“Reclaim the media”. Quando ancora non esistevano gli hashtag, circa vent’anni fa, negli Stati Uniti i gruppi della società civile che cominciavano a rendersi conto degli impatti perversi della liberalizzazione economica e commerciale sui diritti delle persone e del pianeta, si resero conto che uno dei problemi più gravi che avevano nel provare a raccontare questi problemi connessi alla globalizzazione dei mercati e, soprattutto, nel convincere l’opinione e la politica che andassero affrontati con urgenza.
C’era un vero e proprio “tappo” nella comunicazione mainstream rispetto a questi temi, nei giornali, nella televisione, determinato dalla proprietà dei mezzi in mano, direttamente o indirettamente, a quegli stessi grandi gruppi finanziari internazionali che spingevano per una liberalizzazione rapidissima e profonda, il passaggio dalle mani pubbliche a quelle private di tutti i servizi di interesse generale: sanità, energia, istruzione, ma anche comunicazioni e informazione.
La “rete delle reti”, Internet, sembrò il miglior modo per spostare massicciamente questo flusso di informazioni preziose sul futuro dall’etere a un nuovo spazio, allora non colonizzato da grandi realtà finanziarie. I grandi contro – vertici – da Seattle ai meeting della Banca Mondiale, da Davos a Porto Alegre, fino al G8 di Genova – furono assediati da mediattivisti che raccontavano in modo accessibile il “dentro” – fatto di complessi negoziati, trattative, compromessi troppo spesso contrastanti con l’interesse pubblico – a chi era “fuori”, a protestare, interessando anche i media tradizionali a questa contro-narrazione che diventava, così, più accessibile e fruibile per un numero più ampio rispetto agli interlocutori usuali come sindacati, imprese, eletti.
“Don’t hate the media, become the media”: ciascuno diventò mezzo di comunicazione, indipendente. “Indymedia”, la rete di mezzi d comunicazione messa in piedi da mediattivisti di tutto il mondo pe raccontare e sostenere le proteste contro l’Organizzazione del commercio a Seattle nel 1999, riuscì a diffondere nel suo successivo periodo di espansione ben 89 International Media Centre: nodi di creazione e diffusione online di video, audio e articoli di approfondimento su economia, ambiente, reazione sociale e attivismo da 31 Paesi e 6 continenti. La “voce da Sud” diretta, sincrona, fu tra le più potenti fonti di controinformazione: dimostrò che spostare le fabbriche altrove non significava crescita, se i lavoratori dei Paesi poveri che le vedevano crescere guadagnavano come schiavi, rischiando la vota e il proprio ambiente naturale perché i nuovi impianti venivano dislocati lontano proprio per risparmiare su salari, sicurezza e salute. Spiegò con i corpi e le voci di chi lo condivideva che “il mondo diverso possibile” che volevamo conquistare per tutte e tutti era a portata di mano, ignorato per difetto di volontà politica, non di fattibilità né di ragionevolezza. Dimostrò nel 2001 al G8 di Genova, di cui in questo luglio celebriamo il Ventennale, che l’informazione indipendente dava fastidio e andava repressa: infatti nella notte delle botte a casaccio nella scuola Diaz le forze dell’ordine sequestrarono, poco prima del raid, computer e strumenti di Inymedia nel media center ospitato nel palazzo proprio di fronte alla scuola.
Vent’anni dopo, dopo aver subito una sindemia che ha dimostrato che non c’è pace per le persone se non fanno pace con la natura affermando i diritti di tutte e tutti, prima dei profitti di pochi, in teoria abbiamo a disposizione social media, connettività totale, possibilità democratiche di condivisione di strategie e pratiche per uscire da questa crisi praticamente infinite. Eppure i media hanno raccontato una propria soap opera: fatta di eroi e uomini soli al comando, di angeli della salute coraggiosi ma precari che oggi, in gran parte stanno già perdendo il posto, di donne e uomini colpevolizzati per essersi fatti impoverire o sfiancare dall’homo homini praedator che ha caratterizzato la fase della trasformazione digital del sistema capitalista che, oltre alle risorse naturali e umane, comincia a sfruttare i nostri dati, preferenze, informazioni più private.
Oggi La Città invisibile raggiunge i suoi primi 150 numeri, a lei, e a tutti i media autoprodotti che raccontano criticamente la possibilità di un mondo migliore, gli auguri di continuare a crescere per incidere sempre più e sempre meglio nell’opinione pubblica italiana e mondiale.
Monica Di Sisto
Monica Di Sisto
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