Lo scorso 21 settembre è scomparso Alberto Magnaghi. Dal 1988 professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica presso l’Università di Firenze, si forma politicamente all’interno dell’operaismo, nei primi movimenti studenteschi del 1963, ad Architettura a Torino. Sul piano disciplinare si riferisce al pensiero di Lewis Mumford, di Patrick Geddes, dei geografi francesi, ed al pensiero anarco-comunitario. Fonda, nel 1976, la rivista “Quaderni del territorio” e nel 2011 la Società dei territorialisti/e. Autore di piani, progetti e ricerche sullo “sviluppo locale autosostenibile”, esplicita la sua posizione teorica dapprima ne Il progetto locale (2000; edizione rinnovata Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, 2010), poi ne Il principio territoriale (2020).
“La città invisibile” lo ricorda con una nostra intervista risalente al dicembre 2003. (D. V.)
DANIELE VANNETIELLO: Vorrei iniziare questo colloquio partendo dalla tua analisi del modello insediativo metropolitano inteso come processo di cancellazione delle identità locali e di “liberazione” dal territorio. Tale processo, sostieni, si è realizzato in due fasi principali: in una prima fase, o “fase meccanica”, per mezzo di quella che, nel tuo libro del 1970, definisti “città fabbrica”, e in una seconda fase, o “fase telematica”, per mezzo della città del postfordismo. Potresti chiarire meglio questo tentativo di “liberazione”?
ALBERTO MAGNAGHI: Ho parlato di “liberazione dal territorio” dando al territorio un’accezione complessa, che comprende l’ambiente fisico, l’ambiente costruito storico, ma anche l’ambiente culturale: il milieu, come lo definiscono i geografi. Quando parlo di “liberazione dal territorio” intendo un processo di costruzione di una seconda natura artificiale perseguito dal moderno, in particolare attraverso l’applicazione della scienza all’organizzazione produttiva, che ha alimentato una cultura dell’ottimismo tecnologico: liberarsi dal territorio ha voluto dire superare la relazione co-evolutiva tra ambiente insediativo e ambiente naturale verso una autoreferenzialità dell’ambiente antropico; vale a dire ridurre la razionalità del sistema produttivo e riproduttivo alle relazioni uomo-macchinario-società considerando il territorio come puro supporto tecnico di attività economiche. Il luogo viene ricondotto ad uno spazio isotropo, indifferenziato, non più in relazione con la costruzione delle regole insediative. Sul lungo periodo ciò ha portato ad una contraddizione profonda, perché nel fare questa operazione storicamente rilevante si sono costruite quelle che ho definito “nuove povertà”. L’utopia, l’ottimismo di poter realizzare questa seconda natura artificiale, senza pensare alla vendetta della natura e della storia, ha creato quella che è definita crisi ambientale locale e planetaria, ma anche una profonda crisi identitaria, producendo modelli insediativi tendenzialmente omologati e omologanti. La fase “meccanica” ha portato a compimento l’organizzazione tayloristico-fordiana della produzione nel territorio; la Carta d’Atene propone la razionalizzazione del processo produttivo e riproduttivo, con grandi apparati produttivi monofunzionali, grandi apparati riproduttivi (quartieri dormitorio) monofunzionali, grandi ospedali, grandi luoghi del loisir, il tutto connesso da grandi movimenti pendolari; dunque una riorganizzazione funzionale che ha sepolto il territorio sottostante. L’era “telematica”, apparentemente, comporta qualche processo di riterritorializzazione, perché non procede più attraverso la massificazione delle attività, ma attraverso una organizzazione territoriale molecolare che produce complessità di funzioni; tuttavia il trasferimento emblematico dalla piazza reale alla “piazza virtuale”, dalla comunità reale alla comunità virtuale, se ha avuto da una parte effetti positivi, di democratizzazione dell’informazione, di allargamento della comunità mondiale, di comunicazione tra popoli (almeno quelli che accedono alla telematica), dall’altra ha trasferito in un dominio aspaziale molte parti della nostra vita quotidiana, contribuendo a