L’articolo 41 bis comma II dell’ordinamento penitenziario viene introdotto come legislazione di emergenza nel 1992, ormai oltre 30 anni addietro. La norma palesa fin dall’origine gravi dubbi di costituzionalità giacché prevede la sospensione, in tutto o in parte, del trattamento penitenziario ordinario ossia della vocazione costituzionale di ogni pena al reinserimento della persona condannata. Per questa ragione ne viene stabilito il carattere provvisorio. A fronte dell’orrore suscitato dalle esplosioni di Capaci e di via D’Amelio, un impeto di rigore punitivo e securitario prende il sopravvento e giustifica una norma che, scaturita dalla necessità di impedire che i boss reclusi trasmettano all’esterno i loro comandi criminali, si traduce in una carcerazione che assai spesso si spinge oltre i limiti della tortura in ragione di restrizioni e vessazioni che in nessun modo involgono ragioni di sicurezza e di tutela della società. Quella legislazione è ormai immanente. La detenzione di rigore è contemplata anche per persone gravate dall’accusa di essere mere partecipi di consessi associativi, senza alcun ruolo di comando, anche per chi è in custodia cautelare, ancora non raggiunto da una pronuncia di condanna. E si rivolge anche a diversi contesti associativi, di tipo terroristico o relativi allo spaccio di sostanze stupefacenti. In realtà, anzi, il riferimento di legge è all’art. 4 bis O.P. che include un’ampia ed estremamente sfaccettata serie di reati.
Sono circa 750 i reclusi in 41 bis. È un numero che aumenta progressivamente perché, a dispetto della necessità che la pericolosità soggettiva sia verificata ogni due anni in termini di attualità e di perdurante capacità criminale qualificata – da intendersi come persistente attitudine di comando del capo ristretto sui sodali in libertà – i decreti ministeriali non vengono pressoché mai revocati. Con la modifica normativa del 2009 si è sancita una vera probatio diabolica per la persona ristretta in 41 bis alla quale è richiesto sostanzialmente di fornire elementi dimostrativi circa la cessazione del pericolo per la collettività. E non si comprende davvero come potrebbe offrirli a fronte del diuturno isolamento e della pressoché assoluta mancanza di attività trattamentali. Così c’è un tempo indefinito in cui la pena rimane sottratta alla sua anima costituzionale. Si tratta di decenni in cui la carcerazione manca della sua finalità riabilitante. Il mondo risocializzante della detenzione, educatori, psicologi, sfiora a stento il 41 bis; le c.d. relazioni di equipe intramuraria, espressione delle voci di tutti i soggetti del trattamento, assai raramente vengono redatte perché, appunto, non hanno molto da raccontare e non sono individuati obiettivi da perseguire.
La Corte Europea, nella pronuncia del giugno 2019, ‘Viola c. Italia’, ha ribadito l’esistenza di obblighi positivi di ogni Stato di fornire a tutti i detenuti, per qualunque reato, strumenti idonei a consentirne il reinserimento e ha specificato come il concetto di dignità, attorno al quale è costruito l’intero sistema ordinamentale, sia strettamente correlato a quello di prospettiva, di avvenire e di speranza. Ma nessuna aspirazione di recupero è prevista finché sei un detenuto in regime derogatorio. Da ultimo (d.l. 162 del 2022, convertito in L. n. 199 del 2022) si è stabilita normativamente l’esclusione dei ristretti in tale regime dalla possibilità di accesso ai benefici premiali e alle misure alternative al carcere.
Il processo di verifica del permanere della pericolosità soggettiva non può essere ‘giusto’ perché al recluso è sottratta la possibilità di manifestare, attraverso il godimento dell’offerta rieducativa, il proprio ravvedimento, se non collaborando con la giustizia.
L’assenza di strumenti trattamentali: opportunità di lavoro contratte al minimo; diritto allo studio fortemente ridotto dall’impossibilità di lezioni in presenza, dell’aiuto di tutor, dell’acquisto dei libri di testo se non per mezzo della amministrazione penitenziaria; cesura pressoché totale dei rapporti con la famiglia in ragione della reclusione in zone lontane da quelle di origine, con le conseguenti spese via via meno sostenibili per i congiunti, del vetro divisore, del tempo destinato al colloquio, solo un’ora al mese, dei traumi imposti ai figli minori (prima dei dodici anni accompagnati dall’altra parte del vetro divisore da un agente mentre i familiari vengono allontanati, dopo i dodici anni privati per sempre dell’abbraccio del genitore ristretto), censura della corrispondenza in entrata e in uscita, comporta per il detenuto in 41 bis l’incapacità di costruire una immagine di sé diversa dal reato che ha commesso e per cui ha fatto ingresso in carcere che possa essere valutata dal magistrato di sorveglianza territorialmente competente.
Dal 2009, inoltre, la competenza a giudicare sulla legittimità dei decreti ministeriali è affidata esclusivamente al Tribunale di Sorveglianza di Roma. La scelta normativa, radicata sull’intento esplicito di creare una uniformità giurisprudenziale su una materia che involge aspetti di tutela dell’ordine pubblico costituzionalmente presidiati, viola apertamente l’esigenza di prossimità sulla quale si fonda l’essenza stessa del giudice di sorveglianza cui è demandato il compito di accompagnare il detenuto nel difficile percorso di restituzione in società, attraverso la conoscenza diretta del suo vissuto intramurario e l’approvazione del programma trattamentale. Si è istituito, invece, un tribunale unico che nulla conosce del ristretto, che non ha modo di verificare la sua evoluzione né gli effetti che il tempo ha prodotto nel suo contesto esterno e fonda il proprio giudizio su note provenienti dalle procure competenti che forniscono del detenuto il ritratto immutabile disegnato dai reati che ha commesso o che gli sono contestati. Ciò, nel solco della vocazione legislativa, ha determinato un monolite giurisprudenziale che tende alla pedissequa validazione delle note degli organi di controllo interpellati anche quando mancano di contenuto dimostrativo rispetto alla pervicace ed attuale capacità di comando (ove l’abbia mai avuta) del soggetto reclamante.
Non solo. La competenza esclusiva ha appesantito notevolmente il carico di un tribunale sul quale grava già la competenza esclusiva sui collaboratori di giustizia e che, come molti purtroppo, patisce da anni una ingravescente situazione di inidoneità a smaltire il carico di lavoro per carenza di risorse umane e materiali. Così accade che la valutazione sulla legittimità della misura afflittiva arrivi quando la stessa è stata quasi per intero patita e che un provvedimento di natura amministrativa finisca per consumare la sua efficacia, comprimendo diritti primari protetti da riserva di legge e di giurisdizione, senza alcuna verifica giurisdizionale e che i decreti ministeriali si susseguano negli anni riproducendo asetticamente la storia giudiziaria del ristretto e portando, quali elementi di novità, vicende giudiziarie relative ai territori ma che, quasi sempre, nulla hanno a che vedere con le persone raggiunte dalla misura afflittiva cosicché fintanto che la mafia, nelle sue tante declinazioni, esiste in quei luoghi, anche senza alcuna connessione soggettiva col recluso, lo stesso rimane per sempre incastrato nel delitto di cui si è macchiato senza alcuna, neppure astratta, possibilità di emenda, escluso sine die da ogni attesa di riabilitazione e di restituzione.