Per una Critica del Capitalismo Digitale – XV parte
Il livello di individuazione ha sempre anche una componente collettiva che fa riferimento a una serie di informazioni disponibili in comune, a un pacchetto condiviso, riconosciuto e validato attraverso tutta una serie di dispositivi che vanno dalla scienza al mainstream dei media analogici come la televisione. Quello che io chiamo effetto “cerchia” (altri parlano di filter bubbles), quello che ti mette in contatto con informazioni gradite escludendo le altre, porta a un soggetto atomizzato con difficoltà a socializzare, a lasciar lavorare l’empatia, l’imitazione e la mimesi attraverso le quali il soggetto si fa collettivo. Ne risente anche lo stesso farsi classe dei proletari o di altre vittime del sistema di produzione capitalistico nei suoi risvolti accelerazionisti che caratterizzano la svolta neoliberista. Le nuove aggregazioni sociali in gran parte parcellizzate dal sistema, si riproducono producendo altre informazioni la cui validazione passa soltanto attraverso la circolazione all’interno della cerchia. In realtà non ci sono fake news, perché non c’è più una true new, nel senso che la personalizzazione dell’esperienza in rete genera più procedimenti di veridizione nessuno con la patente in regola in termini assoluti (condivisi).
Che la scienza non sia collusa è soltanto una mera proiezione, ma che si possano sfoderare comportamenti a prescindere da ogni forma di paradigma di veridizione, è cosa ben diversa. Una cosa è la possibilità di svelare e decostruire queste collusioni, un’altra è validare qualsiasi opinione. L’opinione (doxa, vedi qui) è allora qualcosa di simile al pregiudizio (bias). La doxa è il fine dell’attività elaborativa dell’algoritmo ed è influenzata dal bias, dal pregiudizio. La possibilità che l’algoritmo possa restituire un risultato oggettivo si fonderebbe sulla possibilità di fare riferimento a dati spurgati da ogni contaminazione dovuta ai pregiudizi. Ma la rete e i dati che produce, come abbiamo visto, si basano sui pregiudizi.
Il dispositivo che persegue il profitto dei padroni della rete è interessato soltanto a questo fine e il fatto di essere alimentato da pregiudizi (spesso discriminanti, vedi articoli precedenti) non disturba la sua coscienza. La sua coscienza è questa massimizzazione. Del pericolo sono coscienti anche i collaboratori e gli ingegneri della rete. Gli «intermediari dell’informazione, la cui funzione obiettivo non è la correttezza dell’informazione ma la massimizzazione del tempo passato dagli utenti sui propri servizi on line», fanno (favoriscono) proprio questo dice Quintarelli (imprenditore esperto di comunicazione e informatica e pioniere di internet, p. 188).
L’universo digitale contiene anche proiezioni immaginifiche che rimandano a un fine ultimo che sarebbe la possibilità di uploadare la coscienza su una memoria digitale e sopravvivere in corpi artificiali superando l’invecchiamento cellulare e la morte. L’ipotesi ha tutta una serie di articolazioni con implementazioni anche meno pretenziose, ma che girano egualmente in forme di interazione corpo mente e naturalartificiali. Ibridazioni tra corpi biologici e corpi macchinici; protesi meccaniche integrative di funzioni extra umane. Intelligenza artificiale che va dal collaborativo all’autonomo con in prospettiva forme di super intelligenza. La messa in discussione della centralità dell’essere antropomorfo in relazione con gli altri enti che caratterizzano il suo ambiente e quindi il suo habitat. La presa di coscienza del profondo carattere simbionte della vita sul pianeta che mette in discussione i processi di soggettivazione assoluti. La messa in discussione dell’individuazione di un essere in sé contrapposta a un essere in divenire in relazione ai rapporti plurivoci che si instaurano tra i vari enti e che evolvono all’interno del relazionarsi stesso. La messa in discussione delle appartenenze di genere e di ogni altra forma di appartenenza che isoli il soggetto in un per sé dato e mantenibile. Tutto questo ha potuto contribuire a ipotizzare una nuova dimensione non umanistica dell’umano. Dimensione che prende anch’essa strade diverse che hanno in comune o una nuova potente figura o una figura più blanda che non si staglia dallo sfondo, che non emerge e non si fa epifanica, ma si rimescola continuamente su uno sfondo che è abitare il mondo i cui caratteri (del mondo) coincidono con il fatto stesso di essere abitato. Tutto questo si chiama postumano, iper umano, oltre umano, transumano. Si va dalle tesi della Braidotti a forme di accelerazionismo più o meno estreme, passando per forme di xenofemminismo. Parliamo di pratiche, ma più spesso di ipotesi, nel frattempo il capitale attraverso la sua forma neoliberista, ha già compiuto la sua trasformazione, Il neoliberismo e una forma di iper-capitalismo, di post-capitalismo e tutta la serie di neologismi possibili, che non sono un’idea, un progetto, ma un modo di operare perseguendo il solito obiettivo di sempre: fare l’interesse di pochi a scapito di tutti gli altri. Il suo non è cinismo, è soltanto una forma di automatizzazione del suo procedere dove le macchine digitali tendono a soppiantare quelle analogiche per produzioni sempre più immateriali e pervasive. Il trans capitale anticipa il transumano attraverso l’idea grandiosa di gestire questa trans-formazione.
