«A Roma la sinistra si è scordata che la tutela del decoro urbano e della legalità sono valori a difesa dei più deboli» – ha twittato ieri Carlo Calenda a corredo di un video postato sui social.
La sinistra non si è scordata la tutela del decoro. Non ne ha proprio mai parlato, perché in urbanistica questo concetto semplicemente non esiste. Esiste, invece, il tema della qualità urbana. La qualità urbana comprende gli elementi fisici della città, quelli sociali – come i servizi pubblici – e quelli piscologici, che hanno a che fare anche con la percezione della sicurezza, e che evidentemente dipende da come si gestiscono gli elementi fisici e sociali della città. Il decoro, invece, è un parametro puramente estetico per parlare dello spazio urbano.
La malamovida di cui ha parlato Calenda è un’espressione di disagio di persone, giovani e povere abbastanza da non poter pagare più di tanto per il proprio divertimento, in una città votata al consumo, sempre più turistica, e quindi svuotata di abitanti, attività, e di tutto quello che contribuisce alla qualità di un tessuto urbano sano.
Perché, se negli ultimi anni l’imperativo del profitto a breve-brevissimo termine ha investito i quartieri centrali di Roma trasformandoli in Luna Park per turisti, ci si stupisce se oggi questi siano usati dai giovani come… Luna Park?
«Il pilastro del piacere di vivere la città» non è il decoro ma la restituzione dello spazio pubblico alla socialità – possibilmente liberato dalle mafie che a Roma usano il settore del commercio come una lavatrice. Criminalità a parte (quando ne parliamo?) certo, dopo anni di puro consumo, sulla socialità oggi abbiamo qualche problema. Abbiamo idee su come affrontare questo problema, oltre a dire che ci dà fastidio? A quanto pare Calenda non ne ha.
Malamovida a parte, il decoro è questa cosa qui: il 14 luglio scorso Baobab Experience che, nell’assenza del Comune e in presenza di fondi non spesi (9 milioni di euro stanziati per il piano freddo, pubblicato in ritardo, a luglio ancora fermo, oltre a fondi europei non spesi ), si occupa di fornire assistenza ai migranti che transitano nell’area della Stazione Tiburtina, ha subìto il 41esimo sgombero. Sgombero voluto dalla delegata alle periferie Federica Angeli e difeso dalla sindaca Virginia Raggi che ha annunciato «una serie di interventi per prevenire il riemergere di fenomeni di bivacco soprattutto nella prospettiva dei prossimi mesi invernali». A gennaio l’anno scorso erano già nove i morti di freddo sui marciapiedi a Roma, ma a Tiburtina sono arrivate le fioriere anti-bivacco che hanno l’unico scopo di cacciare i poveri e impedire che tornino a dormire nei pressi della stazione – in un contesto di qualità urbana tra i peggiori in Italia a causa della solita assenza di pianificazione pubblica sensata e della solita logica della valorizzazione fondiaria e immobiliare privata. Quindi no, la sinistra non difende il decoro urbano che produce morti, e no, il decoro non è un valore in difesa dei più deboli. Li uccide.
Calenda ha dichiarato di aver studiato da sindaco, ma forse ha dimenticato che a fine Ottocento i problemi di igiene pubblica, quali le epidemie di tifo e colera causate dalla povertà, dallo sfruttamento dei lavoratori immigrati e dalle loro condizioni abitative riassumibili con la parola miseria, sono state risolte non con il decoro urbano ma, quando le città hanno iniziato a occuparsi delle condizioni di vita dei poveri, con la nascita dell’urbanistica moderna, perché solo il pubblico, e non la speculazione privata, poteva affrontare la questione sanitaria nell’interesse pubblico.
Immaginiamo se contro i problemi di povertà e igiene pubblica fossero stati usati gli strumenti del decoro urbano: qualche pittata di bianco, un po’ di fioriere, qualche azione di retake e un sindaco dalla tolleranza zero. Probabilmente saremmo morti tutti di tifo.
Per fortuna non è andata così. Non è andata così perché le persone hanno lottato, e precisamente perché la sinistra, da Marx in poi (Marx non ha scritto granché di urbanistica ma è sempre utile rileggere La situazione della classe operaia in Inghilterra o La questione delle abitazioni di Engels), si è interessata non del decoro urbano ma della difesa dei più deboli, non a partire dai valori dei ricchi, ovvero dal decoro urbano, ma dalle condizioni di vita e di lavoro della popolazione povera urbana. Oggi Calenda farebbe bene a parlare non di decoro urbano ma del fatto che il 40% dei romani dichiara meno di 15mila euro l’anno, che circa 30mila persone percepiscono il reddito di cittadinanza, 50mila hanno chiesto il contributo straordinario per l’affitto, 10mila abitano in occupazioni abitative perché non sanno dove altro andare, 8mila dormono in strada, 12mila sono in attesa di una casa popolare.
