In tempi di “valorizzazioni” di beni pubblici e di “smart cities”, il libro-inchiesta di Ilaria Agostini e Daniele Vannetiello – Une ville à habiter (pref. di Alberto Magnaghi, Eterotopia, Paris, 2022) – indaga un “crimine” urbanistico e politico imperdonabile: il recupero della città storica e il suo autogoverno.
Al centro dell’inchiesta, la cittadina di Saint-Macaire, sul fiume Garonna, ribellatasi alla conquista da parte dell’industria turistica. «Non volevamo essere esclusivamente dipendenti dal turismo: le città che si consacrano al turismo ne diventano schiave», si dice in uno dei dialoghi tra autori e cittadini, riportati in appendice. Dalla metà degli anni Sessanta, attraverso le fasi di autogoverno e in seguito con un visionario governo comunale, si è generata un’esperienza «di democrazia diretta e di sostanziale pianificazione dal basso […] attuando in tal modo “un progetto urbanistico solidale con il progetto sociale”». (Ce n’è davvero abbastanza per una denuncia). In premessa, gli autori avvertono che i macariani si sono accorti (quei sovversivi) dell’importanza «del divenire insieme, del conferirsi vicendevolmente – tra viventi e spazio edificato – competenze e capacità». Insomma di quell’arte del formarsi insieme, del «farsi collettivamente» che Donna Haraway chiama simpoiesi. Abitare la città medievale (oggi, un village) diventa riconquista e difesa. (Ecco il pericolo!).
Gli autori si chiedono se la loro inchiesta possa «contribuire ad aprire uno spiraglio di possibilità future per le città storiche», nella direzione in cui una «eredità costruita» possa diventare «patrimonio vivente». (Insubordinazione degli stessi inquirenti!). Molto più di uno spiraglio si apre leggendo increduli la concatenazione dei fatti e delle idee che mostrano l’alternativa realizzata alla turistificazione coatta.
La definizione di patrimonio vivente è direttamente connessa al significato della parola posta nel titolo: abitare. Un’attitudine, l’abitare, connessa alla configurazione della città antica che governa la disposizione dei luoghi (il significato, la loro “natura”) e che dà forma a un sistema di valori irripetibili. In essa «ogni edificio è pensato in stretta relazione con lo spazio urbano in modo tale che la continuità promuova l’unità urbanistico-architettonica e istituisca il principio stesso di relazione tra i luoghi ai quali attribuiamo oggi significati che esprimono la qualità urbana» (G.F. Censini, Il senso del progetto, 2004). La qualità che fa così gola alla rendita delle immobiliari multinazionali, agli intercettatori di seconde case, a coloro che commercializzano la città-museo e la paralizzano (da un’intervista nel libro) e che un sempre crescente gruppo di cittadine/i di Saint-Macaire ha combattuto da vari decenni.
La ricognizione degli autori lungo quei decenni offre una quantità di spunti teorici e di pratiche, di documenti e di azioni esemplari. Ad esempio laddove – a partire da un verso di René Char: «Notre héritage n’est précedé d’aucun testament» – si riporta come Hannah Arendt esprima la necessità di preservare il patrimonio (storico), che «tuttavia non è incapsulato in un destino di potere, di gerarchie, di discriminazioni; per questo motivo il destino di quegli edifici dove storicamente è stato esercitato il potere, anche violento e coercitivo, può cambiare di segno, passando in mano pubblica per usi collettivi, incrementali, emancipatori».
Un tema ricorrente, sottostante, ripreso e assimilato dagli attori di questa riabilitazione urbana per inquadrare e orientare la discussione sulla opportunità di collocare la scuola primaria in un “castello” urbano affacciato sul fiume: «un lusso per tutti», «un innalzamento della qualità della vita dei cittadini». E ancora nella discussione sulle ri-destinazioni d’uso delle architetture monumentali che si pone in ogni città storica dove gli amministratori non siano i soliti officianti del lusso e delle sue pompe.
Un’altra proposizione interessante viene dal Sindaco architetto, figura centrale del salvataggio, nel ruolo di doppio progettista dello spazio politico e della reinterpretazione dello spazio fisico. In dialogo con gli autori sostiene che, in urbanistica come in architettura, «si fa la regola e poi il progetto, ma la regolamentazione non è l’anima del progetto, è l’inverso: si regolamenta solo perché si fa un progetto e si ritiene che vale la pena regolamentare». Ancora una dimostrazione lampante che un piano deve essere preceduto da un progetto; un principio da estendere a tutte le buone pratiche sociali e politiche da fare insieme.
Tra le tante sollecitazioni di questa ricerca che nello scorrere si fa racconto, una in particolare fa luce sul senso psicologico e filosofico del faticoso ricostruire dell’abitare la città antica. Gli autori la fanno sgorgare dalle parole di Simone Weil sulla partecipazione all’uso e al godimento dei beni collettivi che fa sì che «ciascuno si sent[a] personalmente proprietario dei monumenti pubblici, dei giardini, della magnificenza dispiegata nelle cerimonie». È quel sentimento che anima i giovani che, dal 1967, restaurarono ciò che resta di un chiostro romanico, facendone un centro sociale: «castellani del villaggio senza possederlo, ma usandolo a volontà e sentendosi ricchi per questo». Un pensiero in estensione che fa pensare a molti dei ritornati in paese che «la gestione municipale sia faccenda di tutti» non limitata al momento elettorale.
Avviandoci alle conclusioni, non si può non soffermarsi sull’immaginario mobilitante, sul ruolo cioè della fiaba, della saga, del mito mobilitante che spinge gli abitanti a sentirsi in un «pays de connaissance» che li sospinge a progettare e mantenere spazi desiderabili tali da attrarre abitanti; dove il “patrimonio”, salvato nelle pietre, può vivere in armonia con i bisogni contemporanei, può «convincere cioè che si può abitare un monumento», che si possono restituire all’uso collettivo gli edifici già luoghi del potere e del dominio.
Roberto Budini Gattai
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