Alcune settimane fa abbiamo scritto della totale subordinazione del governo Conte nei confronti di Confindustria. In sostegno alla nostra posizione menzionavamo tre aspetti. Uno di questi era la mancata creazione di una zona rossa a Nembro e Alzano Lombardo ad inizio marzo. Venerdì 12 giugno, il procuratore aggiunto di Bergamo si è recato a Roma per ascoltare proprio sulla vicenda il presidente del consiglio Giuseppe Conte e alcuni ministri del suo governo. L’ipotesi di fondo degli inquirenti è alquanto semplice: subendo le pressioni provenienti da Confindustria per non chiudere la Val Seriana – 376 aziende, decine di migliaia di lavoratori e 680 milioni di fatturato all’anno – i decisori politici si sono resi responsabili di un triste primato con un’impennata di decessi nell’area di quasi il 600% (oltre 6 mila casi) rispetto allo stesso periodo dell’anno prima.
Dal punto di vista giuridico, uno dei nodi del contendere ruota attorno a chi spettasse la responsabilità di istituire la zona rossa: al governo oppure alla regione? Per noi, poco cambia. Quale sarà l’esito delle indagini pare d’altronde scontato in partenza: tutto verrà presto archiviato e non vi saranno, in ogni caso, condanne. Dopo tutto, la possibilità che la magistratura possa processare un governo per aver difeso gli interessi delle classi proprietarie appare più che remota. La macchina statale non media infatti tra gli interessi divergenti delle varie classi, come spesso farneticato anche a sinistra, ma garantisce il dominio dei proprietari dei mezzi di produzione su chi è costretto a vendere la propria forza-lavoro. In tal senso, per quanto moralisti e sinceri democratici siano liberi di stracciarsi le vesti, poco può essere imputato alla regione Lombardia e al governo centrale.
Ciò detto, il mero fatto che la magistratura bergamasca abbia sentito il bisogno di ascoltare alcuni esponenti governativi come persone informate sui fatti rappresenta una pesante conferma di quanto abbiamo scritto: il governo Conte è stato e rimane completamente subalterno agli industriali. In tal senso, è nemico di tutti i lavoratori e delle classi popolari in genere. Questa consapevolezza fatica però ad emergere a sinistra, dove in molti continuano a vedere l’esecutivo in carica come il minore dei mali. Si argomenta infatti come qualsiasi altra maggioranza parlamentare sarebbe peggiore di questa, mentre nuove elezioni rischierebbero di produrre un governo ‘nerissimo’ Salvini-Meloni. La nostra prospettiva è però diametralmente opposta. E questo non dipende certo dal fatto che strizziamo l’occhio alla vulgata del ‘tanto peggio tanto meglio’. Pensiamo, al contrario, che solamente la crescita di una forte opposizione sociale al governo Conte oggi possa evitare un governo di destra con evidenti tratti autoritari domani. La ragione è presto detta. In autunno il governo, stretto tra un altissimo debito statale e l’esigenza di rispettare i vari parametri di bilancio imposti dall’Unione Europea, sarà costretto a varare un pesante pacchetto di misure di austerity. Queste colpiranno, in primo luogo, le classi lavoratrici, ma non risparmieranno neanche esercenti, artigiani, lavoratori indipendenti e piccoli proprietari. Questo pulviscolo di settori intermedi costituisce il bacino ‘naturale’ della destra italiana, che attraverso la loro egemonizzazione cerca di co-optare in funzione passiva – spesso attorno ad una retorica nazionalista, xenofoba e machista – lavoratori e settori popolari. La nostra strategia è invece opposta: dobbiamo costruire un forte radicamento nel movimento dei lavoratori per attrarre passivamente i settori intermedi, in eterna fluttuazione tra le uniche due classi in grado di giocare un ruolo autonomo: il grande capitale, da un lato, e il movimento operaio organizzato, dall’altro.
Più nello specifico, pensiamo che ci siano tre gruppi a quali una politica di sinistra dovrebbe rivolgersi in maniera prioritaria: tute blu, facchini e braccianti. Gli anni recenti ci hanno mostrato come gli ultimi due soggetti abbiano una straordinaria capacità di lotta e resistenza – dalle radicali vertenze della logistica alle rivolte delle campagne, tanto per fare degli esempi. Il ‘tradizionale’ lavoratore di fabbrica era invece uscito dai radar. La massiccia ondata di scioperi che ha sconfitto lo scellerato tentativo di Confindustria di tenere aperte le fabbriche a metà marzo ha invece ribadito come le tute blu non siano un semplice ricordo del passato. Questo aspetto contrasta frontalmente con la vulgata comune, maggioritaria anche a sinistra, e merita perciò di essere approfondito.
Negli ultimi decenni infatti, è stato spesso sostenuto come, per effetto della globalizzazione, vi siano state massicce de-localizzazioni delle attività produttive verso paesi con un minor costo della manodopera e la conseguente perdita di centralità, sia numerica che politica, delle tute blu. Le versioni più radicali sono perfino giunte a sostenere una vera e propria scomparsa del mondo operaio. In maniera più sottile, altri hanno invece puntato alla particolarità italiana e al suo tessuto fatto di piccole e medie imprese. Simili posizioni colgono un dato reale: il numero di dipendenti presenti all’interno del comparto industriale è diminuito negli ultimi anni. La crisi del 2008 ha assestato un durissimo colpo in tal senso, con l’occupazione nell’industria che nel 2018 registrava una perdita netta di mezzo milione di posti di lavoro rispetto ai livelli pre-crisi. Nonostante questo, la magnitudine dell’effetto è del tutto esagerata. Nel 2018 vi erano circa 3 milioni e 700 mila dipendenti presenti all’interno di quel settore che l’Istat definisce ‘industria in senso stretto’. In altri termini, circa un occupato su 6 in Italia lavorava nell’industria, costruzioni escluse. Suonerà forse strano per molti, ma i lavoratori industriali sono 500 mila unità in più rispetto ai dipendenti pubblici, spesso immaginati come un settore elefantiaco. Non è neanche vero poi che la maggioranza di questi sia impiegato in imprese piccole e micro. Queste costituiscono la stragrande maggioranza in termini assoluti, ma assorbono meno del 50 percento degli addetti. Al polo opposto, oltre un milione di lavoratori, più di un quarto del totale, è impiegato invece in aziende con oltre 250 dipendenti. Non tutti sono ovviamente operai. Tra le fila di questi vi sono infatti anche dirigenti, quadri e impiegati. Eppure, gli operai sono la stragrande maggioranza. La pandemia da Covid-19 ha mostrato tutto il loro potenziale offensivo e anti-confindustriale. Le tute blu esistono e lottano. Insieme a facchini e braccianti dovranno formare l’ossatura dell’opposizione sociale al governo Conte. Altrimenti, il rischio di un governo Salvini-Meloni sarà più che una possibilità.
*Gianni Del Panta
Gianni Del Panta
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