Sono cifre che fanno impallidire, cifre indegne di una capitale del G7. Ma non sono cifre, sono persone, a cui Roma non riesce a dare una risposta pur con 100mila case vuote e 30mila case affittate a turisti – di cui il 30% non paga la tassa di soggiorno (ma questo Calenda lo sa). E siccome Roma non riesce a dare una risposta a queste persone, le caccia lontano dalla vista e dalla coscienza con gli strumenti del decoro urbano.
E qui veniamo al tema della legalità. La legalità, lungi dall’essere un obiettivo politico – chi si candiderebbe a governare una città in nome dell’illegalità? – è uno
strumento. Ed è sempre più uno strumento al servizio di un’idea di decoro urbano a uso e consumo di ricchi e turisti, impiegato per continuare a ignorare le questioni, ben più urgenti, di qualità urbana della capitale, problemi complessi, non riassumibili in un tweet, che comprendono anche e soprattutto le questioni sociali. Questioni sociali che nell’attuale fase post-pandemica dovrebbero essere assolutamente prioritarie. E che invece non lo sono – dai, parliamo di malamovida.
Sul tema della legalità, ecco che un piccolo excursus (estremamente attuale) ci torna utile. Dopo le politiche degli sventramenti e delle deportazioni di romani dal centro storico affinché – come scrisse Mussolini nel 1925 anticipando di quasi un secolo l’ossessione odierna per il decoro – «i monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine», nel 1939 la Roma fascista approvò le leggi contro l’urbanesimo, ovvero contro l’immigrazione urbana.
Gli sfratti, le misure repressive e i fogli di via – che anticipano gli odierni Daspo urbani – a nulla erano valsi per fermare la migrazione verso Roma. Così la legge contro l’urbanesimo vietava agli immigrati senza lavoro di prendere la residenza a Roma. Ma alla prova dei fatti neanche un impiego era sufficiente perché ci voleva un certificato dell’Ufficio regionale del lavoro. Ma una legge del 1949 stabiliva che per essere iscritti alle liste di collocamento del Comune bisognava essere… residenti. Suona tutto molto familiare, ma insomma, quando solo nel 1958 venne (dai movimenti) proposta l’abolizione della legge fascista contro l’urbanesimo, Roma contava (e di certo non si trattava di dati ufficiali) 300mila abitanti fantasma: il 15% della popolazione.
Clandestini che abitavano in baracche, case di paglia e cantine ai bordi della città, senza servizi igienici o di alcun tipo, assediati da zecche, tisi e tubercolosi.
Dopo un secolo, la stessa identica legalità fascista è dietro lo sgombero, il 14 luglio scorso, del Baobab a Stazione Tiburtina. Ancora oggi le periferie romane sono territori di miseria e di povertà dove migliaia di cittadini faticano ad arrivare alla fine del mese e altrettanti migranti (non sappiamo quanti) abitano in ricoveri di fortuna, edifici abbandonati, sgomberati e poi di nuovo abbandonati come la ex-Penicillina, in accampamenti informali, tende, o direttamente sui marciapiedi della nostra città. Un candidato sindaco di Roma dovrebbe avere questo problema in cima alla lista delle priorità.
Per risolverlo (con fondi come gli 11 milioni di euro arrivati dal Governo che non si sa come verranno spesi) non per occultarlo con un’idea di decoro urbano che caccia e nasconde i poveri installando inutili fioriere in ogni dove, con Daspo (ne sono stati emessi 5mila solo a Roma dal 2017, perlopiù intorno alla stazione Termini e quindi ai luoghi del turismo), multe e fogli di via. Il decoro urbano non solo è inutile ma è pericoloso, per la salute, per il benessere, per la sicurezza, per la qualità urbana, di tutti.
La politica farebbe bene a svegliarsi dal sogno dei ricchi di separarsi dai poveri. Un sogno che in urbanistica produce solo disastri – ed epidemie. Perché il sonno, si sa, genera mostri.
Sarah Gainsforth per Dinamopress
Sarah Gainsforth
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