La strategia comunicativa dell’odio: un’Avvertenza

La mia breve riflessione va considerata come un’Avvertenza. L’avvertenza consiste in un’informazione che richiama l’attenzione su qualcosa che è utile riportare alla memoria e tenere sullo sfondo a quanto dirà Luciana Brandi sulla strategia comunicativa dell’odio.

Per comprendere il successo delle strategie comunicative della nuova vecchia destra, a mio parere, occorre rivolgersi alla storia degli ultimi 40 anni, ricordando che “la storia è vita vera” come diceva Anna Banti. Tale successo è il frutto di due eventi concomitanti: da una parte la guerra dichiarata al lavoro e alla democrazia – una guerra che assume spesso i caratteri di una vera e propria vendetta sociale – dall’altra l’assunzione a norma di tale conflitto da parte della socialdemocrazia che si perse negli occhi della Medusa del liberismo, dimenticando che l’obiettivo-valore della sinistra era l’uguaglianza, corollario e condizione della libertà di donne e uomini.

In questo punto preciso della nostra storia, la sinistra cede culturalmente e politicamente, divenendo subalterna alla deriva liberista (cfr. Mario Tronti, Politica e cultura, 3 aprile 2004).

Come sappiamo il liberismo propugna un sistema economico basato sulla libera concorrenza e limita la funzione dello Stato alla rimozione degli ostacoli che la impediscano. La cosiddetta mano invisibile del mercato assicura che dal vantaggio individuale discenda il benessere collettivo (riedizione del settecentesco vizi privati e pubbliche virtù di Mandeville).

Tale visione del mondo ritorna in auge negli anni Settanta del Novecento con la globalizzazione che fa saltare del tutto, alla fine degli anni Ottanta, il compromesso dello Stato liberal-democratico, che si rivela così una breve parentesi all’interno della millenaria storia della disuguaglianza, che inesorabilmente riprese il proprio corso. L’Unione europea nasce in questo contesto (7.2.1992).

Per questo è opportuno tenere presenti due cose:

1 – Senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale come non si stanca di ripetere Zagrebelsky.
2 – Negli anni che vanno dal secondo dopoguerra fino agli inizi degli anni Settanta, in Europa ed USA si ha un sostanziale pieno impiego con un tasso di disoccupazione che dal 4-5 % degli anni 50 scese fino a raggiungere una media del 1,5% all’inizio degli anni settanta, fino a risalire al 5% nel 1975.

Proprio per questa piena e durevole occupazione che spostava a favore del lavoro i rapporti di forza, fin dalle sue origini la globalizzazione liberista punta ad un drastico ridimensionamento del potere politico e contrattuale dei/delle lavoratori/trici attraverso la strategia della disoccupazione di massa, ristabilendo per questa via il controllo sociale sulla forza-lavoro.

La guerra del capitale contro il lavoro e la democrazia inizia con il secondo shock petrolifero del 1979. Nella riunione del luglio di quell’anno a Tokyo dei 7 paesi più industrializzati si partì dalla constatazione che i salari reali erano troppo elevati, mentre era scarsa la redditività delle imprese (la caduta generale del saggio di profitto). Si decise di risanare l’anomalia attraverso la flessibilizzazione del lavoro e soprattutto con la disoccupazione di massa, scelta che non sarà più abbandonata e che rappresenta un colpo al cuore alle libertà di tutt* perché la precarietà che ne deriva, segna l’ingresso nel mondo della sottomissione. Coglie il senso di quella riunione l’ecomarxista James O’ Connor il 3.5.1980, quando afferma che la nuova destra vuole un capitalismo del duemila insieme agli operai dell’Ottocento.

La realizzazione della disoccupazione di massa segue due strade: si disarticola la grande fabbrica attraverso la delocalizzazione aprendo fabbriche in paesi dal costo del lavoro e protezione sindacale più vantaggiosi, con conseguente perdita di milioni di posti di lavoro nei paesi d’origine1 funzionale solo all’aumento dei profitti (Il fenomeno della trans nazionalità delle imprese è ben rappresentato dalla Fiat, che dal 2000 al 2010 ha diminuito del 28,2% la produzione in Italia, aumentandola del 16% in Sud America, del 10% in Europa orientale e del 2,8% in Asia).

 La seconda strada avviene attraverso la cosiddetta riprogettazione (reengeneering) consistente nell’individuare quelle attività che possono essere eliminate o esternalizzate. La sola General Motors dal 1978 al 1995 elimina 250.000 posti di lavoro. E li chiamarono esuberi, un di più, scarti umani da smaltire e la stessa sorte sarà riservata ai migranti.