ulteriori processi di deterritorializzazione. Vorrei aggiungere che ho parlato di “liberazione” dal territorio, non solo dall’ambiente fisico e dall’ambiente storico, ma anche dai milieu locali. La costruzione del sistema produttivo moderno avviene proprio attraverso la distruzione delle culture locali: i comportamenti e gli stili di vita legati ad ogni luogo sono considerati elementi negativi rispetto ad un processo produttivo che deve omologare nei comportamenti di produzione e di consumo l’operaio sardo di Ottana, l’operaio siciliano di Gela e l’operaio veneto di Marghera; tre figure antropologicamente del tutto diverse, che vivono in uno spazio fisico, di relazione sociale, dei tempi di vita completamente diversi, devono diventare operai chimici che si muovono nella fabbrica e nel consumo di salame in bustine di plastica allo stesso modo; non si sono solo raddrizzati i fiumi, forate le montagne, tentato di trasformare tutto in pianure isotrope per poter costruire questa seconda natura artificiale, ma si sono anche indotti cambiamenti antropologici profondi per creare comportamenti trattabili nel mercato mondiale.
DV: In un tuo scritto del 1987 sostenevi che fossero maturi i tempi per creare uno «sviluppo non più affidato alla modernizzazione (e quindi alla teoria della crescita economica illimitata), ma alla identificazione, ovvero allo sviluppo della società locale». In che modo la ricerca di nuovi modelli di sviluppo fondati sulla sostenibilità conferisce nuova centralità al territorio ed al locale?
AM: Questi studi hanno tenuto conto delle ricerche di alcuni studiosi americani, sugli USA e poi sull’Europa, dove, alla fine degli anni Ottanta, si cominciava a leggere il divario crescente tra produzione di crescita economica e benessere; furono messi in atto modelli come l’Index of sustainable economic welfare di Dely e Cobb, cioè indicatori di benessere che aggiungevano alla misura del Pil (prodotto interno lordo) altri elementi legati appunto alla qualità urbana, alle risorse ambientali, al consumo irreversibile di risorse non rinnovabili, ai costi da incidenti stradali, da disagi sociali prodotti dalla urbanizzazione metropolitana, etc. Da questi modelli emergeva che, mentre dal ’75 la curva del Pil continuava a crescere, quella del benessere, cioè la curva legata all’aggiunta di questi fattori correttivi internalizzati come costi della crescita, decresceva, puntando verso il basso; vale a dire che ad una crescita dell’economia corrispondeva una decrescita del benessere e una crescita di povertà. Il tema che si è aperto da quegli anni è come ricongiungere queste due curve, cioè come intervenire su quei fattori che provocano povertà. Allora è apparso chiaro che la produzione della ricchezza dovesse essere misurata con diversi indicatori, e quindi bisognasse recuperare e investire in quelle problematiche che il modello della crescita illimitata aveva dimenticato, saltato: vale a dire il tema della qualità urbana, territoriale, ambientale, della reidentificazione con i luoghi, della ricostruzione dello spazio pubblico e identitario. Questo ci ha portati al ragionamento sullo sviluppo locale come sviluppo che rovescia il precedente atteggiamento della modernizzazione rispetto alle culture locali, all’ambiente, ai luoghi, alle identità territoriali, e vede nella rivalutazione delle peculiarità dei luoghi — questo coacervo di qualità che noi chiamiamo generalmente patrimonio territoriale, estendendo la definizione canonica di patrimonio naturale e culturale — la possibilità di attuare modelli di sviluppo che chiamiamo autosostenibili. Una inversione di tendenza rispetto al processo di impoverimento generale prodotto dalla globalizzazione economica, una rivalutazione della relazione profonda tra qualità specifiche dei luoghi e popolazioni locali. Questo non vuol dire proporre modelli di localismo chiuso, difensivo: parliamo di localismo cosmopolita e quindi di scambio tra società locali (sempre più multietniche e multiculturali), tra microregioni, tra regioni; però scambio tra diversi, non scambio tra omologazioni, che è uno scambio inesistente.
