Negli ultimi mesi si sono riaccesi i riflettori sui luoghi abbandonati e sulle periferie d’Italia, non solo come contraltare al sovraffollamento e alla vita inquinata delle metropoli – che oggi appaiono più desolate dei paesi fantasma, con piazze e strade vuote, quasi desertificate dall’assenza del turismo di massa -, ma anche grazie al recente fenomeno del southworking. I southworkers sono gli immigrati di ritorno, i quasi centomila lavoratori in smart working di imprese e aziende, anche medio-piccole, con sede nel Centro Nord del Paese. In un capitolo del rapporto Svimez, uscito a novembre e realizzato in collaborazione con l’associazione della giovane palermitana Elena Militello “South Working – Lavorare dal Sud”, si legge che l’85,3% degli intervistati tornerebbe a vivere al Sud, se fosse loro consentito, e se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto. Naturalmente, i costi di gran lunga più accessibili, uno stile di vita meno frenetico e a contatto con la natura sono le motivazioni principali di tale scelta che, però, deve tener conto anche della mancanza di servizi, sanitari in primis, ma anche alla persona e al cittadino (asili, rsa, offerta culturale, trasporti, etc).
Purtroppo, il tema dello spopolamento del Meridione, dell’abbandono della propria terra per partire alla ricerca di un’opportunità di vita e di lavoro è un’annosa questione, che affonda le radici nel post Unità d’Italia, quando si unificarono Italie diverse che, tutto sommato, versavano in condizioni economiche simili. Le scelte politiche in materia di industrializzazione e infrastrutture, poi, fecero il resto, affossando definitivamente il Meridione – come si legge ne Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897 del deputato Francesco Saverio Nitti – con un «esodo di ricchezze dal Sud al Nord». L’esodo, com’è ovvio, non riguarda solo il territorio, ma è anche e soprattutto un depauperamento di risorse umane e sociali, di identità e di memoria.
È con questa consapevolezza che sono partita, due anni fa, alla volta dell’area grecanica della Calabria, la mia regione di nascita nonché una delle più colpite in Europa dal fenomeno dello spopolamento. L’area si trova nella punta estrema dello Stivale, all’interno del Parco Nazionale dell’Aspromonte e comprende la maggior parte del territorio della provincia di Reggio Calabria. Terre di conquiste da sempre, questi territori furono colonie greche già a partire dall’VIII sec. a.C.; l’identità della gente di Calabria si è forgiata nei secoli su matrici greche e bizantine, per poi consolidare gli aspetti della cultura romana di epoca tarda, fino alla seconda metà del secolo XVI, quando cadde l’ultima diocesi orientale a Bova – attuale capitale dell’area grecanica. Ancora oggi, sono ben visibili le tracce del passato ellenico, nelle ricette, nelle tradizioni, nell’artigianato e, ovviamente, nella lingua grika – come ha dimostrato il glottologo tedesco Gerhard Rohlfs, a cui è dedicato il Museo della lingua greco-calabra di Bova .
Percorrendo i vari paesini dell’area, è facile passare dalle strade scoscese di Roghudi vecchio e Gallicianò alle spiagge argentate della Costa dei Gelsomini scelte dalle Tartarughe Caretta caretta per la nidificazione, da altipiani estremi attraversati da fiumare – alcune vette del massiccio dell’Aspromonte sfiorano i 2000 m – a campi di bergamotti e uliveti a perdita d’occhio, e poi ancora Pentedattilo in cui riecheggiano le antiche leggende della famiglia Alberti, Africo e Capo Spartivento. Allo stesso modo, bisogna superare le asprezze iniziali per entrare in contatto con l’umanità profonda e l’ospitalità degli abitanti, quella filoxenía di cui si parla nell’Odissea, che è ancora uno dei tratti distintivi di questa zona d’Italia. Gente e luoghi che tentano di sopravvivere allo spopolamento, fenomeno cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni: naturalmente, con esso si va sfaldando anche la cultura rurale, contadina, che rappresenta la culla delle nostre radici identitarie e, in questo senso, la difesa e la cura di questi territori possono essere letti, in qualche modo, come una forma di militanza politica e sociale.
Nonostante sia difficile liberarsi dal fardello di “avamposto della ‘ndrangheta” affibbiato dalla stampa e dall’opinione pubblica, non sono pochi gli atti politici di coloro che decidono di restare, di non andarsene, di coloro che ritornano o di coloro che semplicemente decidono di trasferirsi da queste parti, rinunciando alla cosiddetta modernità. Ma davvero poi – si domanda Vito Teti, uno degli studiosi più attenti a questo tema, antropologo e docente dell’Università della Calabria – l’idea di restare è l’antitesi del viaggiare e della trasformazione? La restanza, neologismo coniato dallo stesso professore, è proprio il coraggio di quelli che restano scommettendo su un altro stile di vita, salvaguardando questi luoghi e dando loro una nuova vita.
Come Ciccio, che a Condofuri superiore unisce il suo lavoro come barbiere alla sua passione per i tamburelli, che fabbrica artigianalmente con pelle di capra, animale sacro da queste parti. O come Ugo, proprietario di uno dei campi di bergamotto più ricchi della zona di Amendolea, che – dopo vent’anni in Nord Italia – ha deciso di tornare a casa per fare delle proprietà di famiglia la sua ragione di vita, dando vita ad un sistema di ospitalità diffusa ed esportando l’essenza di bergamotto in tutto il mondo. O come Rosetta, che dopo anni di insegnamento a Milano, ha deciso di fermarsi a Bova, in una casetta vista Etna, perché ha imparato a guardare quei luoghi con occhi diversi. O come Maria Olimpia, docente e linguista da anni impegnata nella difesa e promozione della lingua grika con summer school e altre attività insieme all’associazione Jalò tu vua.
Josef Koudelka, fotografo ceco autore di progetti iconici sui maggiori siti archeologici del Mediterraneo, diceva che «le rovine non sono il passato, sono il futuro che ci invita all’attenzione e a godere del presente». Ecco, la pandemia dovrebbe servire a ribaltare un po’ di paradigmi, a ripartire dalle periferie per riviverle senza nostalgie, anzi per generare nuove forme di comunità. La natura e l’offerta culturale ed enogastronomica possono sì concorrere alla tenuta di questi territori, a ricreare dinamismo ed economia, a patto di non svendere questi beni in nome del dio turismo. Ma servono soprattutto interventi mirati, legati alle infrastrutture, alla tutela del paesaggio – che è poi anche tutela della memoria e dell’identità – e alla creazione dei servizi essenziali. Solo così si può permettere a chi abita questa terra di scegliere consapevolmente e liberamente se partire o restare, e fermare finalmente la spirale dello spopolamento. (Foto di Gabriella Falcone)
*Gabriella Falcone
Gabriella Falcone
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