I dati al gennaio del 1993 rispecchiano le conseguenze di questa strategia: in Europa la disoccupazione è in media al 14%. Ma di fronte a questo quadro, il rapporto OCSE del maggio 1994 afferma che per “ottenere un aggiustamento dei salari, è necessario un livello più alto di disoccupazione”, un ricatto in stile da malavita organizzata, con l’aggravante di mentire in quanto si afferma che la causa della disoccupazione è dovuta al Welfare State che rappresenterebbe una domanda di giustizia sociale arcaica. Ed avremo diminuzione dei salari a fronte di un aumento della durata della giornata lavorativa, massicci licenziamenti e, per chi resta, una mano d’opera da assumere o licenziare a seconda il variare degli ordinativi: ad un nucleo ristretto di dipendenti a tempo indeterminato si giustappone un esercito di ventura privo di garanzie occupazionali e giuridiche: lavoro in appalto, a termine, interinale, in affitto, ad ore ecc. Quindi il mondo del lavoro sperimenta per primo una democrazia senza più diritti.

Ma l’aspetto ancor più pervasivo l’impresa snella lo presenta attraverso la rivoluzione organizzativa della qualità totale (Nel 1989 quando Romiti lanciò la qualità totale alla Fiat seguì la chiusura della Lancia di Chivasso con il licenziamento di 4.800 operai. Il secondo atto alla fine del 1993 fu il licenziamento di 12.000 dipendenti (il 20% dell’organico complessivo) con una composizione segnata dalla forte presenza di impiegati, quadri, funzionari, dirigenti.) che immette nel processo produttivo l’esperienza, l’intelligenza, la creatività del singolo lavoratore/trice, al quale è chiesto di partecipare direttamente alla ridefinizione del processo lavorativo (Il metodo ha portato a ridurre scarti, errori, anomalie da qualche per cento a qualche parte per milione), perché nella nuova realtà mondiale per poter competere occorre una cooperazione efficiente tra forza-lavoro e direzione d’impresa. Si trasforma così il conflitto sociale in cooperazione: se la fabbrica taylorista intendeva controllare l’identità operaia, quella postfordista intende dissolverla costruendo un modo di pensare comune tra il lavoro vivo e il comando d’impresa. Lo scopo è far sì che le disuguaglianze, i rapporti di subordinazione e di sfruttamento, non siano pensati come tali. Un capolavoro egemonico che realizza il sogno di ogni tiranno: controllo del corpo e della mente.

Se tra forza-lavoro e direzione d’impresa deve correre una contiguità culturale, questa azione educativa non può essere circoscritta al solo luogo di lavoro, c’è bisogno di un sistema formativo che, oltre a produrre capacità professionali immediatamente spendibili, produca un “saper essere” diffuso centrato sulla docilità, la disponibilità, la sottomissione.

Dato che creare proprie scuole è per le imprese finanziariamente insostenibile, meglio asservire il sistema pubblico entrando in modalità anticostituzionale con i finanziamenti pubblici alla scuola privata; si avranno la scuola delle tre I di Berlinguer: Inglese, Informatica, Impresa; l’inno alla selezione per censo con la più grande truffa nei confronti delle nuove generazioni data dalla riforma universitaria del 3+2 con la laurea breve priva di ogni valore. E si afferma che i numeri chiusi o programmati vanno a vantaggio degli studenti meritevoli e motivati (Il Sole-24 Ore del 27.1.1996); che il sistema educativo di massa è improduttivo e costoso visto che il lavoro per tutti non c’è; che il libero accesso all’Università è una conquista demagogica della sinistra (cfr. Rettore dell’università di Torino e l’On. Violante 14.1.1997).

Era inevitabile che un sistema formativo ed educativo asservito ad un ottuso funzionalismo d’impresa e finalizzato a produrre conformismo favorisse la diffusa povertà culturale dentro la quale siamo immersi. Anche per questo l’analfabetismo riprese a crescere (I tassi di analfabetismo di ritorno sono al 30% fra i 25 e i 65 anni secondo i dati della Fondazione Feltrinelli del 2019) soprattutto nelle zone più ricche come la Lombardia, mentre la ricerca era quasi a zero.

Al contempo si assiste alla delocalizzazione del potere con l’ascesa di istituzioni extra-nazionali (FMI, BMI, Nafta, Wto, i Trattati europei, BCE, il Mes presentato come “Fondo salva-stati”) che sono per lo più organismi e trattati non legittimati da nessun voto popolare, né sottoposti a nessun tipo di controllo democratico, che impongono agli Stati-nazione la distruzione dello stato del benessere. Tutto evidenziava che il capitalismo appropriandosi di fatto del potere legislativo ed esecutivo, tornava ad agire contro la democrazia come negli anni Venti e Trenta del Novecento. Tuttavia lo Stato non scompare, si privatizza divenendo il rappresentante locale dell’impresa mondiale, poiché le oligarchie transazionali diffuse fissano l’obiettivo, mentre quelle statali partecipano attivamente al suo raggiungimento. Ciò che il libero mercato e le oligarchie distruggono non è la sovranità nazionale bensì quella popolare, la democrazia, anche attraverso i ripetuti attacchi allo Statuto delle Nazioni Unite, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e alla Costituzione italiana.