Ma quali sono le mirabilie che il capitale digitale ha messo in atto? Le cinque più importanti aziende del mondo sono operatori che poggiano la loro dominanza sull’intermediazione di alcuni mercati più tradizionali. Le maggiori piattaforme sono operazioni la cui utilità diretta è tutta da poter essere messa in discussione. Tutta questa imprenditorialità smart, moderna e tecnologicamente avanzata si prende, per esempio, il 25% su ogni prenotazione che voi fate su Booking, senza possedere nessun albergo, senza rifare nessuna camera, senza manutenzione e senza manodopera. Anche Thefork preleva una cifra per ogni prenotazione fatta al ristorante, senza pagare i cuochi, senza servire a tavola e senza lavare i piatti. Di Uber, ne abbiamo già parlato. Di Airbnb e sul suo effetto devastante sulla vivibilità delle città turistiche ne è piena la cronaca, ma Airbnb non possiede un immobile, malgrado questo si assegna una quota su ogni affitto di stanze o appartamenti. Una ricerca del procuratore dello stato di New York ha rilevato che il 72% delle unità immobiliari affittate tramite Airbnb operava in violazione delle leggi. Un’altra ricerca sempre su New York dice che il 66% dei ricavi sono illeciti, che la sottrazione di appartamenti ai normali inquilini ha causato un aumento mediano degli affitti di 380 dollari con punte di 700 dollari e che sono nati 4700 hotel fantasma, con il corollario raziale per il quale la perdita della casa in affitto è sei volte più probabile per una persona di colore che per un bianco (Quintarelli, pp. 82-83). «Su Airbnb le persone con un nome afroamericano hanno il 16% in meno di probabilità di trovare ospitalità presso un affittuario rispetto a quanta ne abbiano persone con un nome tipicamente riconducibile a origini ed etnia bianche (Ivi, p. 85).
Questi «non sono operatori tecnologici, sono intermediari di mercato che intercettano una quota del valore aggiunto che fluisce tra produttori e consumatori» (Quintarelli, p. 191). Ogni store delle App trattiene una quota su ogni App scaricata (Apple il 30%) riservandosi il diritto di accogliere o meno le App nello store stesso e proibendo l’istallazione di App al di fuori di questo circuito obbligato. Tutte queste imprese operano nella totalità della rete, ma pagano le tasse nei “paradisi fiscali”. Il tempo del capitalismo che tramite la tassazione finanziava i servizi alla popolazione e parte del welfare, non c’è più, adesso il capitale incamera tutto.
Tutto il settore del delivery gioca su una deregulation che è più una mancanza pressoché totale di regole. I fattorini e gli autisti di Uber sono malpagati, non garantiti, controllati e sfruttati sino all’ultima goccia, perché è questo che fa l’algoritmo dell’ottimizzazione. Ma, se ci pensiamo bene, la cosa più sconvolgente è che senza queste imposizione il modello di business salterebbe. Il capitalismo delle produzioni intensive, delle grandi economie di scala, quello che ha ucciso l’artigianato, non potrebbe esistere senza gli schiavi umani delle fabbriche decentrate e senza quelli della logistica. Il capitalismo estrattivo è una forma di produzione che si basa sul parassitismo assoluto che va oltre lo sfruttamento operaio nelle fabbriche di stampo fordista.
