Una città socialista nella società capitalista?

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Libera Università “Ipazia” & Il Giardino dei Ciliegi
Una città socialista nella società capitalista?
Sabato 14 maggio 2022

Da quarant’anni è in corso una guerra al lavoro e alla democrazia condotta da quella restaurazione conservatrice che va sotto il nome di globalizzazione liberista. Conseguenza diretta è lo spostamento di decisioni strategiche dall’area democratica a quella capitalistica. Il potere economico ha le mani libere e i governi si trasformano in “commissari politici del potere economico” (Saramago José, Questo mondo non va bene che ne venga un altro, Roma, Datanews 2005, pag. 26). Così si ha una politica sempre più elitaria e antipopolare con il dominio di oligarchie e aristocrazie castali. Se questo erode lo Stato-nazione, tuttavia di fronte all’aggregato composito di bisogni e di popoli, un controllo territoriale va mantenuto in ogni modo. Così lo Stato-nazione non scompare ma risponde a una rete di poteri sovranazionali: economici, finanziari e politici. Non va quindi dimenticato che sono le élite locali a garantire l’applicazione delle politiche neoliberiste decise a livello globale. In questo quadro il compito dei governi e dei sistemi politici locali è quello di giardinieri che preparano il terreno per attirare investimenti e capitali.

Siamo quindi in un’economia che svuota la democrazia rappresentativa, poiché il capitalismo mondiale ha abbandonato qualsiasi idea di riequilibrio delle iniquità e sofferenze che produce. Questi processi economici e sociali hanno specifica visibilità proprio nelle aeree urbane, luoghi in cui le contraddizioni e le lacerazioni del reale si scontrano e si sovrappongono, anche se sono state attivate strategie politiche e argomentative per rendere opachi i fenomeni. Oggi nelle aree urbane, grandi e piccole, precipita e diventa visibile la maggior parte delle variegate patologie della società liberista.

Nei primi anni del nuovo secolo la popolazione urbana ha superato la fatidica soglia del 51% della popolazione mondiale. A questo mutamento di scala vanno sommate le trasformazioni qualitative che hanno rimodellato la città, facendone una sorta di icona del capitalismo post-industriale, forgiata dall’operare congiunto della finanza e della cultura della rendita immobiliare, che mettono in questione “il contenuto di giustizia sociale presente nell’esperienza urbana contemporanea” (Ugo Rossi e Alberto Vanolo, Geografia politica urbana, Bari, Laterza, 2011); le privatizzazioni di aziende municipali, i processi di gentrificazione, le discriminazioni su basi razziali e/o sessuali.

Con la radicale consegna nelle mani del mercato del governo della città e di fronte ai suoi disastri che fare? Trasformare la città in qualcosa di più equilibrato, con architettura di lunga durata e a basso consumo energetico, può bastare? Come sanare la separazione tra il vivere e il costruire?

Per inventare e reinventare abbiamo bisogno di una visione che pensi il mondo in cui viviamo e ne rielabori la percezione. Ben inteso non una filosofia come vuota retorica della rivoluzione ma capace di fornire soluzioni praticabili per migliorare le condizioni di vita delle persone. Solo con l’auto-determinazione sociale si può ottenere quei benefici che né il potere statale né il libero mercato potrebbero mai garantire, tanto più – va aggiunto – che Stato e Mercato oggi sono fusi. Elinor Awan Ostrom è stata la prima donna a ricevere il premio Nobel per l’economia, nel 2009, con la motivazione di aver dimostrato come i beni collettivi possano essere gestiti efficacemente dalle associazioni di utenti (Il principio secondo cui la popolazione è proprietaria delle risorse naturali dello stato – elaborato da Vincent Ostrom – è incluso nella costituzione dello stato dell’Alaska).  Claudio Napoleoni alla domanda “Claudio, dov’è la porta?” (Massimo Riva, Claudio, dov’è la porta? Recensione del Discorso sull’economia politica di Claudio Napoleoni, in La Repubblica, 12 luglio 1985) aveva risposto che “non si tratta di uscire dal capitalismo per entrare in un’altra cosa, ma si tratta di allargare nella massima misura possibile la differenza fra società e capitalismo”, di allargare cioè la zona di non identificazione dell’essere umano con la sola razionalità economica.

L’intima relazione tra sviluppo capitalistico e urbanizzazione si ha nel nesso tra rendita immobiliare e rendita finanziaria. Non si tratta di concentrarsi solamente sul carattere speculativo della finanza. Quel che caratterizza il presente sono da una parte l’eccezionale sviluppo e la complessità dei depositi finanziari, dall’altra la globalizzazione tanto dei mercati finanziari quanto dell’urbanizzazione. Questi sviluppi hanno reso possibile sia un’estensione spaziale dei circuiti dell’accumulazione che ruotano attorno al nesso tra rendita metropolitana e finanziaria, sia una intensificazione di questo nesso, basti pensare a come i mutui subprime abbiano consentito di includervi poveri e minoranze. Qualsiasi ragionamento teso a mitigare le distorsioni del mercato edilizio “s’imbatte nella rendita. La rendita come generatrice di disuguaglianze sociali e di povertà urbane” (Giancarlo Storto, La casa abbandonata, Officina, 2018).