DV: Dai tuoi scritti emerge con una certa frequenza l’esigenza di “rifondare la città”. Mi sembra che tu sottolinei due necessità principali legate a tale rifondazione: la ridefinizione dei limiti e dei confini della città da una parte, la costruzione di nuove centralità dall’altra. Parli anche di rito di fondazione della nuova città. Potresti chiarire meglio questi concetti?
AM: Nel mio testo Il progetto locale faccio una lunga disamina del modello metropolitano contemporaneo, prodotto dalla “liberazione dal territorio”, come un modello antitetico alla città, un modello di urbanizzazione che a mio parere distrugge il concetto di città così come nella nostra civilizzazione occidentale storica abbiamo concepito, cioè come luogo dotato di relazioni attive e di scambio con il proprio territorio, dotato di spazio pubblico, che non è solo spazio fisico ma è spazio di governo della cosa pubblica, un luogo partecipato: pensiamo al Comune medievale che è un po’ l’emblema della nostra armatura urbana italiana, dove il concetto di città è legato al concetto di polis, di autogoverno e quindi di relazioni complesse e inscindibili tra spazio pubblico e privato. Ora, sappiamo che le nostre periferie, progettate o informali (come le megalopoli “illegali” del terzo mondo), non hanno spazio pubblico: non è previsto nella concezione del progetto. Il progetto è fatto per una società che non si rappresenta più come tale, per piazzare monofunzioni come dormire, lavorare, consumare, spostarsi, monofunzioni che distruggono l’essenza stessa del concetto di città. Il concetto della rifondazione della città è essenziale per poter affrontare quei problemi creati proprio dalla sua dissoluzione, essendo la nostra civilizzazione fondata sull’esistenza di questo aggregato umano. Per rifondare la città bisogna che ci sia la campagna, sembra una banalità, ma una città che non esiste più e si diffonde nella campagna è una distruzione di entrambi i termini (rururbanizzazione); quindi innanzi tutto rifondazione del mondo rurale, che acquista funzioni sempre più importanti nella civiltà postindustriale nella quale la qualità della vita diventa l’epicentro della domanda sociale: solo ridando un ruolo agli spazi aperti ridefinisco la città; come sosteneva Cattaneo, la città è prodotta dal suo territorio, che a sua volta continuamente rigenera. Io uso la metafora della costruzione di “monasteri laici” nella campagna, centri che producono beni agroalimentari di qualità, ma anche beni e servizi pubblici (qualità ambientale, paesaggio, reti ecologiche), cultura; che sono legati a reti urbane, a reti internazionali, a scambi culturali. Un po’ come il monastero cistercense che ha la funzione principale di produrre cultura, ma produce anche bonifica agraria. Vedo l’azienda agricola non più come funzione depressa e debole dei territori metropolitani, composta da persone al margine della società, o come impresa industriale che destruttura il paesaggio rurale e i cicli ecologici, ma come una molecola della nuova cultura della sostenibilità, strettamente connessa con la città. L’altro aspetto fondamentale per la rifondazione della città è la rifondazione dello spazio pubblico, che non significa semplicemente liberare le piazze dalle auto e quindi recuperare spazi museificati per il turismo, ma è una ricostruzione che procede dalla partecipazione al governo della città di larghi strati della popolazione, per cui il futuro di un luogo non è più deciso da misteriose entità esogene che definiscono l’andamento dell’economia, della vita di una città; è la restituzione al municipio della sua capacità di governare il futuro del proprio territorio, attraverso la valorizzazione dei propri beni patrimoniali e attraverso la partecipazione di tutte le energie positive per la valorizzazione di questi beni. Dunque sì alla rifondazione di uno spazio pubblico fisico, di una piazza vera rispetto alla piazza telematica per ridare alla città luoghi di re-incontro sottratti alla pura circolazione automobilistica; ma tutto ciò è finzione se non lo si lega ad una nuova concezione del municipio come reale costruzione di governo collettivo della città.
