Per repatriation s’intende il rimpatrio, la restituzione alle comunità di origine di oggetti e beni culturali conservati nei musei occidentali. Le richieste di restituzione hanno visto un incremento esponenziale negli ultimi anni e la questione è sempre più attuale e pressante negli ambiti dei musei. Il tema tuttavia impone riflessioni di natura etica, politica, storica e, non secondariamente, legislativa, meritando di ampliare il dibattito al di fuori degli ambiti strettamente operativi. A oggi, dal punto di vista normativo, il Codice dei Beni Culturali italiano impedisce il trasferimento permanente dei beni oltreconfine; tuttavia questa proibizione non è eticamente sufficiente a eludere la questione delle rivendicazioni da parte delle comunità d’origine, di natura proprietaria, di legittimità culturale e interpretativa dei valori e dei significati di beni posseduti dai musei. Potremmo cominciare col farci alcune, apparentemente semplici, domande: a chi appartiene la storia? Come connettere la storia coloniale occidentale con il punto di vista dei popoli colonizzati? É giusto e legittimo detenere il possesso esclusivo di testimonianze spesso ottenute con la violenza? A chi restituire?
I nostri musei conservano dipinti, sculture, opere d’arte dell’antichità, oggetti di uso comune e perfino resti umani ottenuti in larga parte attraverso saccheggi, guerre, furti, sopraffazioni coloniali. Esistono convenzioni come quella dell’UNESCO del 1970 e la UNIDROIT, appositamente pensate per contrastare il commercio di opere illegalmente trafugate, che prevedono azioni punitive e riparatorie come la restituzione. Tuttavia le procedure per la determinazione di attività illegali possono essere molto complesse. Per quanto riguarda i musei etnografici, ad esempio, l’individuazione delle modalità di acquisizione delle raccolte non è sempre comprovabile. Si pensi al periodo coloniale durante il quale la sottrazione sistematica di manufatti ai popoli conquistati era prassi legittimata, utile a plasmare l’immagine della supremazia dominante. Si può anzi affermare che gli oggetti dei popoli colonizzati custoditi nei musei occidentali raccontino la storia politica dei conquistatori piuttosto che illustrare le culture di origine. Certamente ci sono casi di acquisto di oggetti durante le missioni sul campo, ma rimangono i dubbi sull’asimmetricità delle transazioni. Una presa di tabacco, qualche perlina di vetro, conchiglie, sono stati in altri tempi i prezzi troppo spesso pagati per ottenere grandi quantità di oggetti da esporre nei nostri musei.
In ogni caso è innegabile che le raccolte di molti musei occidentali siano rivelatrici di un certo grado di violenza perpetrato. Anche il solo processo di sradicamento dal loro luogo di origine per essere “ingabbiati” all’interno di una vetrina, conferisce agli oggetti il segno di una violazione subita. Quanto spesso i nostri musei hanno ceduto alla tentazione di eleggere a opere d’arte alcuni manufatti, privilegiandone unicamente le doti estetiche. Quanto spesso vediamo oggetti isolati, illuminati, esaltati fino a renderli “artistici”, sacrificandone o non indagandone i reali significati o gli intenti originari. La collaborazione con le comunità di appartenenza potrebbe condurci a ridisegnare l’estetica delle nostre rappresentazioni, e dobbiamo essere mentalmente pronti al rischio che questo avvenga.
Per comprendere i termini sui quali si sta dibattendo, è necessario declinare anche il significato di alcune formulazioni, come “oggetti o reperti sensibili” e “oggetti ambasciatori”.
Come “reperti sensibili” si intendono in primo luogo i resti umani. Il codice etico dell’ICOM (International Council of Museums) fornisce alcune indicazioni nel paragrafo dedicato alla Esposizione di materiali sensibili: “L’esposizione di resti umani e di materiale sacro deve rispettare le norme professionali e, qualora l’origine sia nota, gli interessi e le credenze della comunità e dei gruppi etnici o religiosi da cui gli oggetti provengono. Questi ultimi devono essere esposti con il massimo riguardo e nel rispetto dei sentimenti di dignità umana propria di tutti i popoli”.
Gran parte dei musei occidentali ha recepito le indicazioni dell’ICOM, ritirando dalle esposizioni i reperti umani oggetto di controversie e adattando accorgimenti per ciò che riguarda il rispetto delle credenze spirituali e la dignità delle culture di appartenenza.
Uno dei casi più noti di “reperti sensibili” restituiti è quello, avvenuto nel 2002, dei resti della “Venere ottentotta” dal Musée de l’Homme di Parigi al Governo Sudafricano su richiesta del governo, ai tempi di Nelson Mandela. Si tratta di una orribile storia di violenza coloniale e schiavista di fine ‘700 operata in Sudafrica e successivamente in Gran Bretagna e in Francia. Una donna fu rapita e fatta schiava, ripetutamente esposta come fenomeno da baraccone in Europa, violentata e disumanizzata senza pietà. Morì a 25 anni e il suo scheletro, i genitali e il cervello rimasero in esposizione nel museo parigino fino ai primi anni ’70 del ‘900. Finalmente restituita, ebbe degna sepoltura, a 200 anni dalla morte. Questo tentativo di riparazione ha incoraggiato altre comunità native a percorrere richieste simili.