La ripresa produttiva dopo la chiusura provocata dalla pandemia virale è inquadrata in questo sistema, che è caratterizzato dal fatto che non ci siano alternative capitalisticamente valide. Termini o locuzioni come “vampiro” o “atteggiamento predatore” non sono esagerazioni della controparte, sono descrizioni reali del modo di esistere del capitalismo globale e digitale. Globale appunto perché la rivoluzione digitale gli ha permesso quella globalizzazione. Il vero TINA è questo, il Capitalismo come algoritmo/dispositivo che persegue il profitto non ha alternative: è predatore perché così deve fare. Perché la sua missione si svolga, si attui, deve usare tutti gli strumenti e, essendo proprietario dei mezzi di produzione, li piega a questa missione. Il Capitalismo è barbarie e tutto il resto è da prendere in considerazione.
Quando si parla di Capitalismo digitale, si parla di aziende monopoliste o al massimo oligopoliste. Controllano mercati verticali online fissando poi indirettamente anche i prezzi offline. Estraggono profitto dall’intermediazione produttiva prelevandolo da entrambi gli attori della produzione e cioè sia dal capitale, sia dal lavoro. Governano l’accesso al mercato controllando le piattaforme le cui clausole sono unilaterali e non sono frutto di nessuna mediazione. Controllando e rendendo palese la ricercabilità e l’ordine di visualizzazione, incidendo così sulla possibilità stessa di esistenza del prodotto. Godono di effetti rete che riducono il costo di acquisizione dei clienti e la sua fidelizzazione che equivale a un vero e proprio lock-in. Hanno una regolamentazione per la quale non sono responsabili dei contenuti e delle offerte proposte da parte degli inserzionisti. Eludono le tasse approfittando della disparità fiscale tra gli stati e del loro invece essere a carattere globale. Lavorando sull’immateriale, beneficiano di economie di scala infinite, grazie a costi marginali o costi variabili nulli. Tramite gli strumenti tecnologici in loro possesso, controllano l’attività dei produttori di valore, sia per quanto riguarda la classe padronale sia di quella lavorativa. Stabiliscono condizioni di lavoro mascherate in rapporti occasionali, applicando forme di controllo diverse da quelle tradizionalmente in essere nei consueti rapporti di lavoro. Impongono condizioni di fornitura obbligatoria. Usano la facoltà di esternalizzazione e di flessibilità nei confronti dei vari collaboratori sfruttando la porosità dei perimetri aziendali determinate dall’informatizzazione delle attività. Intermediano offerte tra operatori non qualificati e quindi professionalmente non determinati che riducono i diritti e le tutele colpendo così, meglio, accanendosi così nei confronti delle classi meno privilegiate. Influenzano l’opinione pubblica. Influenzano il pensiero scientifico sia finanziando certi tipi di ricerca e non altri, sia pagando opinion leader e policy maker in ogni dove. Controllano l’accesso al mercato tramite l’uso obbligatorio di certi canali di vendita (per esempio tramite gli App Store). Sono la base di riferimento per gli investimenti da parte dei capitali a rischio, creando così un connubio circolare che li fa essere consustanziali dello stesso disegno (Quintarelli, pp. 192-194)
Visto che si tratta molto spesso di forme di intermediazione, che lucrano anche verso i settori produttivi estraendo un plus valore da sovra applicare al plus valore usuale, si potrebbe pensare a piattaforme pubbliche o a una collettivizzazione dei dati assegnando loro lo statuto di bene comune. Immaginatevi una piattaforma comunale tipo Uber. Airbnb gestito da un sito pubblico. Un motore di ricerca anch’esso pubblico. Tutto queste cose sanerebbero le contraddizioni, i paradossi e le ingiustizie di cui abbiamo parlato, impedendo al capitale di fare il suo sporco lavoro, facendo cioè qualcosa che è perfettamente il contrario del compito che il dispositivo capitalista vorrebbe e dovrebbe svolgere. Ma allora non ci sarebbe più un Capitalismo di prospettiva e anche quello legato al mercato reale dei beni materiali non avrebbe vie di sviluppo. Insomma, il Capitalismo avrebbe compiuto il suo percorso storico, aprendo la storia ad altre possibilità.
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Stefano Quintarelli, Capitalismo immateriale. Le tecnologie digitali e il nuovo conflitto sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2019.
Rosi Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, Derive Approdi, Roma 2014.
Gilberto Pierazzuoli
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