DV: Oltre che sullo spazio pubblico, insisti anche sulle nuove centralità legate ai nuovi confini e ai nuovi limiti.
AM: I confini non sono più le mura di pietra, ma le mura invisibili date dagli equilibri ecologici, dagli equilibri produttivi tra città e campagna, e anche confini legati alla capacità di autogoverno: oggi vediamo Roma articolarsi in un certo numero di municipi che tentano un diverso rapporto con la popolazione, cioè si tende a scomporre i grandi aggregati in città di città. Nello spazio della città diffusa non esiste più centralità, oppure la centralità, ad esempio nel consumo associativo dei giovani, è legata ai mall, alla piazza interna degli ipermercati, perché la vita collettiva sorge anche nelle pieghe più disperate della periferia, ma certo si tratta di una deformazione del concetto di spazio pubblico urbano. Per nuove centralità intendo le nuove centralità della decisione, i luoghi che nella città medievale erano rappresentati dalla piazza della chiesa, del mercato e del comune, la triade formata dal potere religioso, mercantile e politico: oggi dobbiamo pensare alla piazza delle culture, dove diverse etnie e culture nella città multietnica si incontrano per decidere e governare socialmente il futuro di un luogo. Il concetto di abolizione delle periferie, che abbiamo introdotto in “Ecopolis” già negli ultimi anni Ottanta a Milano, era un concetto legato alla costruzione di una “città di villaggi”, oggi ripresa come “city of villages” nel piano della Greater London Authority del 2002. Col concetto di villaggio introducevamo il concetto di trasformazione di una periferia monodimensionale, cioè priva di centro, priva di funzioni complesse, legata unicamente alla riproduzione della forza lavoro, in una piccola città o villaggio. La metafora del villaggio richiama qualcosa che ha una storia, un’identità propria, una sua centralità, una complessità di funzioni, un autoriconoscimento della comunità; e quindi allude alla rottura del modello centro-periferico in vista di un’ipotesi di federazione di piccole città, sia a scala regionale, sia scomponendo la metropoli in tante piccole città dotate ognuna di complessità.
DV: Un tema che hai affrontato spesso è l’“identità di lungo periodo”. Sostieni che è necessario restituire a tale identità un valore operante. Che tipo di rapporto operativo è possibile intrattenere con le leggi di crescita della città e del territorio storico?
AM: Devo dire innanzi tutto che noi, nella scuola territorialista, dedichiamo molto tempo del nostro lavoro alla ricostruzione dell’identità dei luoghi. […] Si tratta di un lavoro complesso che rappresenta la territorializzazione etrusca, romana, altomedievale, medievale, per individuare le “strutture invarianti” o “identità di lunga durata”, cioè le permanenze del processo storico che consentono di definire i caratteri “statutari” dei luoghi. Questa operazione è finalizzata al progetto, in quanto leghiamo questa conoscenza “densa” del territorio all’ipotesi di fondare il progetto (o il piano) sulla valorizzazione del patrimonio; che non vuol dire museificazione, ma significa mettere in valore i giacimenti patrimoniali all’interno di processi di trasformazione. I giacimenti non sono semplicemente oggetti da conservare, ma regole da riprodurre: regole insediative, regole ambientali, saperi locali che hanno permesso alle strutture di lunga durata di arrivare fino a noi, e quindi resistenti alla trasformazione. Pensiamo al paesaggio agrario storico toscano, laddove le regole sulla conduzione del fondo mezzadrile, che troviamo scritte ad esempio nelle buone pratiche del Davanzati, sono regole ecologiche, estetiche, ambientali, di complessità del sistema delle colture: è una specie di “statuto dei luoghi”, che non fissa in modo museale un paesaggio, ma lo costruisce attraverso regole virtuose, che ne riproducono la qualità nel tempo. Quindi per invarianti strutturali intendiamo proprio regole virtuose per la riproduzione del progetto urbanistico, edilizio, di territorio, di paesaggio. Naturalmente tutto ciò ha senso dentro una teoria socioeconomica e urbanistica in cui la valorizzazione del patrimonio e delle diversità di ogni luogo diventa centrale nella produzione di ricchezza futura, altrimenti questa lettura approfondita del territorio storico non servirebbe, come non serviva nelle teorie razionaliste dell’urbanistica in cui si doveva fare tabula rasa per costruire una seconda natura artificiale. […]
DV: Recentemente hai sottolineato l’indifferenza dell’architettura e della città contemporanea alle qualità peculiari dei luoghi, sostenendo che le tecnologie industriali “liberano” l’edificazione dalla “schiavitù della natura”. Si generano così immagini e paesaggi figurativamente astratti dalle peculiarità del luogo. Puoi ampliare queste affermazioni?
