“SanPa”, una serie per capire dove nasce l’Italia tossica e fascistoide di oggi

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“SanPa: luci e tenebre di San Patrignano”, la prima docuserie italiana prodotta da Netflix con regia di Cosima Spender, ha il merito di far comprendere quale fosse il livello di degrado raggiunto dall’opinione pubblica negli anni Ottanta. L’arrembante tv commerciale pronta a tutto pur di fare ascolti, politici che si accaparrano senza scrupoli la pancia degli italiani, giornalisti di bassa lega e nomi altisonanti che coprono culturalmente e danno voce agiografica all’esperienza di “successo” di Vincenzo Muccioli. Un mix allucinogeno, è il caso di dire, che trasforma un padre padrone e un’istituzione totale nel “modello vincente” per risolvere il problema della tossicodipendenza, togliendo gli “zombi” dalle strade di un’Italia perbenista, incapace di affrontare, come sempre, le emergenze con lucidità, razionalità e nel rispetto dei diritti dei più fragili. Un “modello di successo” che ha la colpa, infine, di aver distrutto altre esperienze di accoglienza alternative, più aperte e rispettose della persona, capaci di andare oltre gli schiaffi (Muccioli arrivava in sala mensa e puniva pubblicamente il malcapitato battendo le mani ai lati della sua testa emulando la pubblicità del Sole Piatti).

A sinistra Vincenzo Muccioli, a destra un ragazzo incatenato

Il tema della violenza è centrale. Chi entra nella comunità per tossici più grande d’Europa, San Patrignano sulle colline di Rimini, è privato dei suoi diritti in nome di un bene più alto: l’uscita dalla dipendenza della droga. Non sono però le norme di uno Stato di diritto a guidare, seppur tra mille assenze, limiti e contraddizioni, il percorso verso l’emancipazione dalle sostanze, bensì lo Stato etico di Vincenzo Muccioli, boss taumaturgico pronto a “sacrificare” la propria vita a favore della “salvezza” delle centinaia di “figli” che ospita.

La cronaca, recuperata in SanPa grazie anche a documenti e testimonianze inedite, racconta come nell’ottobre del 1980, a soli due anni dalla fondazione, i carabinieri irrompano nella piccionaia del cascinale trovando quattro persone incatenate nel gelo e tra gli escrementi degli animali. Privati della loro libertà personale “perché così è necessario”, “per il loro bene”, dicono coloro che li imprigionano. Muccioli verrà condannato in primo grado e assolto nel secondo. Ma da qual momento, grazie all’aiuto dei media che giustificano la violenza e che portano decine di miliardi di lire in donazioni, la comunità decolla e diventa il modello per salvare i giovani dalla droga “con ogni mezzo necessario”, perché “questa è una famiglia, non una comunità terapeutica” – teorizza Muccioli – “qui se ci entrate ci restate. Se volete andare via a tutti i costi, ragazzi, io vi isolo”.

Un modo di fare che piace agli italiani, sempre alla ricerca dell’uomo forte al comando, dell’uomo della provvidenza che permette loro, grazie al pugno di ferro, di ignorare la complessità della società moderna e di continuare a vivere nel perbenismo ignorante che ancora oggi domina le politiche securitarie, basti pensare a termini come “degrado” e “decoro” incorporati nell’ordinamento giuridico del paese e branditi quotidianamente contro chi vive ai margini.

