiché personalmente cerco di pormi nell’ottica di una svolta polifasica della modernità, dal mio punto di vista l’ascolto non può che rivolgersi anche agli invisibili che stanno dietro la soglia, con i quali entriamo in rapporto diretto, o quanto meno in una maggiore prossimità, quando attraversiamo stati non ordinari di coscienza.

Ora, mentre altre culture hanno in parte ancora questi strumenti, quella occidentale moderna si muove fra le macerie. Certo è senz’altro possibile rendere di nuovo attive quelle macerie, magari perfino quelle più antiche, almeno qui in Europa, ma è emersa anche la ricerca e la disposizione di nuove tecniche. E credo, visti i tempi, che sia più onesto presentarle come servizi a pagamento che come dono di un pacchetto di verità in cui credere. Per questo le serve una posizione strumentalista.

Le sostanze hanno giocato un ruolo di primo piano in questa storia, come mostra il caso della Respirazione Olotropica. Ma anche l’uso delle sostanze ha subito un processo di imbarbarimento. Possiamo leggere allora il fenomeno delle dipendenze con le lenti che ci ha dato Han, vedendole come binge, come abbuffata fino allo sfinimento, tanto di sostanze quanto di giochi, di cibo, di musica e film, il cui fine è sempre la auto-alienazione (per le sostanze: sia nel caso dell’uso performativo che in quello “ricreativo”) e non l’incontro con il totalmente Altro.

Byung-Chul Han, Die Austreibung des Anderen, Frankufurt am Main 2016, trad. it. L’espulsione dell’Altro, Milano 2017, € 13.00

*Matteo Innocenti