AM: Non sostengo la necessità di una architettura di tipo vernacolare. Sicuramente, però, il fatto di riproporre un progetto, in campo architettonico, urbanistico, legato ad un dialogo con il contesto, ci ripropone il problema di come l’innovazione, urbanistica, architettonica o paesistica, debba in qualche modo alimentarsi di regole identitarie del luogo, e quindi del processo storico di identificazione di cui ho parlato. Non sono né per la copia degli stili, né per ripetizioni di architettura vernacolare, ma per una reinterpretazione dell’identità dei luoghi, che è un ragionamento diverso, che ammette la progettazione del nuovo, ma all’interno di un dialogo col contesto, e soprattutto con le regole di questo contesto che comportano anche dei limiti nel costruire: dei limiti della città, delle morfologie, dei materiali, delle tecniche, etc. Noi facciamo molti lavori con gli studenti proprio sul concetto di sviluppo delle regole del luogo e le mettiamo a confronto con il costruito delle nostre periferie, dove non c’è alcun rapporto con queste regole: ne vengono fuori esperienze critiche e progettuali interessanti. […] Io credo che l’architettura contemporanea soffra dell’autonomia del gesto, del progetto, da qualunque riferimento contestuale, cosa che nelle facoltà di architettura è teorizzata come una sorta di libertà: io trovo che sia una illibertà per il territorio, cioè che sia un processo distruttivo di senso, che la sommatoria di molti interventi di questo tipo non ricostruiscono. Con questo campionario di architetture, magari anche interessanti sul piano individuale degli oggetti rispetto ad un territorio che contribuiscono a destrutturare, non si ragiona sul fatto che un edificio è un pezzo di una storia, un elemento aggiuntivo di una struttura collettiva, e quindi o contribuisce ad aumentare il senso, o a destrutturarlo. Nelle facoltà di architettura i nostri ragionamenti sono ancora molto minoritari. Credo che esista maggiore consapevolezza di questo problema in alcune trasformazioni della cultura amministrativa che non nella cultura architettonica, e questo un poco mi inquieta. Siamo ancora in una cultura del progetto in cui costruiamo zone industriali con urbanizzazioni sommarie, in cui il progetto architettonico è fatto dalle ditte di prefabbricazione dei materiali, cioè non esiste progetto di architettura; nelle facoltà di architettura non si insegna architettura industriale, ed è folle perché l’edilizia industriale costituisce uno degli elementi di degrado del nostro territorio. Se ad esempio andiamo in Sud Tirolo o in Val Badia vediamo delle zone artigianali che non distinguiamo dal proseguimento del villaggio, del borgo, fatte con tecnologie in legno esattamente come la costruzione delle abitazioni, delle stalle, degli altri edifici; c’è una attenzione ai materiali, alle regole morfotipologiche che rende questi modelli assolutamente all’avanguardia rispetto alle nostre zone industriali. D’altra parte, la difficoltà a relazionare l’architettura e l’urbanistica al contesto è legata anche a fenomeni di colonizzazione culturale degli abitanti che chiedono la moltiplicazione di tettucci e villettopoli; per questo parlo della necessità di un cambiamento culturale senza il quale la messa in valore di questi patrimoni diventa difficilissima.