Così la rivendicazione del diritto alla città è destinata a restare un “significante vuoto” (Harvey) se non diventa un “diritto mirato”, che non può esistere all’infuori dell’individuazione dei suoi soggetti e dalla materiale produzione di cooperazione, uguaglianza e libertà. Il diritto alla città è collettivo più che soggettivo, perché reinventare la città dipende inevitabilmente dalla gestione comune dei processi di urbanizzazione. In questo senso reinventare il “diritto alla città” implica la rideclinazione della cittadinanza, significa fare i conti con processi di governo, ma soprattutto individuare i soggetti, le filiere di cooperazione sociale, gli istituti politici e giuridici che possono materialmente rendere effettivo quel diritto.

Con la radicale consegna nelle mani del mercato del governo della città i valori dei costruttori e quelli del pubblico non sono sullo stesso piano. Privilegiare il pubblico rispetto al privato significa iscrivere l’idea di città o politica della città in un progetto generale di società. La riappropriazione collettiva di ciò che il mercato ha espropriato passa attraverso la necessità di rielaborare il nesso tra politica, spazi urbani e corpi sessuati, a fronte dei processi di espulsione e produzione di miseria su cui le città contemporanee si fondano. Lo spazio urbano non è uno “sfondo indistinto del vivere assieme” ma luogo di movimento e di pratiche di corpi sessuati, perciò è necessaria una progettazione modulata sui soggetti diversi che abitano la città per una riflessione sulla convivenza, senza invisibilizzazione e marginalizzazione. Mettere al centro i corpi anziché i dati, il desiderio anziché la paura, le pratiche collettive anziché i dispositivi di sorveglianza, creare alleanze tra i soggetti imprevisti dello spazio urbano liberista e patriarcale, per risignificare e riappropriarsi della città (Federica Castelli e Serena Olcuire, “Smagliata, in addomesticata, conflittuale. Ripensare la città in ottica trans femminista”, in Etnografie del contemporaneo, n. 4, 2021). Non si può parlare di partecipazione pubblica senza parlare di uguaglianza, di giustizia sociale e di libertà (Marvi Maggio). Rileggere gli spazi urbani nel loro legame con la violenza strutturale (la città sessista, la città classista, la città razzista) ma anche in quanto spazi di immaginazione e creazione di senso collettivi.

In generale il problema non è l’integrazione ma l’accesso all’uguaglianza. Come riprogettare un intervento pubblico e collettivo che contrasti quell’economia di mercato che esclude e quindi incapace di assicurare l’interesse generale, l’inclusione e il riconoscimento di tutt* e di ciascun*? Tutto ciò non può che essere incentrato sulla partecipazione. In uno scenario caratterizzato dallo svuotamento degli istituti rappresentativi, si tratta di non dimenticare che lo spazio della rappresentanza non può essere mai pensato come totalmente concluso. Così ripensare la rappresentanza è un’operazione radicale solo se essa comincia col portare la democrazia ai suoi limiti, uscendo in qualche modo dal campo della politica codificata. Una politica dei diritti si fonda sul riconoscimento dell’interconnessione fra libertà ed uguaglianza. Di conseguenza non si può escludere dalla politica nessuna categoria sociale, né alcun conflitto di poteri, nessun progetto di liberazione. Il problema politico per eccellenza è che si passi dal punto di vista dei diritti limitativi al punto di vista di poteri espansivi che si moltiplicano l’un l’altro.

Da anni si parla ovunque di un crescente divario tra ricchezza e povertà; da anni si è messo in evidenza come “ordinamenti e dispositivi spaziali attinenti alla costruzione e gestione della città e del territorio hanno avuto ed hanno conseguenze rilevanti per quanto riguarda le relazioni di integrazione o esclusione, tra ricchi e poveri” (Bernardo Secchi); da anni si è parlato delle sfide poste dalla nuova questione urbana a cui però non si è dato nessuna risposta poiché – anche in questo caso – a nostro parere non si è formulata la domanda: quale società vogliamo e quindi quale città la rappresenta?

E’ vero che la consapevolezza dei guasti prodotti non intacca di per sé le centrali operative dell’ordine mondiale neoliberista; come è vero che confutazioni non sono possibili senza l’ausilio di alternative e che mettere a punto un modello di sviluppo radicalmente diverso da quello oggi vincente non si inventa di colpo, ma comunque pensare di andare verso qualcosa che restauri una democrazia in crisi, pone il problema di organizzare in modo nuovo e collettivamente, nello spazio pubblico, l’esercizio dell’avere, del potere, del sapere.

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Aldo Ceccoli

Aldo Ceccoli è uno degli animatori della Libera Università di donne e uomini "IPazia"

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