Con questo sociale-storico già terremotato economicamente, socialmente, culturalmente, eticamente a metà degli anni Novanta, si entra nel nuovo millennio (la frattura sociale a livello mondiale è drammatica: nel 1992 il quinto più ricco si spartiva l’82,7% del reddito mondiale e il quinto più povero l’1,4%; nel 1999 siamo rispettivamente all’85% contro 1,1%. Un divario 1 a 77). Sulle sue rovine precipita la crisi del 2007-2008, confermando ulteriormente che lo spazio della globalizzazione è uno spazio in cui circolano liberi capitali, merci, servizi, armi e guerre ma non diritti. Quindi la globalizzazione è una precisa e potente strategia di trasformazione della società in senso reazionario e la sua costitutiva pulsione autoritaria è inscritta nei processi materiali di un sistema mondiale costruito sulle ingiustizie di classe, di razza e di sesso intimamente fuse. E’ proprio sulle macerie della democrazia sociale che si delinea la silhouette del fascismo postmoderno in quanto è abbastanza logico che idee fasciste camuffate da leggi economiche, o da presunti imperativi di bilancio, vadano a gonfiare movimenti politici neo-fascisti.

La nuova vecchia destra intuisce che in un contesto segnato dalla desertificazione culturale, sociale, civile perseguita dal liberismo, la propaganda xenofoba e pogrom antimigranti e antirom possono essere il carburante per un consenso di massa da mobilitare per una restaurazione sociale reazionaria. Il retroterra immediato della destra sta nella violenza del liberismo il quale da subito considera ogni forma di democrazia sociale un impaccio inaccettabile. Non è un caso che il disprezzo delle persone vada soprattutto ai politici, ai partiti, alla sinistra, pochissimo a chi detiene il potere economico. Infatti di fronte alla spaventosa crescita delle disuguaglianze, la nuova vecchia destra non mette in campo la redistribuzione della ricchezza attraverso la tassazione progressiva e politiche di welfare avanzato, ma la strategia dei capri espiatori dei penultimi messi in conflitto con gli ultimi.

Ma occorre avere il coraggio di ammettere che le parole della menzogna e dell’odio si diffondono perché esiste già un sentire diffuso che si identifica in quello che viene detto. Il successo di Fini e della Lega nelle elezioni del 1993 era già il sintomo di un movimento nella società, che segnava la nascita di una destra di massa, interclassista, eversiva più che conservatrice, segnata com’era dalla vecchia classica ostilità della destra verso l’uguaglianza, il socialismo, la democrazia, il parlamento. Per decenni si è sottovalutato il leghismo, considerando semplici boutade le uscite razziste e maschiliste di Bossi, Calderoli, Borghezio, ecc. Al riguardo vanno ricordate che le ingiurie a connotazione sessuale colpiscono in particolare le donne: mi limito a citare – per le parlamentari – gli insulti rivolti a Margherita Boniver, Rosy Bindi e Laura Boldrini. Si è minimizzato anche riducendo la Lega a “costola della sinistra”, senza rendersi conto che non si trattava solo di un travaso elettorale (comunque grave e preoccupante) ma registrava lo spostamento dei ceti medi e strati popolari su posizioni illiberali quando non reazionarie. Come accadde alla vigilia del fascismo storico.

Il Coronavirus ha svelato più di qualsiasi discorso razionale cosa ha prodotto la guerra al lavoro e alla democrazia in corso da 40 anni: Il virus ha reso visibile che l’economia viene prima della vita. Evidenzia anche che la narrazione dell’individuo proprietario, l’invito a farsi imprenditore di sé stesso e l’esaltazione della competizione hanno prodotto l’individuo ultraegoistico e radicalmente cinico, esemplato sia dal comportamento della Confindustria lombarda (oggi il suo presidente è a capo della Confindustria nazionale) sia dai civilissimi cittadini che sciamano nelle loro seconde case come novelli Boccaccio, ma sono certissimo che non avremo nessun nuovo Decameron.

Impareremo qualcosa da questa lezione? Ad oggi non sembra. L’unica certezza che ho è che non c’è solo bisogno di competenza linguistica ma di una coscienza linguistica, che si conquista con una lingua legata al rispetto di ogni forma di vita, sola alternativa questa, alla pressione di tele universo, alla dittatura dell’algoritmo e alla “pornografia della rete” (Jean Baudrillard 1987). In sintesi non si sconfigge il neo-fascismo con la sua violenza materiale e verbale se non si sconfigge il fascio-liberismo che la alimenta.

*Aldo Ceccoli

(Relazione tenuta il 15 settembre 2020 all’incontro con Luciana Brandi dedicato a “Fanfare e povertà culturale: il linguaggio della paura e dell’odio nelle odierne tribune“, organizzato a Firenze, dalla Libera Università Ipazia al Giardino dei Ciliegi)