Cecilia Mangini, documentario e passione politica

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Cecilia Mangini se n’è andata pochi giorni fa e tutti l’hanno ricordata come la prima documentarista donna italiana. Bisognerebbe aggiungere che è stata una delle più grandi. Unica donna in un mondo di uomini, quello del cinema e del documentario italiano degli anni 50 e 60 del Novecento, è stata fortemente influenzata dal neorealismo, ormai al tramonto al momento del suo esordio registico.

I primi lavori della Mangini risentono molto della sua amicizia e collaborazione con Pier Paolo Pasolini Ignoti alle città del 1958 e La canta delle marane del 1961, sceneggiati da Pasolini, hanno come protagonisti i ragazzi di vita pasoliniani. Ragazzi poveri che vivono di espedienti completamente estranei al boom economico che l’Italia sta attraversando.

Ma il punto più alto della collaborazione tra i due è senza dubbio Stendalì – Suonano ancora, cortometraggio dedicato ai canti funebri della Grecìa Salentina. Siamo nel 1960 a Matrano in Puglia e un gruppo di lamentatrici canta nella casa della madre di un giovane morto. Non so se questo sia il capolavoro della regista, ma sicuramente ci si avvicina: i primi piani stretti, i volti quasi in trance, le mani che agitano i fazzoletti, i piedi delle donne che scandiscono il ritmo dei canti. Tutto in un montaggio serrato ed ipnotico mentre i canti in griko salentino si alternano alle loro traduzioni cucite insieme da Pasolini stesso e recitate da un’attrice fuori campo. Stendalì è un lavoro magnetico, ha la profondità di una tragedia eschilea, ispirato dagli studi di Ernesto De Martino ma con uno sguardo tutt’altro che distaccato, Mangini ama questa Italia arcaica che sta scomparendo e vuole che ne resti testimonianza.

La continua tensione tra un’Italia delle città del nord sulla via della modernizzazione e il sud contadino, arcaico e quasi pagano è uno dei tratti fondamentali dei suoi lavori. In mezzo a queste tensioni, nella terra di nessuno tra passato e futuro restano gli ultimi, quelli che non trovano spazio nella nuova società ma non appartengono più alla vecchia: i ragazzi di vita, gli operai immigrati che vivono nelle periferie delle grandi città industriali, i contadini e le donne. Questi sono infatti i protagonisti di Fata Morgana, realizzato in co-regia con il marito Lino Del Fra, dedicato ai ‘terroni’ a Milano e Martino il cui protagonista è un adolescente che sogna di essere assunto al petrolchimico di Brindisi, simbolo dell’industrializzazione del mezzogiorno.

In mezzo a questi lavori nel 1965 Cecilia Mangini realizza Essere donne, una pietra miliare, il primo documentario che racconta la condizione femminile in Italia dal Nord al Sud, tra campagne, fabbriche e dimensione familiare. Essere donne si colloca all’interno di un progetto promosso dal PCI che commissionò la realizzazione di documentari che dovevano raccontare la vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Anche in questo lavoro le bellissime immagini sono montate con un ritmo ossessivo ed ipnotico mentre il commento mette al centro l’impossibilità di una libera scelta delle donne sia nei confronti del lavoro che della famiglia perché lo stato ‘non ha pensato al sociale, agli orari di asili e scuole che non coincidono con quelli delle fabbriche, a nessun tipo di aiuto sul controllo delle nascite’. Ma la forza di questo documentario, il suo mostrare con estrema chiarezza come sulle donne ricadesse ancora il peso di antiche subordinazioni della società patriarcale e la loro presenza nel lavoro e nelle lotte non fu gradita dalle autorità. La commissione ministeriale che sceglieva i corti e mediometraggi per accompagnare la programmazione dei film nelle sale giudicò Essere donne un film carente dal punto di vista tecnico-artistico. In realtà, trattandosi di un film già premiato in diversi festival internazionali, si trattò di censura: l’immagine che ne usciva dell’Italia e del ruolo delle donne nel paese che andava via via modernizzandosi non piaceva e si decise di tagliare le gambe al lavoro della Mangini.

Non era la prima volta che la regista incontrava la censura, era successo anche per il documentario All’armi siam fascisti realizzato con Lino del Fra e Lino Miccichè con il commento di Franco Fortini. L’Istituto Luce aveva negato agli autori l’utilizzo delle immagini d’archivio sul fascismo, costringendoli a ricorrere agli archivi stranieri, e la Mostra del cinema di Venezia non lo aveva voluto in programma. Non solo, ne fu anche bloccata l’uscita per un intero anno.

Questo accadeva perché questo lavoro, come Essere donne, svelava, oltre alla connivenza tra Chiesa e fascismo, l’anima più nera e profonda della società italiana, che si mostrava come un paese industrializzato e all’inseguimento della modernità, ma il suo ventre molle era sempre quello del Ventennio. All’armi siam fascisti non era solo un film sulla storia dei fascismi ma poneva un interrogativo sul presente italiano ‘Esiste ancora il fascismo?’ e la risposta non poteva che essere Sì. Allora come ora.

Nonostante i decenni il messaggio dei documentari di Cecilia Mangini è più forte che mai, l’Italia è sempre un paese con un’anima nera e profondamente razzista e i frutti amari dell’industrializzazione che ha arricchito i pochi a scapito della maggior parte della popolazione sono tutti di fronte a noi. Da Nord a Sud, da Marghera a Brindisi i grandi impianti dell’epoca hanno finito per avvelenare lavoratori, popolazioni e territori. E oggi come allora la Rai non mette a disposizione neppure sul canale on demand i suoi film. 

(A questo link una puntata del programma Cortoreale dedicato a Cecilia Mangini)

*Francesca Conti

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