Si arriva tra mille polemiche e adulazioni pubbliche in piazza e in tv al 1993, quando viene ritrovato il cadavere di Roberto Maranzano, “figlio” di San Patrignano ucciso nel 1989 nella porcilaia della struttura dopo essere stato pestato e torturato perché non allineato con la “legge” in vigore all’interno della comunità. Ad esso si sommano alcuni suicidi dalle dinamiche non chiare, come quello di Natalia Berla che il fratello gemello Sebastiano racconta agli autori di SanPa (Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli) come il frutto di una sorta di malore attivo di pinelliana memoria che avrebbe colpito la sorella nel gettarsi da uno stretto pertugio finestrato. Muccioli viene condannato a 8 mesi di reclusione per favoreggiamento nell’omicidio di Maranzano, mentre gli esecutori materiali furono condannati dai 6 ai 10 anni. Il processo segna l’inizio del declino del padre padrone Muccioli che muore per una malattia misteriosa nel 1995, lasciando in eredità la sua creatura al figlio Andrea, a lungo intervistato nel documentario, che la guiderà fino al 2011.

Se vogliamo dar seguito alle teorie, non tanto campate in aria, che la diffusione dell’eroina e delle dipendenze sia stata in quel periodo in qualche modo sostenuta dal potere come arma contro una generazione pericolosamente in rivolta (si veda Operazione Bluemoon, Eroina di Stato), possiamo affermare che San Patrignano ha rappresentato un “modello” di normalizzazione dei sopravvissuti. Un “modello” che ancora oggi fatica nel fare i conti con una storia e un’identità ricca di violenze e prevaricazioni, anche se attualmente San Patrignano è una struttura controllata dalla legge e i piani terapeutici sono frutto di un confronto continuo con i Serd e le Asl di riferimento.

Inutile dire che la serie SanPa non è piaciuta sulla collina riminese. Il presidente Alessandro Rodino Dal Pozzo ha dichiarato al Resto del Carlino che si tratta di “un racconto di parte […] forse allora ci sono stati episodi controversi […] c’era tanta violenza anche tra i ragazzi […] certi episodi vanno contestualizzati” ed è uscito un comunicato ufficiale molto duro nei confronti dell’enorme lavoro di ricostruzione compiuto dagli autori. Dalle pagine de La Stampa pare rispondergli Fabio Anibaldi, ex responsabile della comunicazione di SanPa a cui Muccioli ha tenuto nascosta per anni la sua sieropositività all’Aids, testimone informato dei fatti nella docuserie, che ha commentato così la reazione irritata dei vertici di San Patrignano: “Non accettano critiche, è la logica dell’o con noi o contro di noi, non c’è dissenso all’interno e tanto meno è concepibile quello al di fuori. Accettano solo l’ammirazione incondizionata per la loro opera, che è la logica tipica di certi regimi totalitari”.

“Un regime totalitario” quello raccontato da SanPa, cinque ore di ottima fattura giornalistica e documentaristica. Una serie da vedere e far vedere, per capire, a partire dall’enorme consenso per San Patrignano, come l’Italia sia passata dai Settanta, il decennio dell’espansione dei diritti, ai Novanta e seguenti, gli anni della nuova legittimazione della violenza e della cultura fascista nel dibattito pubblico nazionale. Un’epoca storica che ha portato prima partiti come Alleanza Nazionale e Lega Nord a governare il Paese e che ci conduce direttamente alla drammatica situazione odierna, in cui i movimenti post fascisti di Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno ottime possibilità di avere una solida maggioranza nel paese e trasformare l’attuale simulacro di democrazia in un pericoloso brodo paternalista rifondato su Dio, Patria e Famiglia.

Cristiano Lucchi

“SanPa: luci e tenebre di San Patrignano” è una serie realizzata da Netflix, prodotta da Gianluca Neri, scritta da Carlo Gabardini, Gianluca Neri e Paolo Bernardelli e con la regia di Cosima Spender.

 

 

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Cristiano Lucchi, giornalista e mediattivista, dirige Fuori Binario, giornale dei senza fissa dimora fiorentini. Ha fondato e diretto l’Altracittà – giornale della Comunità delle Piagge. Ha pubblicato “Autopsia della politica italiana” (2011), “L’imbroglio energetico” (2012), “Il Laboratorio per la Democrazia. La politica dal basso” (2012). È un attivista di perUnaltracittà.

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