Per quanto riguarda invece gli accordi formali, uno tra i primi casi di normativa è il Native American Graves Protection and Repatriation Act (NAGPRA), emanato dal Governo statunitense nel 1990, che riconosce il diritto dei Nativi di accedere ai loro oggetti e prevede la restituzione dei resti umani e degli oggetti di culto sacri e funerari. Senza dubbio questa legge ha sancito la presa di coscienza della storia colonialista americana, tentando una strada di riparazione e di riconciliazione. Va tenuto presente però che il dialogo fra Nativi e istituzioni museali è semplificato dalla condivisione dello stesso territorio, che facilita il dialogo e la partecipazione dei Nativi alle pratiche conservative e espositive.
Il caso dei “reperti sensibili” spinge a una più generale riflessione sulla musealizzazione dei resti umani, che inevitabilmente diventano “oggetti” catalogati e riposti in magazzini o nelle vetrine dei musei, entrando in collisione con apparati culturali e religiosi delle culture di provenienza. Presso alcuni popoli la sepoltura o i riti di presepoltura rivestono un’importanza tanto fondamentale da rendere intollerabile il pensiero che antenati, o membri della loro comunità, si trovino lontani e in luoghi non sacri. Di queste istanze, che riguardano il complesso dei valori spirituali caratterizzanti comunità che spesso stanno ricreando la loro identità, non possiamo certamente disinteressarci.
Per ovviare alle restrizioni legislative, sono stati sperimentati e sono in corso di studio, vari programmi alternativi, consistenti ad esempio nella produzione di copie digitali in 3D o fotografiche da utilizzare per le ricerche in ambito museale. È un modo per preservare i resti umani da manipolazioni, per immagazzinarli e custodirli al riparo da fruizioni non autorizzate. Altri programmi prevedono il libero accesso ai resti da parte di membri delle comunità coinvolte. La questione si complica ulteriormente nel caso di resti umani antichi, per i quali è difficile determinarne il legame di discendenza con le comunità che li reclamano.
Si parla invece di “oggetti ambasciatori” quando l’esposizione in museo è frutto della cosiddetta “antropologia di collaborazione”, vale a dire l’attuazione di un progetto partecipato di dialogo con le comunità di provenienza dei reperti. Progetti di questo tipo sono particolarmente proficui poiché permettono di approfondire reciprocamente le conoscenze culturali e materiali. Pur coscienti che i processi di riconciliazione comportano sforzi continui e certamente complessi, la mediazione ha prodotto talvolta dei risultati originali. In alcuni casi la collaborazione ha permesso di preservare o di riattribuire i significati originari a certi oggetti, di cui la conservazione e l’integrità fisica era e rimane garantita dalle strutture museali. In altri casi l’esposizione di reperti è stata “approvata” dalle comunità originarie, tramite il rilascio di una sorta di permesso in cambio di una autorappresentazione delle comunità, o di un sostegno nelle lotte di affermazione dei diritti per la terra o per l’accesso alle risorse da parte di gruppi fortemente minacciati.
Una delle principali argomentazioni dei musei occidentali contro la repatriation, è rappresentata dall’evidenza che la conservazione degli oggetti da parte di generazioni di curatori museali ha permesso il mantenimento di un patrimonio di memorie materiali che per buona parte sarebbero probabilmente andate distrutte. In questo senso i musei-custodi potrebbero essere in grado di fornire un contributo nei processi di ricostituzione identitaria di intere comunità. Altra argomentazione riguarda la visione dei musei come “universali”, vale a dire luoghi di conservazione di oggetti acquisiti che sono diventati parte del patrimonio di quella nazione, dei quali ogni paese, indipendentemente dai confini, può essere fruitore.
Rimane il fatto che all’interno dei musei, come all’interno delle società occidentali, è difficile decolonizzare, spogliarsi delle proprie vesti, e forse anche disonesto nei confronti della storia, che non si cancella con operazioni di make-up formale. La decolonizzazione e la riconciliazione passano necessariamente attraverso la strada della collaborazione e dell’apertura a rileggere e modificare i paradigmi interpretativi occidentali.
La funzione dell’antropologo in museo si ridefinisce dunque nell’accuratezza della messa in atto dei processi partecipativi, ivi compreso la scelta degli interlocutori. La restituzione può avvenire per tante vie, ma non dovrebbe tramutarsi in un processo meramente paternalistico, inutile e vuoto. Restituire a chi, ci chiedevamo. Il nostro interlocutore non necessariamente è quello politico di stati richiedenti, più proficua è la collaborazione reciproca tra culture e saperi di appartenenza. I musei possono oggi funzionare come ponti, come mediatori tra gruppi umani, come riconciliatori di violenze del passato e del presente?
Maria Gloria Roselli
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