DV: Quali altri temi legati all’architettura ritieni si debbano affrontare nel contesto in cui ci troviamo?
AM: La ricostruzione di relazione tra spazio pubblico e privato nella città è un tema che ritengo fondamentale, che non può più essere affrontato come nella città fordista da cui veniamo, con uno standard medio per la famiglia nucleare urbana. Oggi dobbiamo pensare ad una graduazione di questo rapporto, legata ad una complessità sociale fatta di giovani, di single, di donne, di anziani, di bambini, di comunità etniche, per ognuno dei quali la relazione si pone in termini diversi; l’architettura dovrebbe occuparsi di questa diversificazione dello spazio di relazione come un problema importante nel progetto, nella costruzione delle aggregazioni di cellule abitative, di relazione con i servizi. Vorrei anche dire qualcosa sulla qualità architettonica dell’edilizia ecologica: sono molto critico sul fatto che in molti villaggi europei ed anche italiani, nell’affrontare la tematica ecologica ci sia un approccio ancora una volta funzionalista, nel senso che si riproducono gli stessi modelli di “villettopoli” con quattro pannelli solari ed un serbatoio: credo ci sia ancora molta strada da fare nel ricostruire una relazione tra la necessaria qualità ecologica dell’edificio e della città con l’invenzione, in questo caso, di forme del costruire che permettano di parlare di nuova architettura e non solo di bioedilizia. L’architettura dovrebbe inoltre ricercare modelli insediativi in cui la relazione tra privacy e vita collettiva non si risolva in modelli imitativi impossibili di una struttura patrizia, irriproducibile nella sua moltiplicazione democratica. Abbiamo invece modelli suburbani in cui vediamo la riproduzione seriale, rimpicciolita e densificata, della villa padronale (monovilla, bivilla, trivilla…). Ma la villa-fattoria nelle colline fiorentine è circondata da un grande parco, ha una recinzione sensata di questo grande parco, ha dei viali d’accesso, ha una sua misura nel territorio, una villa per un determinato numero di poderi, cioè ha una regola di riproduzione che fa il bel paesaggio toscano. Se la riproduco all’infinito miniaturizzata ogni dieci metri, ho creato un modello insostenibile che apparentemente democratizza la villa padronale, ma che in realtà distrugge il bene comune: il territorio. È il paradosso sui beni posizionali utilizzato da Hirsch ne I limiti sociali allo sviluppo: quando tutti hanno ottenuto la casa nel bosco il bosco non esiste più, non esiste più il bene posizionale, un po’ quello che è successo per le nostre coste italiane. E infine il tema delle regole insediative che dovrebbero fare da guida. […] Un aiuto alla progettazione che potrebbe venire dal settore urbanistico come lo intendiamo oggi, con questo lavoro sugli atlanti del patrimonio e sugli statuti dei luoghi, potrebbe essere quello di mettere il progettista di architettura di fronte ad uno statuto che descrive le regole, l’impianto, i valori, i patrimoni con cui confrontarsi quando progetta, e non di fronte ad un foglio bianco. L’avere questi statuti permetterebbe anche una grande libertà progettuale tenendo conto delle regole territoriali, e probabilmente avrebbe un’influenza molto importante nella rottura delle regole casuali con cui si “occupa” il territorio producendo danni notevoli.
La presente intervista è apparsa sulla rivista “Aión”, n. 5, 2004, pp. 20-25, e successivamente in Daniele Vannetiello, Verso il progetto di territorio. Luoghi, città, architetture, Aión, Firenze, 2009, pp. 173-178.
Daniele Vannetiello
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