La vera storia dei negazionisti del cambiamento climatico

Dopo l’estate più calda nella storia del continente europeo e in mezzo a fenomeni atmosferici sempre più estremi, nessuno può più negare la realtà e l’emergenza del cambiamento climatico. Nonostante questo la politica stenta a intervenire utilizzando la crisi energetica come scusa per continuare a utilizzare le fonti fossili e addirittura, in alcuni casi, per riaprire le centrali a carbone, com’è accaduto in Germania. Eppure gli scienziati cominciarono a mettere in allerta il mondo a proposito del cambiamento climatico già negli anni 80, quando, sulla scorta dei movimenti ambientalisti e dell’approvazione delle prime leggi per la protezione dell’ambiente, sarebbe stato il momento giusto per agire e per non far peggiorare rapidamente le condizioni del nostro pianeta.

Fu proprio allora che, dopo la sconfitta subita dalle lobby chimiche grazie al clamore mediatico e politico causato dal lavoro di Rachel Carson – di cui abbiamo parlato nell’episodio precedente di questa serie – le grandi multinazionali del fossile e le aziende petrolifere principalmente americane decisero di cambiare strategia per sconfiggere gli ambientalisti. Non più contro-argomentazioni, non più scienziati pro industria contro scienziati pro salvaguardia ambientale, non più demonizzazione del nemico ma un abbraccio mortale. I giganti del fossile si travestirono da ambientalisti ed entrarono nei luoghi dove si decideva del futuro climatico della terra, il classico lupo travestito da agnello che ci ha fatto perdere quasi quarant’anni nella battaglia per lo stop al cambiamento climatico.

È iI giorno della Terra 1971 quando negli Stati Uniti fa capolino in televisione uno spot con un attore truccato da nativo americano che naviga e passeggia in un paesaggio inquinato da fumi e sporcizia. Alla fine dello spot un uomo da una macchina tira della spazzatura ai piedi dell’indiano sulla cui guancia scende una lacrima mentre la voce narrante afferma ‘La gente ha iniziato l’inquinamento, la gente può fermarlo’. Un messaggio che scarica quindi le responsabilità dell’inquinamento sui comportamenti dei singoli. Keep America Beautiful è la sigla dietro lo spot, un’associazione in cui gli attivisti vengono impegnati in attività come raccogliere i rifiuti, rimuovere i graffiti, dipingere gli edifici e piantare il verde, mentre tra i partner ci sono Mc Donalds, Coca-Cola, l’industra americana del tabacco, quella della plastica e pure quella della chimica. Si può dire che con quello spot sia nato il greenwashing, basti pensare che subito dopo, Keep Americal Beautiful si oppose al bottles bill che avrebbe imposto ai produttori di bibite di vendere i loro prodotti in contenitori riutilizzabili. Proseguirono con operazioni di questo tipo anche la Chevron, compagnia petrolifera che nel 1985 lanciò la campagna People Do che serviva a mostrare il lavoro di ripristino delle paludi un tempo utilizzate per la ricerca di petrolio tra orsi, tartarughe marine e farfalle. Nel frattempo la Chevron violava il Clean Air Act, il Clean Water Act e riversava petrolio nelle riserve naturali.

Ma ci fu chi fece molto di peggio che dare una verniciata di verde alla propria immagine, la ‎Global Climate Coalition che nonostante il nome ha agito per anni contro l’ambiente e lo ha fatto grazie a E. Bruce Harrison il nemico giurato della Carson.

Negli anni 70 Harrison, che aveva un’agenzia di pubbliche relazioni insieme alla moglie che poi sarebbe divenuta presidente del Comitato Nazionale Repubblicano e collaboratrice di George W. Bush, fondò la NEDA (National Environmental Development Association). La NEDA, ben lontana da essere un’associazione ambientalista, era una coalizione di aziende chimiche, minerarie, petrolifere, del gas e agricole, insieme a politici e sindacati favorevoli all’industria e fortemente contrari alle nuove normative ambientali. Questi monitoravano tutte le proposte di politica ambientale, si assicuravano che la stampa avesse il punto di vista delle lobby, ma soprattutto esercitavano pressioni sui membri del Congresso e addirittura testimoniarono davanti alle commissioni sui danni economici che qualsiasi nuova regolamentazione ambientale avrebbe provocato.

Con questo curriculum fu facile nel 1992 per Harrison convincere la Global Climate Coalition che era l’uomo giusto nel posto giusto, assicurandosi un contratto da mezzo milione di dollari l’anno.

GCC

Già negli anni ’70 le industrie petrolifere avevano cominciato a investire denaro in ricerche sull’effetto serra che fu definitivamente confermato nel 1988 dallo scienziato della Nasa James Hansen in una testimonianza di fronte al Senato americano. Negli stessi anni a causa di un eccesso di petrolio, le compagnie petrolifere dovettero affrontare sia il crollo dei prezzi e che la minaccia di una regolamentazione ambientale. La GCC nacque un anno dopo, i guadagni delle lobby industriali non potevano essere frenati da leggi per proteggere l’ambiente.

La strategia di Harrison fu chiara fin da subito: da una parte convincere gli americani che la regolamentazione era un male per l’economia e che lo stile di vita americano doveva essere protetto a tutti i costi, anche a costo di un collasso ambientale, dall’altra entrare nei luoghi dove si prendevano le decisioni sul cambiamento climatico travestiti da ambientalisti. Fu così che i membri della GCC parteciparono a tutti gli incontri internazionali sul clima fino a prendere parte alla definizione del Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, alla stesura del rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) del 1992. Erano presenti alla prima Conferenza internazionale sul clima di Rio, negli anni convinsero i leader mondiali che c’era tempo per agire sul cambiamento climatico, che non si doveva mettere a rischio l’economia e che ci poteva affidare alla buona volontà delle aziende per limitare le emissioni.

Sono quattro pratiche comunicative della GCC individuate dagli studiosi di politica ambientale: sminuire la scienza del clima, evidenziare i costi dell’azione per il clima, spostare la concezione culturale del cambiamento climatico per opporsi alla riduzione delle emissioni di carbonio, condurre un’aggressiva attività di lobbying sulle élite politiche per bloccare un’azione significativa sul clima.

Oggi paghiamo cara l’avidità di Harrison e dei suoi clienti, ma quella mentalità che nega il cambiamento climatico è ancora ben presente anche nel nostro paese. Gli attacchi a Greta Thumberg, quelli agli attivisti di Ultima Generazione, la folle convinzione di alcuni che le temperature si stiano alzando per cause naturali e non a causa dell’uomo, tutto questo è figlio dei 65 milioni di dollari che la GCC spese nei suoi dodici anni di attività per finanziare campagne elettorali e per propagandare le proprie idee a tutto il mondo.